martedì 20 agosto 2019

A MODO NOSTRO



Chen He
A MODO NOSTRO
Sellerio
2018, brossurato
360 pagine, 16 euro

Si potrebbe pensare a un noir. Un cinese di Wenzhou (la città del sud della Cina da cui provengono la maggior parte degli immigrati trasferitisi in Italia e in Francia), Xie Qing, viene convocato a Parigi dalle autorità di polizia, e dunque ottiene un viaggio spesato e un visto di ingresso, per riconoscere il cadavere di una donna, vittima di quello che sembra un incidente stradale avvenuto su una strada francese. La donna è Yang Hong, ex moglie di Xie. La sua automobile è finita in un fiume, e mentre l'acqua riempiva l'abitacolo lei ha fatto in tempo a fare due telefonate, una per richiedere soccorso e una a un numero sconosciuto. Xie Qing sospetta un omicidio e si trattiene a Parigi per indagare: niente di quanto accaduto sembra nelle abitudini di Yang, donna prudente e quasi astemia che invece sembrava essere ubriaca alla guida di una macchina spinta ad alta velocità, mentre aveva addosso un vestito lussuoso. Che vita conduceva la donna a Parigi? Un vero mistero per l'ex marito, che era stato abbandonato all'improvviso e lasciato in Cina. In realtà, l'aspetto poliziesco della vicenda non è affatto il predominante e, peraltro, non viene sfruttato quasi per nulla dall'autore. Tutte le spiegazioni vengono fornite, ma senza il climax che i gialliosti costruiscono per arrivare al colpo di scena di una rivelazione finale. Nessuna rivelazione. I fatti vengono raccontati in una alternanza di flashback ambientati tra gli anni Sessanta e Ottanta, e la narrazione principale che inizia nel 1993, e che ricostruiscono le vite parallele, poi intrecciatesi e quindi di nuovo divise di Xie e Yang. Le vicende sono però interessanti perché dipingono un quadro insolito e sconosciuto a noi europei della Cina prima della rivoluzione culturale, poi del regime maoista, quindi del periodo successivo e delle dinamiche dell'emigrazione, regolare e clandestina, dei cinesi in Europa. Xie sfrutta il permesso di soggiorno in Francia per cercare fortuna, più che per indagare sulla morte della moglie, e si trova arruolato al servizio di una ricca trafficante di uomini, Qiumei, che organizza trasferimenti in Italia e Francia di centinaia di cinesi paganti. Uno di questi "carichi" finisce in fondo al mare a causa di un naufragio nel Mediterraneo e ci sono centinaia di vittime. La cosa singolare è che Chen He, tutto sommato, presenta Qiumei come un personaggio positivo, che dà lavoro a tanti connazionali e che crea ricchezza in Cina grazie alle rimesse degli emigrati. La "normalità" con cui si tratta di lavoro in nero e sottopagato, di contrabbando, di aggiramento delle regole, di commercio senza autorizzazioni, dà piuttosto fastidio. Però, è chiaro come il quadro dipinto sia realistico. Singolare la descrizione anche della realtà dell'Albania, dove si svolge una parte del racconto  (in quanto base di smistamento del traffico di clandestini)  un tempo filo-maoista, e colpisce come esistesse un cinema albanese con un mercato cinese di milioni di spettatori.

lunedì 19 agosto 2019

COSIMO I DE' MEDICI



Roberto Cantagalli
COSIMO I DE' MEDICI
Mursia
cartonato, 312 pagine
1985, 25.000 lire

Più che si leggono, per passione, libri sulle vicende del passato e biografie di personaggi storici, più ci si rende conto di come la storia non sia proposta nel migliore dei modi dai programmi scolastici. Gli studenti, in genere, la trovano una materia noiosa. Invece, se si riuscissero a far risaltare la personalità degli uomini che ne furono protagonisti e il lato romanzesco delle dinamiche del suo scorrere, sicuramente anche i forzati delle aule di scuola imparerebbero a divertirsi nel leggere le pagine che li riguardano. Cosimo I de' Medici, tuttavia, è un personaggio affascinante anche se nessuno ricorda di averlo visto brandire una spada sul campo di battaglia. Non fu protagonista di imprese eroiche, non lo si ricorda perché fu campione di ideali democratici e liberali, non assassinò le sue mogli. Però, caspita, si trovò giovanissimo e assolutamente per caso nominato Duca di una Firenze distrutta da anni di guerre interne e da un assedio durato un anno (quello degli imperiali, tra il 1529 e il 1530) e trasformò il suo dominio nel Granducato di Toscana, uno stato vero e proprio al pari degli altri Regni europei, destinato a durare fino all'Unità d'Italia, nella seconda metà dell'Ottocento. La storia della sua salita al potere ha dell'incredibile. Dopo che l'imperatore Carlo V (un altro personaggio degno di monumentali biografie) ebbe restaurato a Firenze i Medici al governo di Firenze, papa Clemente VII (Giulio de' Medici) gli fece nominare Duca il proprio figlio naturale Alessandro (avuto dal Pontefice da una serva di colore, e per questo scuro di pelle e dai capelli crespi, detto appunto "il Moro"). Firenze e la sua campagna erano stati ridotte allo stremo, ferma l'agricoltura, interrotti i commerci, vendette politiche dei palleschi sui repubblicani all'ordine del giorno. Ma, soprattutto, la città era sotto tutela dell'imperatore che conservava le sue truppe stabilmente sul territorio. Carlo V era in pratica un occupante, il nuovo regime mediceo solo una facciata. Per di più Alessandro de' Medici era un gozzovigliatore incapace. Non c'era di che stare allegri. Sennonché, la notte dell'epifania del 1537, il cugino del Duca, Lorenzino, che di Alessandro era un compagno di baldoria, per motivi oscuri e del tutto personali, gli tende un agguato e lo ammazza a coltellate. Poi fugge a Venezia. Lorenzo era anche l'erede dello scettro ducale, ma certamente non avrebbe potuto essere lui il nuovo Duca, assassino com'era del genero di Carlo V (Alessandro ne aveva sposata una figlia). I maggiorenti del partito pallesco, capitanati da Francesco Guicciardini, individuano allora nel diciassettenne Cosimo (nato nel 1519), orfano di Giovanni delle Bande Nere, rampollo del ramo cadetto dei Medici (quello detto "dei popolani"), il migliore dei candidati possibili perché, essendo giovane e inesperto, avrebbe potuto essere facilmente manovrato dalle volpi più anziane, Guicciardini in testa, che si illudevano di regnare al posto suo, per interposta persona. Cosimo quindi venne nominato Duca credendo che potesse essere un burattino nelle mani dei maggiorenti fiorentini. Del resto, il ragazzo (alto e di bellissimo aspetto) era sempre vissuto in disparte con la madre e sembrava non capire nulla di politica. Ed ecco che, contro ogni aspettativa, Cosimo riesce in pochi mesi a far fuori o mettere all'angolo tutti i suoi tutori, a trattare direttamente con Carlo V, a sventare la minaccia dei fuoriusciti (come Filippo Strozzi), a prendere saldamente in mano il potere. Crea un regime di spie, di polizia, di censura, ma risolleva le sorti fiorentine, restaura la città, la abbellisce (Palazzo Pitti, il Giardino di Boboli, il corridoio Vasariano), rilancia i commerci, ingrandisce i domini. Sposa la figlia del viceré di Napoli, ne investe le cospicue ricchezze, ci fa undici figli e si assicura una dinastia. Con estrema furbizia, fingendosi amico di Carlo V, lo convince a ritirare, progressivamente, le truppe occupanti (gli fa prestiti in denaro di cui l'imperatore ha estremo bisogno e chiede quelli che potremmo definire "rimborsi in natura"), si annette Siena, rinforza Pisa e Livorno per scongiurare attacchi saraceni, manovra tre papi intortandoli magistralmente anche a costo di consegnare prigionieri all'inquisizione (perfino amici propri, come il povero Piero Carnesecchi). Insomma, Cosimo si rivela un politico machiavellico (sicuramente aveva letto "Il Principe"). Un despota, e senza scrupoli, ma intelligente e in grado di fondare un Regno. Nel 1570 Cosimo venne incoronato Granduca da Pio V. Morì nel 1574 e gli successe il figlio Francesco.

sabato 17 agosto 2019

LMVDM - LA MIA VITA DISEGNATA MALE



Gipi

LMVDM
LA MIA VITA DISEGNATA MALE
Coconino Press
cartonato - 150 pagine

"La mia vita disegnata male" è uno di quei fumetti che mi hanno costretto a rimuginarci sopra per giorni, dopo avermi dato un senso di angoscia mentre lo leggevo. Tutto questo, ovviamente, sia detto in lode del volume. Le sensazioni sono state quelle di quando ho letto certe cose di Andrea Pazienza, un altro autore nelle cui opere a volte non è facile distinguere la parte inventata dagli elementi autobiografici, anche se la necessitò di fare questa distinzione non è fondamentale né importante. Non so quanto della "vita disegnata male" di Gipi (Gian Alfonso Pacinotti, 1963) sia davvero accaduto o piuttosto aggiustato per dar vita a un graphic novel che per quanto autobiografico resta un'opera di narrativa. Però so che obbliga lettore a confrontarsi con uno spaccato di società, di umanità, di sofferenza, di degrado e di esaltazione che sicuramente esistono, là fuori. Niente di più lontano da me delle esperienze di gruppi di tossici che si inventano mix di farmaci, sostanze chimiche e droghe, però, caspita, leggendo Gipi ci si finisce dentro, si vedono e capiscono dinamiche, si partecipa alle ansie del protagonista, ci si angoscia per lui e con lui. A volte, si sorride pure amaramente insieme all'autore, che sceglie volutamente di "disegnare male" pur essendo capacissimo di "disegnare bene" (si vedano le tavole a colori con i pirati, intercalate alle pagine in bianco e nero in cui si segue l'odissea in carcere e dai medici dell'io narrante). Un disegno che si inserisce chiaramente in una scuola anche internazionale di artisti volutamente non "accademici", il cui stile si può apprezzare o non apprezzare ma che è adattissimo alla narrazione autobiografica, quella degli "scarabocchi" che ciascuno di noi ha dentro si sé nel groviglio dei ricordi.

venerdì 16 agosto 2019

LA MACCHINA PENSANTE



Jacques Futrelle
LA MACCHINA PENSANTE
I gialli economici Mondadori
1950, brossurato,
72 pagine, 100 lire

E’ davvero singolare la sorte dello scrittore statunitense Jacques Futrelle. Singolare, perché morì nel naufragio del Titanic, nel 1912, all’età di soli trentasette anni; ma anche perché la morte gli impedì di dimostrarsi un autore di gialli ancor più talentuoso di quello che, con soli sette romanzi all’attivo, si era già dimostrato. Leggendo le avventure del suo personaggio detto “La macchina pensante”, ovvero il professor Augustus Van Dusen, si resta affascinati dalla capacità di ragionamento logico che questi applica nell’esame di uno minimo dettaglio dei casi su cui si trova a indagare, riuscendo a risolverli in poco tempo mentre la polizia brancola nel buio. Polizia rappresentata dal borioso ispettore Mallory, ironicamente soprannominato “il Genio Superiore”, mentre è chiaramente superiore soltanto in incapacità. Jacques Futrelle, che aveva iniziato la carriera come giornalista per poi dedicarsi solo alla narrativa, si era imbarcato con la moglie Lily May Peel (anche lei scrittrice) nel viaggio inaugurale del Titanic. Al momento del naufragio, si accertò che la consorte fosse salita su una scialuppa e poi rimase a fumare l’ultima sigaretta in compagnia del magnate John Jacob Astor IV. Augustus Van Dusen compare per la prima volta nel romanzo “The Case of the Golden Plate”, del 1906, pubblicato in Italia con il titolo di “La macchina pensante”. Si tratta di un romanzo breve, in cui peraltro si dà la caccia a un ladro e non a un assassino. La storia è brillante e ben congegnata, ciò che ci viene fatto credere non è ciò che sembra, Van Dusen compare solo nella seconda metà ma, in poche pagine, viene rapidamente a capo di un problema apparentemente insolubile. Seguendo il suo ragionamento, quando egli stesso ce lo spiega, si resta affascinati. Peccato non avere a disposizione più racconti con la Macchina Pensante.

mercoledì 14 agosto 2019

IL PENDOLO DI FOUCAULT



Umberto Eco
IL PENDOLO DI FOUCAULT
Bompiani
1988, cartonato
520 pagine, 26.000 lire

Rileggere "Il pendolo di Foucault" trentun anni dopo la prima edizione (e altrettanto dopo la mia prima lettura) ha un effetto straniante e sorprendente. Il secondo romanzo di Umberto Eco mi piacque anche all'epoca, ma oggi l'ho trovato strepitoso. Superiore, molto probabilmente, a quel "Nome della Rosa" da tutti considerato il capolavoro letterario dell'autore. Ma soprattutto, attualissimo. La perfetta dimostrazione di come i complottisti abbiano attraversato tutte le epoche storiche e l'irrazionalità, la superstizione, il "ciarpame occultista" (definizione dello stesso scrittore) abbiano sempre preso il sopravvento. Eco è impietoso nel descrivere, per esempio, il passaggio delle librerie milanesi dei primi anni Settanta, piene zeppe di saggi di teoria marxista e rivoluzionaria, a quelle dei primi anni Ottanta, convertite alle discipline esoteriche orientali a cui avevano cominciato a dedicarsi gli ex studenti disillusi. Ma il rifugio nella magia, negli arcani, nelle società segrete, nei misteri iniziatici era sempre stato cercato fin dai tempi più antichi, e il sonno della ragione ha sempre generato mostri. Rispetto al "Nome della Rosa", "Il pendolo di Foucault" non ha né unità di tempo né unità di luogo. Non c'è neppure una trama facile da descrivere e da ricostruire, anche se gli accadimenti non mancano. Per di più, i primi capitoli sono decisamente ostici, quasi come se Eco avesse voluto scremare il suo pubblico e scoraggiare chi fra i lettori sperava in un altro giallo storico o almeno in un mistero da risolvere. Potremmo dire che a fare centro di gravità dell'intera, complessa costruzione, sia la sede milanese della piccola Casa editrice Garamond, e che l'arco temporale principale comprenda gli anni tra il Sessantotto e il 1984. Tuttavia i personaggi si muovono anche in Piemonte, a Parigi, in Brasile e seguendo le elucubrazioni dell'autore si finisce per spaziare nelle epoche storiche: si parte con i Templari e si finisce (si finisce?) con i Nazisti. Eco si compiace di far sfoggio di incredibile erudizione e ficca nelle sue pagine una mole impressionante di fatti, persone, libri, date, citazioni. E' facile rimanerne storditi ma se invece ci si lascia incantare e guidare la vertigine si trasforma in estasi. Quasi crediamo anche noi al Piano ideato per gioco da Casaubon, Belbo e Diotallevi, redattori della Garamond alle prese con la cura di una collana dedicata all'esoterismo, dove tutto torna, e dove tutto è compreso, dai Rosacroce alla massoneria, da John Dee a Bacone a Shakespeare e a Hitler, dai testi gnostici ai Protocolli dei Savi di Sion, e dove le Piramidi e la Torre Eiffel hanno una relazione fra loro al pari dei tunnel della metropolitana o delle fogne di Parigi con la Fortezza di Alamut. Proprio perché l'intera storia è attraversata dai sotterranei del complottismo e dell'esoterismo, il romanzo non poteva essere meno complesso e onnicomprensivo. Se il personaggio più interessante è il cinico e ironico Jacopo Belbo, se quello più inquietante è Agliè, che si finge (o è?)il  Conte di Saint-Germain passato indenne attraverso i secoli, il più simpatico è sicuramente Lia, la moglie dell'io narrante Casaubon, che rappresenta lo sguardo razionale sulla realtà dei fatti, quella che smonta in poche ore il presunto testo su cui si basa la ricostruzione di un piano dei Templari destinato a dipanarsi per seicento anni. Persino la nota della lavandaia, se guardata  con gli occhi di chi vuol credere al complotto, può essere decifrata come un testo esoterico. E se misuriamo un qualunque chiosco in un parco troveremo delle corrispondenze astrali. Eco si fa beffe da par suo dei "diabolici" che si irretiscono a vicenda rifiutando le spiegazioni logiche e scientifiche in favore di un torbido almanaccare cabalistico, alchimistico, trascendentale, magico-iniziatico e chi più ne ha più ne metta. Ci sono pagine esilaranti, altre angoscianti: tuttavia, tutto torna, tutto si tiene. E si capisce bene, alla fine, come proprio il buio della ragione sia il principale pericolo da cui guardarsi. In tempi come i nostri, affollati di complottisti e caratterizzato da un crescente rifiuto delle verità scientifiche più elementari in favore di leggende metropolitane simili a quelle rosacrociane, il romanzo di Eco è attualissimo.