Che belli questi libri di grande formato (27 x 37 cm), quando si tratta di riprodurre quadri di straordinaria potenza espressiva come quelli di Frederic Remington! La magia dei dipinti di Remington, tutti o quasi oli su tela raffiguranti scene western, consiste principalmente nel fatto che ciascuno di essi racconta una storia, ed è una storia avvincente, intrigante, piena di risvolti e di emozioni. Non per sminuire i pittori figurativi che si dilettano in nature morte o in paesaggi bucolici, ma vedendo un quadro “Frends or Enemy”, del 1890, dove uno scout indiano a cavallo nella neve vede da lontano i fuochi di un accampamento e aguzza gli occhi per scoprire se si tratti di amici o nemici… beh, siamo davvero in un altro mondo. Nato il 4 ottobre 1861 a Canton, nello stato di New York, Remington cominciò a dipingere il West nel 1882. Il volume raccoglie 67 tavole a colori di altrettanti eccezionali opere a olio, e 25 illustrazioni in bianco e nero fra cui fotografie d’epoca del pittore e di alcune sue stupefacenti sculture, sempre aventi per soggetto i cavalli, gli indiani, i soldati e i cowboys. Scene militari, vita tra i cavalli e le mandrie (stupendo “The Stampede”, del 1908), raffigurazioni di indiani, questi i temi preferiti da Remington, che come pittore è assai più maturo di George Catlin, che ebbe il vantaggio di essere un precursore ma fu di certo meno dotato. Vale la pena di tracciare, per come la so, una breve cronistoria dei pittori del West, appunto da Catlin a Remington.
Quella degli artisti del pennello ispirati dagli scenari western, intendendo tutti quelli a Ovest del Mississippi, a partire dall’acquisto della Louisiana dalla Francia, da parte degli Stati Uniti, nel 1803, fu una vera e propria scuola, ricca di talenti. La necessità di conoscere ed esplorare gli immensi territori da poco acquisiti, che avevano più che raddoppiato il territorio federale, suggerì al governo di Washington di inviare numerose spedizioni con il compito di cartografare le nuove regioni e mappare la dislocazione delle tribù indigene. Al seguito di queste missioni si unirono artisti invitati a raffigurare in schizzi a matita o con acquarelli i paesaggi, la fauna, la flora e i villaggi delle popolazioni locali. Questi disegni fornirono le prime informazioni iconografiche sulle terre ancora sconosciute che si offrivano alla colonizzazione bianca, ed esaltarono l’immaginazione degli americani delle città dell’Est. Ben presto altri artisti cominciarono a viaggiare per proprio conto diretti verso occidente, obbedendo a un desiderio personale oppure spronati da committenti che chiedevano quadri con gli scenari grandiosi delle Grandi Praterie, le Montagne Rocciose o i canyon e le mese del Sud Ovest.
I primi ritratti di pellerossa realizzati dal vivo da un pittore, che poi li espose nelle Gallerie d’Arte di grandi metropoli come New York, Londra e Parigi, furono quelli di George Catlin. Nato in Pennsylvania nel 1796, dopo aver esercitato per breve tempo la professione di avvocato, Catlin si dedicò alla pittura e, nel 1830, si trasferì a St. Louis, nell’attuale Missouri. In questa città ebbe la ventura di conoscere proprio William Clark, che vi si era stabilito al termine delle sue avventurose esplorazioni che lo avevano reso amico di numerosi pellerossa. Erano infatti tanti gli indiani che venivano e fargli visita e Catlin, vedendoli, ne fu affascinato al punto da chiedere loro di posare per dei ritratti. Nel 1832, il pittore volle intraprendere un viaggio nelle terre dei nativi, soprattutto in direzione delle Grandi Praterie. Raggiunse dunque Fort Union, che oggi è nel North Dakota, e lì ebbe l’occasione di dipingere guerrieri e squaw dei Piedi Neri, degli Assiniboin, dei Cree e dei Crow, le cui tribù erano stanziate attorno al Forte. Quindi, proseguendo il viaggio, Catlin raggiunse i Mandan e si fermò a lungo nel loro villaggio, al punto da poter dipingere e annotare ogni aspetto della loro vita sociale. Fu il primo bianco ad assistere alla cerimonia della Danza del Sole, un rituale di purificazione che prevedeva il digiuno e l’autoflagellazione per invocare le divinità ed entrare in contatto con loro. Nel 1833, a Pittsburg vennero esposti in una mostra i primi quadri del pittore raffiguranti capi indiani e scene di vita nei loro villaggi. Da quel momento la fama di Catlin crebbe in America e anche in Europa, si intensificarono i suoi viaggi e si moltiplicarono le sue mostre.
Karl Bodmer (1809-1893), artista svizzero, e Alfred Jacob Miller (1810-1874), nativo invece di Baltimora, si ispirarono all’opera di Catlin e, come lui, si occuparono principalmente di raffigurare pellerossa. La loro visione dei nativi fu sostanzialmente romantica: gli indiani vivevano in un paesaggio incontaminato, cacciavano i bisonti, si facevano guerra tra loro ignorando la minaccia degli uomini bianchi e trascorrevano il tempo in uno scenario bucolico in cui nulla lasciava presagire il dramma della decimazione e della deportazione nelle riserve.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le cose cominciarono a cambiare. Nelle opere di pittori come Seth Eastman (1808-1875), William Ranney (1813-1857). Charles Deas (1818-1867) e Carl Wimar (1828-1862) le tribù dei nativi attaccano le carovane, scalpano i trappers e combattono con i soldati dell’esercito. Il sentimentalismo precedente lascia il posto alla cronaca storica e, per certi versi, alla “celebrazione” del “progresso” portato dall’avanzare della Civiltà nelle terre di frontiera.
Ma i pittori che più molti altri seppero raccontare, con straordinaria efficacia e modernità, la conquista del West (al punto di essere ancora oggi attualissimi), furono Frederic Remington (1861-1909) e Charles Marlon Russell (1864-1926). Nato nel nord dello stato di New York il primo, originario di Saint Louis il secondo, rifiutarono entrambi l’idea che l’arte dovesse “celebrare” qualcosa, e trovavano discutibile la retorica propagandistica del “destino manifesto” dell’uomo bianco chiamato a portare la fiaccola della verità nelle tenebre dell’errore. Così, ciascuno alla propria maniera e percorrendo strade diverse, si sforzarono (riuscendoci benissimo) di mostrare la realtà nuda e cruda, in opere in grado di suscitare contrastanti sentimenti da punti di vista differenti, perché la verità non è una sola ma è sfaccettata. Il West di Remington e Russell è vivo, emozionale, e se raffigura uno scontro fra un bianco e un indiano non prende posizione, lasciando allo spettatore il compito di giudicare da che parte stare.
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