martedì 26 aprile 2016

NON E’ SUCCESSO NIENTE



Tiziano Sclavi
NON E’ SUCCESSO NIENTE
Arnoldo Mondadori Editore
Prima edizione 1998
cartonato - 422 pagine -  lire 32000

La copertina, che vale da sola l’acquisto del libro, è una citazione da Roland Topor. A prima vista sembra solo tutta bianca, poi, guardando meglio, si capisce che riproduce la grafica di un quotidiano. In alto, al posto della testata del giornale, il nome dell’autore. Poi, come un titolo a otto colonne, “Non è successo niente”. Il resto è bianco di conseguenza, come lo sarebbe un quotidiano in un giorno in cui non ci sia niente da raccontare per mancanza di notizie. Sotto la copertina, il più corposo romanzo di Sclavi (il creatore di Dylan Dog), dalle dimensioni quasi kinghiane. Il più scorrevole, il più coinvolgente, il suo migliore. Non si capisce però perché nei risvolti di copertina si parli come se fosse un racconto brillante, divertente, quasi umoristico. Al contrario, è drammatico e disperante. Mette addosso un’angoscia indicibile. L’autore si libera delle proprie nevrosi raccontandole impietosamente, e le trasmette a chi legge. Non c’è niente da ridere. Neppure negli aforismi. “Dio c’è. Adesso si tratta solo di trovarlo e riempirlo di botte” (ma è di Sclavi o è una citazione? La domanda non è balorda): sarebbe un perfetto sottotitolo.  
Scrivere “Non è successo niente” è sicuramente servito all'autore più di una serie di sedute psicanalitiche (quelle che, dopo decenni, oggi in una intervista dice di aver interrotto perché tanto hanno lo stesso effetto degli psicofarmaci, cioè nessuno). Infatti Sclavi, nel suo romanzo, non inventa nulla, o quasi. Parla di sé stesso e di chi gli sta abitualmente vicino, come se fosse sul lettino di Freud, semplicemente cambiando i nomi, e a volte neppure quelli. Mi chiedo anche che effetto faccia la lettura di questo libro a qualcuno che non conosca l’autore, né capisca che dietro a ogni personaggio c’è una persona reale (facile da riconoscere). In questo, “Non è successo niente” rappresenta il seguito perfetto de “Le etichette delle camicie” (o forse il suo inevitabile sviluppo). Come nel romanzo precedente, Sclavi si è sdoppiato in tre (se in tre ci si può sdoppiare, e non solo in due). E’ Tiziano Sclavi, autore del seguito di “Dellamorte Dellamore” inviato in lettura a un altro sé stesso; è lo scrittore Cohan; ma è anche Tommaso Carta, autore di fumetti alcolizzato, caduto in un abisso di disperazione e ormai incapace di scrivere una riga. Tommaso Carta, abbreviato in Tom così come Tiziano, in redazione, era abbreviato in Tiz, era il protagonista de “Le etichette delle camicie” e anche lì faceva l'autore di fumetti, creatore di una serie che vendeva oltre trecentomila copie a numero,  ma caduto in crisi creativa per qualcosa che non va nella sua testa, un disagio esistenziale senza cause precise, dovuto a mille, piccole cose come le etichette delle camicie che pungono sul collo
Sembra che Sclavi abbia voluto intenzionalmente scindere nettamente l'autore di fumetti da quello dei romanzi. In ogni caso Cohan vive sugli allori di passati successi, è vittima di nevrosi, manie, fobie, non lavora, va dall’analista, non vorrebbe mai uscire di casa, convive con una donna più giovane di lui che è la sua ragione di vita ma anche l’oggetto del suo terrore che lei si stanchi e lo lasci. Anche lei, un bel campionario di follie. Sclavi racconta delle proprie manie di autodistruzione, delle sigarette spente sul proprio corpo, dei tentativi di suicidio, delle cure con l’elettroshock. Racconti allucinanti, disperati, sconvolgenti, che non fanno dormire se solo ci si sofferma a pensare. A sostenere la non-trama (del resto, non è successo niente) il “giallo” di Paride, commercialista che trama una truffa miliardaria ai danni di Carta, di Cohan, dell’editore Ravasciò, e di tutti i dipendenti di una (chissà quale) casa editrice. Eccezionali le pagine in cui si racconta della scoperta degli ammanchi e di Paride messo di fronte alle proprie responsabilità, la descrizione delle sue reazioni, del tipo d’uomo. Meno male che alla fine c’è una speranza di redenzione sia per Tom Carta e per Cohan: il primo si libera dall’alcool frequentando gli “Alcolisti Anonimi” (ma che dramma anche quelle riunioni!); il secondo sposa la sua convivente e trova la forza di uscire fuori dalle proprie fobie. Per finire, ci sono da notare gli artifici grafici mediati dal fumetto con cui si esprimono le frasi gridate o pronunciate in un certo modo: maiuscole, neretti, sottolineature. E i neologismi, tutti fantastici, fanno rimpiangere che Sclavi abbia deciso, dopo questo romanzo, di non scrivere (quasi) più.

lunedì 25 aprile 2016

CHE DICE LA PIOGGERELLINA DI MARZO



CHE DICE LA PIOGGERELLINA DI MARZO
a cura di Piero Manni
Manni
2016, brossurato
200 pagine, 16 euro

"Le poesie dei libri di scuola degli anni Cinquanta" (come recita il sottotitolo) vengono recuperate in un volume antologico per la gioia dei ragazzi che furono, e magari anche per quella dei ragazzi che sono. L'idea, di per sé, vale il massimo dei voti. La realizzazione, un po' meno. Vediamo perché. Il florilegio è chiaramente nato per suscitare ricordi a cascata sull'onda del richiamo mnemonico delle poesie che le maestre (Dio gliene renda merito) ci facevano  imparare a memoria. Quelle rime (qui ci si riferisce agli anni Cinquanta, ma anche nei testi che ho avuto io a cavallo fra i Sessanta e i Settanta più o meno erano le stesse) ci sono rimaste in mente e ancora oggi ci fanno compagnia, non soltanto con la loro musicalità e cantabilità (la metrica è uno strumento musicale al servizio della poesia e non una prigione o un limite), ma anche per i loro contenuti: il sacrificio dei trecento "giovani e forti", le sofferenze di Venezia quando il morbo infuriava e il pane mancava, il girovagare di Maria e Giuseppe tra gli alberghi di Betlemme finché il campanile non scocca la mezzanotte santa. E tutti abbiamo disegnato le tre casettine dai tetti aguzzi di Rio Bo. Dunque, se tutto questo è bello, perché pubblicare una introduzione di Piero Dorfles che ritiene certe letture "inflitte", giudica i versi venati di "romanticismo stantio", e pieni di "visioni decadenti e retorica sentimentale e patriottica"? Perché liquidarne la lingua come "aulica e artificiosa", che "non parlava più nessuno nemmeno nei ministeri"? La lingua, si badi bene, di Pascoli, Carducci, Manzoni, Giusti e Palazzeschi (per citare alcuni dei poeti rappresentati). Forse, mi chiedo, la lingua di Mario Luzi oggi la si parla correntemente? E Gadda (citato come esempio alternativo dal Dorfles) lo si può leggere con facilità in ogni consesso? Non nego che i bambini debbano venire educati al passo con i loro tempi, ma perché mai negli anni Cinquanta sarebbe stato un male imparare a memoria "La cavalla storna", che ancora oggi farebbe la sua bella figura nei libri di testo? Insomma, come introduzione a in libro velato di nostalgia serviva (secondo me, e parlo da vecchio bambino) un testo più benevolo verso i contenuti della raccolta. Meglio non va con le note di Piero Manni ai singoli componimenti.
Commentando "Pianto antico" si cita una barzelletta, in chiosa del De Amicis si dice che è sdolcinato, di Ada Negri si sottolinea solo che fu "fascistissima" (immagino valga anche per il D'Annunzio), di Papini si nota che fu il nonno di Ilaria Occhini, di Pascoli il massimo che si arriva a commentare è che è mieloso e mellifluo e niente viene detto per esempio sulle circostanze della morte del padre del poeta che portarono a scrivere della cavallina che ne riportò il cadavere. Naturalmente, per il curatore, l'unica cosa che importa sapere riguardo a "L'ultima ora di Venezia" è che sia stata citata da Franco Battiato nella sua "Bandiera bianca". Le spiegazioni sono poche e occasionali: non si capisce perché si tracci una breve biografia di uno e non di un altro autore, perché sia accenni al fatto storico alla base de "La tomba nel Busento" e non de "La spigolatrice di Sapri". Si resta con la voglia di sapere perché Ada Negri fu "fascistissima" (che avrà mai fatto?) e ci si domanda invano come mai dopo averci spiegato cosa c'è alla base della Ballata del Prode Anselmo di Giovanni Visconti Venosta lo stesso trattamento non sia riservato a "Sant'Ambrogio" di Giuseppe Giusti (che fosse, il curatore, in tutt'altre faccende affaccendato?). Insomma, le poesie si leggono tutte con piacere, l'apparato critico lascia molto a desiderare. Speriamo in una racconta di rime tratte dai libri di scuola degli anni Sessanta, in cui si scopra qualcosa di più su Angolo Silvio Novaro, l'autore dei versi sulla pioggerelina di marzo, che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell'orto, sul fico e sul moro ornati di gemmule d'oro.

domenica 24 aprile 2016

ALFREDO CASTELLI: IL PREQUEL



ALFREDO CASTELLI: IL PREQUEL
di Alfredo Castelli
Comic Out
2015, brossurato
100 pagine, 12 euro

Volume decisamente inconsueto nel contesto della mai abbastanza lodata collana "Lezioni di fumetto": non si tratta infatti di un libro intervista né di un saggio su, ma di una autobiografia professionale riguardante il periodo in cui l'autore non aveva ancora fatto del fumetto la sua professione. Una cosa, insomma, che poteva venire in mente soltanto ad Alfredo Castelli. O quanto meno, che soltanto i Buon Vecchio Zio Alfy poteva realizzare nel modo in cui questo "prequel" è stato realizzato. Della capacità di affabulatore del celebre autore dell'Omino Bufo e di Martin Mystère nessuno può dubitare, dopo cinquanta anni di vulcanica carriera festeggiati proprio nel 2015. E per di più, dopo tanti suoi articoli autobiografici e pieni di ricordi e di aneddoti, e tante conferenze e incontri con il pubblico, è ormai assodato il campionario di ricordi e di ritratti di persone e personaggi dell'editoria fumettistica italiana (ma anche internazionale) su cui Castelli può essere interpellato e invitato a raccontare. Anzi, auspico che il BVZM dedichi un suo proprio libro a raccogliere le tante cose scritte in pubblico e dette in pranzi e cene o pause caffè per compilare una monumentale "Storia del Fumetto Italiano" naturalmente secondo lui. Ma nel caso del libro di cui stiamo parlando non ci sono, se non di sfuggita, riferimenti all'attività castelliana nel mondo degli eroi di carta: l'autore ci parla di lui, bambino prima e ragazzo poi, nell'Italia degli anni Cinquanta. Nato nel 1947, e destinato a esordire (con "Scheletrino") nel 1965, Castelli ci racconta tutto quanto c'è nel mezzo, o almeno, quel che nel mezzo riguarda le letture che faceva, i film che vedeva, la televisione che guardava (quando in casa sua entrò il primo televisore), i giochi a cui giocava se legati all'immaginario che andava formandosi dentro di sé (per esempio i View Masters, gli apparecchi per vedere diapositive in tre D). Il tutto, con il corredo puntuale, ricco ed evocativo di copertine e immagini in grado di riportare alla mente ricordi analoghi in ciascuno di noi (anche i lettori più giovani hanno i propri libi di favole o giornaletti del cuore). Il BVZM ha infatti ritrovato, con una caccia durata decenni, tutti o quasi gli oggetti di cui parla, così come le immagini di film e telefilm. Oggetti e immagini in cui affonda le radici la produzione fumettistica e saggistica castelliana, da cui nascono tutti i suoi multiformi interessi e tante delle sue piccole e divertenti manie. Non si creda, però, che si tratti di un libro autoreferenziale. Al contrario: attraverso gli occhi curiosi ed attenti del piccolo Alfredo assistiamo alla ricostruzione, come in un diorama, della società italiana del Dopoguerra e prima del boom economico, in anni in cui non era per niente facile poter rivedere un film che si era visto, in cui non si conoscevano che pochi fumetti stranieri, in cui era difficile anche procurarsi quegli italiani, per giunta guardati con diffidenza dai benpensanti. Dunque, il "prequel" ci consegna un affascinante ritratto di un'epoca, e l'educazione sentimentale dell'autore all'amore per le storie raccontate.

martedì 19 aprile 2016

IL LIBRO DEI SOGNI



IL LIBRO DEI SOGNI
di Un Cabalista Pratico
Salani
1931

Si tratta, di nuovo, di un volume della "Biblioteca del Ricordo", di cui abbiamo già parlato più volte, la collana della RBA Italia che manda in edicola settimanalmente in edizione anastatica libri popolari passati tra le mani dei nostri nonni negli anni fra le due Guerre. Questa volta si tratta di un dizionario di sessantamila voci riguardanti "tutto quello che può esistere sul globo terracqueo", elencate in ordine alfabetico in ragione di suggerire i numeri da giocare al lotto. Il senso del volume è quello di aggiornare i precedenti, e più limitati, dizionari del genere, per far sì che qualunque cosa venga sognata da qualcuno, trovi precisa indicazione di un numero. Il "Cabalista pratico" che ha compilato il tomo è sicuro che il suo libro raccolga "tutto quanto può presentarsi alla mente umana", come scrive nella sua prefazione. Prima del "Libro dei Sogni", insomma, se uno sognava Moreno Burattini non sapeva come giocarselo al lotto; dopo, invece, è semplice constatare come "burattini" corrisponda al numero 65. Per fare una prova, siccome è facile immaginare che i sogni erotici siano i più frequenti, ho cercato di vedere a che cosa corrisponda "sedere". La parola esiste però solo come verbo, in varie accezioni (sedere sulla tavola, sul letto, sul trono, sulla sedia e su sofà), ma non come sostantivo. E manca anche "culo". Però c'è "deretano", che corrisponde al 23. Bisogna dunque che il sognatore sia un fine dicitore, perché se uno sogna un "culo" gli deve venire in mente come invece quello sia, appunto, un deretano. Ovviamente, essendo un volume del 1931 non ci saranno parole come "televisione" o "computer", che sicuramente saranno state inserite in dizionari di questo tipo più recenti. Questo però fa venire in mente un dubbio: con quale criterio vengono attribuiti i numeri? Chi decide che, per esempio, il sottomarino (parola assente nel 1931) corrisponda al 73 piuttosto che al 25? Su che basi lo si stabilisce? Sono stare fatte delle prove con metodo scientifico? Una potrebbe essere questa: esce il 73, e il Cabalista Pratico va a chiedere a un campione di cento persone che cosa abbiano sognato la notte precedente. Se la maggioranza ha sognato un sottomarino, il gioco è fatto. Ma poiché il pluviometro, parola citata, corrisponde al 59, possibile che la notte precedente all'uscita di quel numero, tutti abbiano sognato il pluviometro? Ecco, sono queste le informazioni che mi sarebbe piaciuto trovare nell'introduzione e che non vengono date.

lunedì 18 aprile 2016

LETTERA AL DOTTOR HYDE



LETTERA AL DOTTOR HYDE
di Robert Louis Stevenson
Sellerio
1994, brossura, 
70 pagine, 10.000 lire

Attenzione a non cadere in inganno: la lettera non è a Mister Hyde, personaggio immaginario nato dalla penna dello stesso Stevenson, ma a un omonimo Dottore, realmente esistente. Ma anche pensando che lo scrittore abbia voluto indirizzare una missiva, come gioco letterario, a una delle sue più celebri invenzioni, non si resta delusi scoprendo la verità sul caso (reale e non strano) e le circostanze concrete dell'invio di una lettera autentica come quella pubblicata da Sellerio. L'esaustiva introduzione di Athos Bigongiali serve e capire tutto. Innanzitutto siamo nel 1888, nell'ultimo periodo della vita di Stevenson, quando l'autore, per guarire dalla malattia che lo minava, aveva investito gran parte dei suoi averi nel noleggio di un panfilo con cui viaggiare, il più a lungo possibile, nei Mari del Sud. L'aria balsamica delle isole del Pacifico si rivelò in effetti un toccasana: lo scrittore riuscì a vivere fino 1894, portando con sé la famiglia che gli rimase vicina per tutto il tempo. Durante questo periodo visse alcuni mesi alle Hawaii, dove scrisse molti dei suoi più bei racconti brevi, e volle andare a visitare l'isola lebbrosario di Molokai. Lo fece a suo rischio e pericolo, imbarcandosi sulla nave che portava suore, medici e ammalati, convinto di dover vedere personalmente quel luogo di dolore, sinceramente colpito da quanti vi lavoravano per assistere gli sfortunati che vi erano confinati, oltre che dalle sofferenze delle vittime del male che, all'epoca, era ancora incurabile. Recandosi sul posto conobbe la storia di un missionario, Padre Damiano, che aveva lasciato il segno nei cuori di tutti. Costui era riuscito, con metodi talvolta non ortodossi, a ottenere aiuti per i suoi assistiti, a costruire ricoveri, a migliorarne le condizioni, condividendone la vita e poi morendo anche lui contagiato. Tuttavia, le invidie e le maldicenze, nate anche per il carattere poco accomodante che Padre Damiano manifestava nei confronti delle autorità, avevano dato vita a una campagna di discredito. Per esempio, si diceva che il missionario si era ammalato perché aveva rapporti sessuali con una indigena infetta. A Stevenson capitò di leggere un articolo pieno di queste dicerie scritte dal dottor Charles McEwen Hyde, direttore di una scuola di teologia che istruiva i giovani hawaiani al ministero protestante. Era noto per i suoi sermoni severi e castigati e sferzava il lassismo e la promiscuità degli indigeni. Proprio il contrario dell'atteggiamento di Padre Damiano, con cui era entrato in conflitto, al punto da imbastire una crociata contro di lui, da fare della distruzione della sua memoria una sorta di scopo della vita. E' dunque contro Hyde che Stevenson si scaglia nella sua lettera scritta in difesa di Damiano, argomentando punto per punto e smontando tutte le accuse. "Voi probabilmente non sapete neppure dove si trovi Molokai sulla carta", scrive Stevenson dando prova di scrittura potente e di arte oratoria degna del miglior avvocato. Straordinaria lettura, la difesa del missionario "sporco e rozzo", che si rimboccava le maniche e aiutava i malati, contro il teologo dandy e schifiltoso, moralista e bigotto. Da inserire tra i migliori scritti di Robert Luis.

martedì 12 aprile 2016

PASSEGGERI NOTTURNI



Gianrico Carofiglio
PASSEGGERI NOTTURNI
Einaudi, 2016, 
brossurato, 100 pagine
12.50 euro

Sono un fan del Carofiglio giallista quando scrive le storie dell'avvocato Guerrieri, e già lì definirlo semplicemente "giallista" è riduttivo perché l'ex magistrato barese e, per fortuna (sua), anche ex politico, dimostra uno spessore letterario e una carica umana più che notevole, scandagliando nelle psicologie e nel sociale in modo coinvolgente. Sono però ormai parecchie le sue prove "libere", senza vincoli di genere, fra cui anche alcuni pamphlet in cui, per sfortuna (nostra), dà sfogo a quella vena, pur tenuta intelligente a bada, di supplenza intellettuale e moralisteggiante tipica di chi, forse per retaggio politico o culturale, si tiene comunque un tantino superiore. Ma niente di grave: Gianrico Carofiglio è comunque uno scrittore acuto e gradevole. Doti dimostrate una volta di più in questa raccolta di testi brevi (trenta, di tre pagine l'uno) che però è fuorviante definire "racconti". A parte rarissimi casi ("Il biglietto"), non c'è trama e non ci sono personaggi inventati. Il resto è costituito da elzeviri, ricordi di esperienze vissute, ritratti di gente incontrata, esercizi di stile, apologhi, lezioni di vita citazioni di cose lette (leggende urbane, racconti zen). E' come se Carofiglio avesse raccolto una sua rubrica di commenti, considerazioni, pensieri sparsi sul mondo e sulla vita, tenuta su un giornale. Tutto interessante, ben scritto, condivisibile, intelligente: ma non si tratta di racconti. La definizione più giusta potrebbe essere quella di "zibaldone", ma anche inquadrare il libro nella categoria degli almanacchi, come si fa in quarta di copertina, può andar bene. Viene in mente un Luca Goldoni più serioso e meno umoristico. Peccato per una certa insistenza (forse un tantino freudiana e compiaciuta) sul fatto che lui, Gianrico, frequenta i ristoranti del centro di Roma dove incontra i politici, va alle feste importanti, viene invitato ai congressi e insomma appartiene al bel mondo. Fa piacere comunque vedere Carofiglio in testa alle classifiche con una antologia di testi brevi, a sfatare il mito che in Italia gli scrittori vendono (se li vendono) soltanto romanzi.

lunedì 11 aprile 2016

DIABOLIK I NUMERI UNO




Angela e Luciana Giussani
DIABOLIK
I NUMERI UNO
Nicola Pesce Editore
2015 – cartonato– b/n
35 euro

La tre diverse versioni del “Il re del terrore”, l'avventura d'esordio di Diabolik, sono qui riunite in un unico volume di grande formato, con un ricco apparato critico che indaga su tutto ciò che c’è da sapere in proposito. Il primo albo di Diabolik, (novembre 1962) venne tirato in 20.000 copie, venduto in 8.000 e giudicato un insuccesso, salvo poi iniziare a venire ristampato in più edizioni, croce e delizia dei collezionisti. I testi erano di Angela Giussana, i disegni (alquanto maldestri) di un autore misterioso a cui poi venne attribuito il cognome di Zarcone. In questo volume, Gianni Bono ne ricostruisce l'identità con tanto di identikit disegnato da Brenno Fiumali, arrivando a concludere (ma non è chiaro su quali basi) che si chiamasse Angelo. C’è poi una seconda edizione datata 1964, ridisegnata completamente (in un modo un pochino più acconcio) da Luigi Marchesi. Quindi, nel 2001 il remake di Alfredo Castelli e Giuseppe Palumbo che risolvono le aporie del testo originale, la cui trama faticava a stare in piedi. Lo stesso Castelli, in una postfazione, svela come e dove è dovuto intervenire. L'apparato critico del volume è congruo e inquadra opera, autori e personaggio nella giusta maniera. Un libro meritorio.