martedì 28 giugno 2016

NOTTI IN BIANCO, BACI A COLAZIONE



NOTTI IN BIANCO, BACI A COLAZIONE

di Matteo Bussola
Einaudi
2016, brossurato,
180 pagine, 17 euro


Non bisogna farsi fuorviare dalla fascetta, che potrebbe scoraggiare più di un potenziale lettore - e sarebbe un peccato. Già, perché il marketing punta a promuovere il libro come un evento mediatico virale tipico del Web (tutt'altro che "unico", visto che ormai scrittori, fumettisti, musicisti, comici e ballerini nascono tutti dai "like" della Rete) e la parola "Facebook" fa venire l'orticaria a chi invece va in libreria cercando conforto tra gli scaffali. Si tratta di un pregiudizio, di cui confesso di essere vittima così come sono sempre lieto di poter smentire. In effetti Facebook è solo un modo per veicolare contenuti, e al netto di gattini, cuoricini, buongiorni e buonenotti è perfettamente in grado di proporre autentica letteratura. Il "diario in pubblico" di Matteo Bussola (di professione disegnatore di fumetti ma del tutto a suo agio nel digitare su una tastiera) deve essere letto e valutato indipendentemente dal social su cui è nato. Anzi, a me un po' dispiace che per riuscire a emozionare le "300.000 persone" quantificate dalla fascetta ci sia voluta una simpatica lettera aperta a Fedez scritta per chiedere un autografo a nome delle figlie, la cui pubblicazione in Rete ha attirato l'attenzione della platea di Internet (e quella di un paio di editori, tra cui Einaudi): sarebbe bello che le cose belle arrivassero al grande pubblico anche senza il traino di rapper, personaggi televisivi o youtuber. Il "Diario in Pubblico" di Elio Vittorini, scritto le iniziali maiuscole perché è davvero il titolo di una raccolta di articoli dell'intellettuale siciliano, è un evergreen da oltre cinquant'anni senza supporti mediatici, e lo stesso, se non di più, si può dire del "Diario Clandestino" di Guareschi. In realtà, l'importante è che le cose belle arrivino a chi le apprezza, e se FaceBook può servire alla bisogna ben venga con tanti ringraziamenti. Dunque, Matteo Bussola è abituato a scrivere in Rete il suo diario quotidiano, annotando fatti piccoli e grandi (soprattutto piccoli) che gli succedono o di cui è testimone. Gli aneddoti e le garbate riflessioni dell'autore si leggono con piacere, divertimento e commozione. Non si parla dei massimi sistemi ma di un microcosmo famigliare composto da tre bambine, una mamma (Paola Barbato, a sua volta scrittrice di romanzi e apprezzata sceneggiatrice di Dylan Dog), un papà (lo stesso Bussola) e un bel po' di cani, alloggiati in una casa di campagna. Dagli accadimenti narrati non si cerca neppure una morale, che è insita nelle cose e ognuno la trae da sé, se vuole (e magari di segno opposto a seconda di chi legge). Ci si riconosce nelle scenette domestiche, così come accade, per esempio, nel "Diario del cattivo papà" realizzato a fumetti da Guy Delisle  - in cui mi riconosco di più, se devo essere sincero, perché cattivo papà a mio volta. Invece, Matteo è un padre con la vocazione del padre, contento di essere padre e padre a tempo pieno (gli invidio il fatto di sapersi godere la dimensione domestica, io che sono molto ma molto più randagio) e immagino il solluchero del pubblico femminile (merce rara, gli uomini così). Nessuna trama, ma il fil rouge dello scorrere delle stagioni. Immagino il divertimento delle tre figlie di Matteo quando, fra quindici o venti anni potranno leggere di loro stesse viste con gli occhi del papà.



venerdì 24 giugno 2016

SANTI E VAMPIRI




SANTI E VAMPIRI
di Carlo Dogheria
Stampa Alternativa
2006, brossurato
260 pagine, 14 euro

"Le avventure del cadavere", recita il sottotitolo di questo documentatissimo libro diviso in due parti, entrambe estremamente interessanti, ma con una mia preferenza per la seconda, quella dedicata ai santi.  Il punto di partenza comune è l'indagine sulle credenze riguardanti la, diciamo così, vitalità dei corpi dei morti dopo la sepoltura. Per millenni si è creduto, e ancora qualcuno ci crede, che un defunto possa, in determinate circostanze, compiere delle azioni anche a distanza di giorni, mesi, anni o secoli dall'ultimo battito del suo cuore. Le leggende sui vampiri sono un esempio di questo tipo di superstizione e di mitologia. Carlo Dogheria ricostruisce la casistica di incredibili testimonianze rintracciabili nei documenti dell'antichità. Il capitolo sui masticatori di sudari (cioè i cadaveri che nella tomba si sentono rodere i loro vestiti) è strepitoso. Ma sono soprattutto le leggende sui corpi dei santi che mi sembrano fantastiche. Ci sono santi che dalla loro tomba cantano durante la messa insieme ai fedeli; altri che, spogliati dopo la morte, provvedono a coprirsi da sé le pudenda. Dalla quarta di copertina: “santi che storpiano bambini colpevoli di giocare nei pressi della loro tomba, santi che espellono altri defunti di cui non gradiscono la sotterranea vicinanza, santi che accecano il custode della chiesa reo di avere spento la lampada davanti al loro sepolcro”. Non crediate che stia scherzando con i santi, che meritano ogni rispetto: casomai si scherza con dovesse prendere sul serio queste cose (e di sicuro anche i santi ridono di loro).

giovedì 23 giugno 2016

IL MIEI MARTEDI' COL PROFESSORE




MIEI MARTEDI' COL PROFESSORE
di Mitch Albom
Rizzoli-BUR
1998, brossura, 
200 pagine, 7.50 euro

L'impressione che ne ho ricavato è di trovarmi di fronte alla versione riassunta, edulcorata e buonista di "La mia fine è il mio inizio", il libro che Folco Terzani ha ricavato dalle sue conversazioni con il padre Tiziano arrivato alla fine dei suoi giorni nell'eremo dell'Orsigna. Qui il protagonista è un vecchio professore di non è ben chiaro che cosa (psicologia? Sociologia?) di una università del Massachusetts, Morrie Schwartz (realmente esistito al pari di Terzani, beninteso, nonostante l'erronea dicitura "romanzo" leggibile in copertina). Il narratore è invece Mitch Albom, giornalista, scrittore e sceneggiatore cianematografico con all'attivo "Le cinque persone che incontri in cielo" e "Un giorno ancora", che "hanno conquistato milioni di lettori in tutto il mondo" - ma di cui confesso di non aver mai sentito parlare. Albom è stato allievo di Schwartz nei suoi corsi universitari, e ne ha conservato il ricordo di una persona meravigliosa, il migliore dei suoi insegnanti. Così, quando a distanza di anni sente dire che il vecchio professore sta per morire, colpito da una malattia neurodegenerativa, la sclerosi laterale amiotrofica, decide di andarlo a trovare. Non solo: comincia a fare ogni martedì un lungo viaggio per trascorrere con lui mezza giornata, e seguire una sorta di ultimo corso di cui egli è l'unico studente, durante il quale, man mano che la SLA fa il suo sporco lavoro, Schwartz gli impartisce lezioni di vita e, direi soprattutto, di morte. I consigli di Morrie sono pacati e di buon senso, frutto di una pace e di una serenità interiore che non si crede facile da raggiungere di fronte alla sofferenza e alla prospettiva dell'addio. Invece il vecchio professore si rallegra di poter avere il tempo, dato il lento incalzare del male, di prepararsi alla morte e accomiatarsi da tutti. Colpisce, di nuovo, il parallelo con Terzani: anche il giornalista fiorentino diceva di essere ormai pronto a lasciare questa vita, distaccato dal mondo. In ambedue i casi mi sono domandato perché nessuno dei due abbia fatto una razionale previsione o ipotesi sull'aldilà, che è la cosa che più mi interesserebbe sapere da chi si dice sereno di fronte alla prospettiva di attraversare il tunnel. Tuttavia, sarà soddisfatto se anch'io, riuscirò a essere pronto, il giorno fatidico. Quanto al resto, Schwartz riflette sulla stupidità della paura di invecchiare o di invidiare i più giovani, sulla famiglia, sull'amore, sul matrimonio, sul perdono, sulle amicizie. Non fa rivelazioni epocali, si limita a snocciolare i convincimenti che ha maturato sulla base della sua esperienza di uomo circondato (indiscutibilmente per sui merito) da persone che gli vogliono bene. Il tutto argomentato con pacatezza e buon senso. Il che rasserena. Non rasserena vedere l'incalzare della SLA, e sono abbastanza certo che io, nelle stesse circostanze, farei un viaggio, senza ritorno, in Svizzera.

mercoledì 22 giugno 2016

PROFUGOPOLI



PROFUGOPOLI
di Mario Giordano
Mondadori, 2016
cartonato, 170 pagine
18.50 euro

Per una mia personale idiosincrasia, detesto e non leggo gli "istant books", i libri che commentano l'attualità, le inchieste giornalistiche che battono il ferro finché è caldo. Questo perché si tratta di testi destinati a invecchiare nel giro di un pochi mesi o di pochi anni, superati dagli eventi, contraddetti da ulteriori documenti e approfindimenti giunti in un secondo momento, privi di analisi a palle ferme e di ponderazioni sedimentate. Per la cronaca del presente, a mio avviso, bastano i giornali; per le ricostruzioni storiche (queste sì interessanti) serve che sia passato del tempo e i fatti si possano valutare con il necessario distacco tipico dello studioso. Tuttavia a volte faccio delle eccezioni, di cui di però di solito mi pento. Nel caso di "Profugopoli" il mio giudizio è senza infamia e senza lode, a parte per il grafico che ha ideato la copertina, sicuramente da infamare. Premesso che l'argomento è interessante, Giordano non aggiunge nulla (se non la dovizia di particolari) a quel che già si sa o si può facilmente immaginare su un mangiamangia fra i tanti che infestano lo Stivale. Va detto che l'autore non prende di mira gli immigrati, i profughi, i migranti o comunque i disperati che cercano asilo. Anzi, fin dalla sua introduzione difende i diseredati del mondo e soprattutto chi fa del vero volontariato, e chi cerca di aiutarli in modo onesto, generoso e disinteressato. Il bersaglio del pampleth sono gli approfittatori, i furbetti, le cavallette giunte a pasteggiare sul raccolto destinato ad altri, gli intrallazzatori, tutta la pletora di associazioni create ad hoc, di cooperative cambiate di destinazione, di privati ammanicati con i politici che hanno messo su un formicaio di divoratori di sostanze pubbliche sfruttando l'emergenza. Gente che non ha la minima competenza in materia improvvisamente ottiene l'appalto di forniture destinate all'emergenza e incamera quanto più denaro possibile senza erogare i servizi previsti. La gestione di ogni emergenza, in Italia, attira frotte di parassiti conniventi con i politici che dalla distribuzione di fondi guadagnano clientele o partecipazioni agli utili. Sulla pelle, ovviamente, dei poveracci. La casistica elencata da Giordano è disperante ed esilarante al tempo stesso, come l'accoglienza affidata a Firenze a una società di derattizzazione, o a Vibo Valentia all'Arcipesca. Cooperative che erano in passivo riescono miracolosamente a tornare in attivo, ma con soldi che in teoria non erano destinati a loro, e via dicendo. C'è di che scuotere la testa. Manca, tuttavia. quell'analisi del perché e percome delle migrazioni o sulle alternative proposte per affrontare il problema o sulle prospettive future di fronte al cambiamento epocale a cui siamo di fronte. Mi si dirà che il libro è appunto un'inchiesta giornalistica e non un saggio storico o sociologico. Ne prendo atto e appunto confermo il mio pregiudiziale disinteresse verso il genere.

domenica 19 giugno 2016

I NEOPLATONICI



I NEOPLATONICI
di Luigi Settembrini
Sellerio, 2001
brossura, 80 pagine
6.20 euro

Non inganni il titolo. Il libro non parla di filosofia, almeno non nella comune e più immediata accezione del termine. Si tratta, a tutti gli effetti, di un romanzo breve erotico, e per giunta dedicato a raccontare l'amore (vero, delicato ma completo e carnale) di due giovani adolescenti dell'Antica Grecia, Callicle e Doro. Dunque, si parla di un amore omosessuale. La storia, narrata in modo poetico e con incredibile candore ma senza tacer di nulla, colpisce soprattutto per l'anno in cui venne redatta (il 1859) e per il nome dell'autore: Luigi Settembrini. Vale a dire un rivoluzionario napoletano (1813-1876) protagonista dei moti antiborbonici del 1848 e autore del celebre "Protesta del popolo delle due Sicilie", per questo condannato a morte con pena commutata in ergastolo, quindi professore universitario e senatore del Regno dopo l'Unità. Insomma, un luminare. "I neoplatonici" venne scritto in carcere e rimase inedito fino al 1977, quando lo studioso Raffaele Cantarella ne scoprì il manoscritto fra i fogli dell'autore, che volontariamente li aveva celati per il loro contenuto scabroso. Dopo la prima edizione in cui Cantarella, non senza imbarazzo, provvide a inserire l'opera nel contesto di un interesse di Settembrini (sicuramente esistente) verso l'eros del mondo greco (il racconto è infatti estremamente dotto), Beppe Benvenuto cura dopo oltre vent'anni un nuovo ritorno alla ribalta commentando: "ci pare che che oggi il libretto possa essere apprezzato, persino meglio, senza troppe bardature erudite". Callicle e Doro (addirittura fratelli adottivi, essendo il primo andato ad abitare nella famiglia del secondo dopo la morte dei genitori) scoprono da soli la sessualità esplorando i propri corpi di giovinetti e vivono un amore libero senza paturnie. Forse era quello che Settembrini auspicava potesse accadere in un mondo utopico assai lontano dal suo e, purtroppo, anche dal nostro.

RITRATTO DI BUONA FAMIGLIA



Luciano Secchi
RITRATTO DI BUONA FAMIGLIA
Editoriale Corno
Prima edizione 1977
cartonato - 208 pagine
lire 4000

Luciano Secchi è lo pseudonimo di Max Bunker. In realtà dovrebbe essere il contrario, ma è con questo secondo nome che l’autore è universalmente conosciuto, quello con cui tutti gli si rivolgono. Però, nella sua veste di scrittore, sembra che Secchi tenda a non voler mescolare i campi d’azione. Anche nella scheda biografica pubblicata sui risvolti di copertina non si fa cenno a Kriminal, Satanik e Alan Ford. Si parla solo di Eureka. Il romanzo, il cui titolo non azzeccatissimo suggerisce toni e personaggi del tutto diversi, è stato pubblicato nel 1977 e, per certi versi, anticipa i tempi. Lo fa per l’uso della narrazione in prima persona e al presente, per esempio: oggi questo è di moda, allora si trattava senza dubbio di una soluzione assai meno diffusa. Lo fa per la crudeltà e la facilità nell’uso delle armi da parte del protagonista, che fa venire alla mente le uccisioni a bruciapelo di “Pulp fiction”, che però sarebbe giunto vent’anni dopo. Tuttavia è anche un romanzo ben calato nella realtà sociale e politica di quel tempo: si vedono i cortei con le bandiere rosse, gli estremisti di sinistra con gli eskimo e i capelli incolti, gli slogan contro i borghesi e il ceto medio. E proprio alla borghesia appartiene l’anonimo protagonista, di cui poco o nulla si sa, proprio a cominciare dal nome: ciò per una precisa scelta, poiché “più che un singolo è il simbolo di quello che già siamo o di quello che potremo diventare”, come si dice in quarta di sovraccoperta. L’io narrante è un giovane ricco annoiato, che vive di rendita o sulle spalle della madre (il padre non si vede mai), in un appartamento da single. Frequenta un ambiente “bene” fatto di feste e di ritrovi fra gente del suo stesso ceto, che però riesce solo a riempirlo di sbadigli. In lui, oltre alla noia, cova la rivalsa verso il lassismo delle autorità nei confronti della malavita e dell’estremismo rosso, che sente nemici giurati del proprio status. Da qui, la sua pronta accettazione della proposta fattagli da un amico, Daniele, esperto tiratore in un poligono privato, che ha un aggancio in Questura pronto a fornirgli dei bersagli umani: quelli di spacciatori di droga, pedofili, extraparlamentari di sinistra, politici corrotti, tutti però impuniti. Così, il protagonista e Daniele si trasformano in “giustizieri della notte”, animati non da un vero e proprio senso di giustizia, anche se personale, come nei film con Charles Bronson, ma da una volontà di rivalsa, da una affermazione di potenza. Però Daniele si rivela più debole dell’io narrante, che prova gusto nel sopprimere i “diversi da lui” per poi rifugiarsi nel branco svampito e nauseante degli amici borghesucci. Così, il protagonista si ritrova prima ad agire da solo, e poi a sopprimere il suo stesso complice, deciso a consegnarsi alla polizia. Tutto ciò si intreccia con una love-story fra l’io narrante e una certa Gilda, ragazza brutta ma che lui desidera contro ogni logica anche dopo essere stato rifiutato, quasi per una nuova sfida contro sé stesso; e con quella delle foto che ritraggono i suoi omicidi, recapitatigli misteriosamente dopo ogni uccisione. Alla fine, si capisce che si tratta di accadimenti paranormali, visioni scatenate dalla follia in cui va a precipitare sempre più il protagonista, forse la voce stessa della sua coscienza vigile, il super-io freudiano, che come gli invia sogni angoscianti, così lo mette di fronte alle sue responsabilità quasi a volergli dire che, comunque, c’è qualcuno che lo vede: sé stesso. Il finale è aperto (segue spoiler): scoperto dagli inquirenti dopo aver ucciso sia Daniele che l’amico in questura (il quale lo ha sfruttato per eliminare la moglie, dunque cedendo egli stesso alla corruzione morale che sembrava voler combattere), il killer con il silenziatore (così viene definito dai giornali) va a casa di Gilda e non si sa se per uccidere anche lei, o per portarla con sé in una ultima fuga disperata verso la Svizzera. Colpiscono nel segno le descrizioni dell’annoiante gruppo di amici “di buona famiglia”, le frecciate contro il giornalismo in eskimo, le stesse descrizioni dei cortei di  “bolscevichi”, con cui l’autore non è tenero almeno quanto non lo è con il suo eroe negativo. Il romanzo si legge tutto d’un fiato, il ritmo è serrato, lo straniamento in cui cade l’io narrante è ben descritto.  Si può notare solo che l’indeterminatezza del protagonista (senza nome, senza retroterra, senza volto, senza mestiere) rende le vicende sospese come in un incubo, come fossero fuori della realtà, come se accadessero in una visione. C'è talvolta un uso non ortodosso della punteggiatura (come nel caso di un “eh; eh; eh;” anziché del corretto “Eh!Eh!Eh!”) ma si tratta di peli nell’uovo: il romanzo è senza dubbio notevole.

venerdì 10 giugno 2016

IL BARONE RAMPICANTE


IL BARONE RAMPICANTE
E ALTRE IRRESISTIBILI STORIE DA LIBRERIA
a cura di Grandi&Associati
Sperling & Kupfer
2012, brossurato, 
270 pagine, 9,90 euro

Si tratta essenzialmente di uno "stupidario", cioè di uno di quegli aurei ed esilaranti libretti (come "La classe fa la ola mentre spiego", già recensito in questo spazio) che raccolgono il meglio del peggio uscito dalle bocche o dalle penne dei frequentatori di un certo ambiente (la scuola, l'ospedale, la caserma, eccetera). In questo caso, le perle sono stare udite in libreria e hanno corso di bocca in bocca per essere collezionate, nel giro di vari decenni, dai curatori del volume. "Questo è un volume di AA.VV., autori vari nel vero senso della parola. Hanno contribuito alla sua compilazione amici lettori, librai, scrittori, giornalisti, blogger. Noi, Grandi&Associati, agenti di lungo corso, abbiamo soltanto raccolto le perle migliori e più diverti (qualcuna ormai leggendaria), senza prendere in giro nessuno e senza voler fare i maestrini. Solo per dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che le librerie sono posti allegri e bisognerebbe frequentarle di più". Questo il testo sul risvolto di copertina, che dice già tutto, o quasi. Si potrebbe solo aggiungere un'altra utile annotazione, tratta dall'introduzione: "Questo volume non vuole insegnare né dimostrare niente a nessuno". Almeno in libreria, non si viene giudicati: se su fa uno sfondone, ci si sorride sopra. In ogni caso, in appendice c'è un dizionario in cui sono indicati i veri titoli o i veri autori deformati in modo divertente da tizio, caio o sempronio (che a turno potremmo essere tutti noi). La chicca più divertente, secondo me, è questa: "Si intitola 'Tutte le poesie', ma non so l'autore. Lo avete?". Ma anche questa non è male: "Buongiorno, ce l'ha 'Feta'?" "Cucina greca, intende?" "Ma no, 'Feta' di Aleffandro Baricco".

giovedì 9 giugno 2016

RUGHE DA SALITA





RUGHE DA SALITA
di Federico Pagliai
Biblioteca dell'Immagine
2011, brossoura
200 pagine, 14 euro

Si tratta del secondo libro di Pagliai, classe 1966 e stesso mio comune di nascita, dopo la raccolta di racconti "I miei crinali - Sedici colpi di pennato" (2008), che mi ha folgorato fin dal titolo. Il "pennato" io so benissimo cos'è, perché mio nonno, che andava per i boschi a far legna, lo portava sempre in vita appeso a un gancio che, ai miei occhi di bambino, doveva essere assai simile a quello a cui anche Zagor attaccava la sua scure. Fuori dalla montagna pistoiese, credo che si chiami roncola, ma non sono sicuro che questo secondo termine identifichi esattamente l'accetta arcuata, e dalle dimensioni di un machete, che conosco io. Fatto sta che i "sedici colpi di pennato" erano sedici testi scritti come se fossero stati incisi nella corteccia di un albero: testi scritti, dico, perché non sarebbe corretto neppure chiamarli racconti, dato che di inventato non c'era nulla e il talento dell'autore come affabulatore si manifestava non con l'invenzione ma con la narrazione. Pagliai raccontava cose che aveva visto, che sapeva, o di cui a sua volta aveva sentito raccontare, dando testimonianza di fatti, rappresentando persone, manifestando stati d'animo ed emozioni. Attraverso il suo personale punto di vista di uomo di montagna, abituato ad andare per crinali, a vivere in simbiosi con le rupi e il sottobosco, raccontava un mondo che piano piano va scomparendo. Con "Rughe da salita", l'impresa si ripete. Di nuovo, un titolo bellissimo, Accompagnato da una bellissima foto in copertina. Anche questa volta si tratta di una antologia (nove i titoli), e di nuovo si raccontano storie di montagna, di Appennino pistoiese. Rispetto alla prima prova, Pagliai si è fatto più maturo, anche se servirebbe qualche colpo di pialla o di sgorbia per eliminare le asperità dei colpi di pennato. Tuttavia, che sappia raccontare è innegabile. Si sta ad ascoltarlo a bocca aperta anche quando scrive "empire" per "riempire" o "piuri" per "mirtilli", scrive i mesi con la maiuscola ed esagera in puntini di sospensione e virgolette. Come se parlasse, appunto, e volesse mettere enfasi nel suo discorso. Se nei primi racconti l'esperienza raccontata era più personale, qui si parla di fatti d'altri e di personaggi incredibili, che quasi si fatica a credere che possano essere esistiti davvero. Ma i riferimenti sono precisi, l'autore è attendibile, e la gente di montagna è sempre un po' sopra le righe o un po' sotto. Taciturni e camminatori, con il fiuto per i funghi, l'istinto della caccia, la propensione verso il vino e le mangiate in compagnia (stomaci di ferro, quelli della gente di appennino), si tratta comunque di una razza in via di estinzione, perché sui crinali ci salgono sempre in meno, e lo spirito montanino non sembra essere stato ereditato dalle nuove generazioni. Ma, come scrive Mauro Corona nella sua prefazione, "vi sono molti modi per salvare il passato, vari modi per consegnare ai posteri un po' di memoria". E uno è raccontare ciò che si è visto, ciò che si sa. Talvolta facendo ridere, talvolta commuovendo. In questo modo, anche Celentano, l'uomo in grado di provocare un terremoto artificiale pur di vincere una scommessa, o la banda del Lago Santo, pronta a friggere i funghi con l'olio di una automobile pur di mangiarli, vivranno e rivivranno insieme al loro mondo trasferito su carta in attesa che altre leggende e altri mondi, sostituiti dai successivi, vengano a far loro compagnia.