LE TRE BARE di John Dickson Carr Oscar Mondadori 2013, 260 pagine, 9 euro
Chi mastichi un po' di letteratura gialla sa che l'americano John Dickon Carr (noto anche con altri pseudonimi, come Carter Dickson), nato nel 1897 e morto nel 1977, è l'indiscusso maestro dei delitti della camera chiusa. Nei suoi romanzi e racconti compaiono spesso e le soluzioni da lui escogitate sono tutte (o quasi) geniali. Si tratta evidentemente di gialli alla vecchia maniera, che poco o nulla concedono al noir di taglio più moderno, all'introspezione psicologica o ai sentimenti o al sesso, ma pieni di elementi gotici come sono, misteriosi, non di rado in costume, sempre estremamente arzigogolati, affascinano inevitabilmente gli amanti del genere. Io lo sono. Anzi, ho sempre sostenuto che se mai avessi potuto scrivere un giallo, lo avrei fatto imitando Dickson Carr (ho giusto in mente tre delitti della camera chiusa con tre soluzioni che non sapei dire se il buon John le abbia mai utilizzate). Nella vasta produzione dello scrittore, "Le tre bare" (1953) viene di solito piazzato nella top five, se non addirittura il migliore dei suoi lavori. Effettivamente, si resta sconcertati dall'inizio alla fine e la voglia di vedere come siano stati commessi non uno ma due delitti "impossibili" resta pressante per tutta la lettura. Ma il pezzo forte del romanzo è, a mio avviso, il secondo capitolo della parte terza, intitolato "La conferenza sulla camera chiusa", là dove l'investigatore Gideon Fell (uno dei personaggi ricorrenti nei romanzi del giallista) tiene una vera e propria lezione su tutti i metodi usati fino a quel momento dagli scrittori per risolvere il mistero di un omicidio commesso in una stanza chiusa dall'interno, da cui l'assassino non possa essere uscito (e che, ovviamente, sia comunque sparito). Il bello è che il dottor Fell dichiara di rivolgersi direttamente ai lettori: "Ci troviamo in una storia poliziesca e non dobbiamo ingannare chi legge fingendo che non sia così. Non dobbiamo inventare scuse, siamo personaggi di un libro". Dopodiché vengono messe in chiaro le idee dell'autore sul giallo: "A me piace che i miei delitti siano sanguinosi e grotteschi, che le mie trame sprizzino vividezza di colore e fantasia, poiché non riesco a trovare affascinante una storia che si basi soltanto sul fatto che possa sembrare realmente accaduta. Mi sembra ragionevole sottolineare che la parola 'improbabile' è l'ultima che dovrebbe essere usata per condannare il romanzo poliziesco. Tutta la questione sta nella domanda: può questa cosa essere fatta? Se sì, non importa che sia 'probabile'". In effetti, fa notare Dickson Carr, se il colpevole di un delitto fosse la persona più "probabile" i lettori si sentirebbero delusi. Un pezzo di assoluta bravura. E l'assassino de "Le tre bare" è in effetti il meno probabile che possa venire in mente, ma il meccanismo del giallo, una volta spiegato, è del tutto possibile, per quanto macchinoso. Non vi dirò nulla sulla trama se non ribadire che l'assassino viene visto entrare in una stanza la cui porta gli è aperta dalla vittima, prima di venire chiusa dall'interno: si ode uno sparo, la porta viene sfondata, la vittima è ferita mortalmente, dell'assassino nessuna traccia nonostante fuori ci fossero testimoni in attesa. Un secondo delitto, evidentemente collegato al primo, viene commesso in una strada vicina, al centro di una via che ha dei passanti ai lati. Tutti si voltano udendo uno sparo, un uomo crolla a terra colpito a bruciapelo, ma l'assassino non c'è e non ci sono le sue tracce sulla neve. Il tutto pare collegato con la storia di tre fratelli sepolti molti anni prima in Ungheria, uccisi da una epidemia che li aveva colpiti nel carcere dove erano stati rinchiusi...
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