Tiziano Sclavi
NON E’ SUCCESSO NIENTE
Arnoldo Mondadori Editore
Prima edizione 1998
cartonato - 422 pagine - lire 32000
La copertina, che vale da sola l’acquisto del libro, è una citazione da Roland Topor. A prima vista sembra solo tutta bianca, poi, guardando meglio, si capisce che riproduce la grafica di un quotidiano. In alto, al posto della testata del giornale, il nome dell’autore. Poi, come un titolo a otto colonne, “Non è successo niente”. Il resto è bianco di conseguenza, come lo sarebbe un quotidiano in un giorno in cui non ci sia niente da raccontare per mancanza di notizie. Sotto la copertina, il più corposo romanzo di Sclavi (il creatore di Dylan Dog), dalle dimensioni quasi kinghiane. Il più scorrevole, il più coinvolgente, il suo migliore. Non si capisce però perché nei risvolti di copertina si parli come se fosse un racconto brillante, divertente, quasi umoristico. Al contrario, è drammatico e disperante. Mette addosso un’angoscia indicibile. L’autore si libera delle proprie nevrosi raccontandole impietosamente, e le trasmette a chi legge. Non c’è niente da ridere. Neppure negli aforismi. “Dio c’è. Adesso si tratta solo di trovarlo e riempirlo di botte” (ma è di Sclavi o è una citazione? La domanda non è balorda): sarebbe un perfetto sottotitolo.
Scrivere “Non è successo niente” è sicuramente servito all'autore più di una serie di sedute psicanalitiche (quelle che, dopo decenni, oggi in una intervista dice di aver interrotto perché tanto hanno lo stesso effetto degli psicofarmaci, cioè nessuno). Infatti Sclavi, nel suo romanzo, non inventa nulla, o quasi. Parla di sé stesso e di chi gli sta abitualmente vicino, come se fosse sul lettino di Freud, semplicemente cambiando i nomi, e a volte neppure quelli. Mi chiedo anche che effetto faccia la lettura di questo libro a qualcuno che non conosca l’autore, né capisca che dietro a ogni personaggio c’è una persona reale (facile da riconoscere). In questo, “Non è successo niente” rappresenta il seguito perfetto de “Le etichette delle camicie” (o forse il suo inevitabile sviluppo). Come nel romanzo precedente, Sclavi si è sdoppiato in tre (se in tre ci si può sdoppiare, e non solo in due). E’ Tiziano Sclavi, autore del seguito di “Dellamorte Dellamore” inviato in lettura a un altro sé stesso; è lo scrittore Cohan; ma è anche Tommaso Carta, autore di fumetti alcolizzato, caduto in un abisso di disperazione e ormai incapace di scrivere una riga. Tommaso Carta, abbreviato in Tom così come Tiziano, in redazione, era abbreviato in Tiz, era il protagonista de “Le etichette delle camicie” e anche lì faceva l'autore di fumetti, creatore di una serie che vendeva oltre trecentomila copie a numero, ma caduto in crisi creativa per qualcosa che non va nella sua testa, un disagio esistenziale senza cause precise, dovuto a mille, piccole cose come le etichette delle camicie che pungono sul collo.
Sembra che Sclavi abbia voluto intenzionalmente scindere nettamente l'autore di fumetti da quello dei romanzi. In ogni caso Cohan vive sugli allori di passati successi, è vittima di nevrosi, manie, fobie, non lavora, va dall’analista, non vorrebbe mai uscire di casa, convive con una donna più giovane di lui che è la sua ragione di vita ma anche l’oggetto del suo terrore che lei si stanchi e lo lasci. Anche lei, un bel campionario di follie. Sclavi racconta delle proprie manie di autodistruzione, delle sigarette spente sul proprio corpo, dei tentativi di suicidio, delle cure con l’elettroshock. Racconti allucinanti, disperati, sconvolgenti, che non fanno dormire se solo ci si sofferma a pensare. A sostenere la non-trama (del resto, non è successo niente) il “giallo” di Paride, commercialista che trama una truffa miliardaria ai danni di Carta, di Cohan, dell’editore Ravasciò, e di tutti i dipendenti di una (chissà quale) casa editrice. Eccezionali le pagine in cui si racconta della scoperta degli ammanchi e di Paride messo di fronte alle proprie responsabilità, la descrizione delle sue reazioni, del tipo d’uomo. Meno male che alla fine c’è una speranza di redenzione sia per Tom Carta e per Cohan: il primo si libera dall’alcool frequentando gli “Alcolisti Anonimi” (ma che dramma anche quelle riunioni!); il secondo sposa la sua convivente e trova la forza di uscire fuori dalle proprie fobie. Per finire, ci sono da notare gli artifici grafici mediati dal fumetto con cui si esprimono le frasi gridate o pronunciate in un certo modo: maiuscole, neretti, sottolineature. E i neologismi, tutti fantastici, fanno rimpiangere che Sclavi abbia deciso, dopo questo romanzo, di non scrivere (quasi) più.