lunedì 22 aprile 2019

UN FALSO DERVISCIO A SAMARCANDA



Arminius Vambery
UN FALSO DERVISCIO A SAMARCANDA
Touring Club Italiano
1997, brossurato
152 pagine, 20.000 lire
La Biblioteca del Touring Club recupera un classico della letteratura di viaggio, riproducendone la traduzione della prima edizione italiana datata 1873, uscita per i tipi dell'editore Treves. Si tratta di affascinante quanto drammatico resoconto di un'impresa compiuta una decina di anni prima da Arminius Vambery, uno studioso ungherese appassionato linguista e interessato ad approfondire le affinità tra la lingua magiara e quelle dell'Asia Centrale. Purtroppo, il Turkestan e l'emirato di Buchara (dove sorgeva la mitica Samarcanda) erano all'epoca praticamente irraggiungibili dagli occidentali, sistematicamente e barbaramente uccisi in quanto infedeli. In realtà, anche gli stessi musulmani rischiavano la pelle o la schiavitù attraversando le terre dei Turcomanni, predoni feroci. Anche per questo, agli occhi di Vambery quelle terre rappresentavano una irresistibile attrazione, la stessa che promana per un esploratore da una terra inesplorata. Così, perfettamente padrone dell'arabo, del turco e del persiano, partito alla volta di Costantinopoli e poi della Persia, l'ungherese si traveste da derviscio (un monaco mendicante musulmano) e si unisce a una carovana di pellegrini di ritorno da La Mecca nel natio Turkestan. Durante ogni tappa del lungo viaggio Vambery si trova a rischiare la testa, attirando i sospetti di chi giudica troppo chiaro il colore della sua pelle o di chi, più semplicemente, diffida degli stranieri. Il suo gruppo deve di volta in volta informarsi sulle mosse e gli spostamenti dei predoni per evitare di incontrarli, preferendo piuttosto percorrere vie attraverso deserti o paludi invece di piste più brevi e agevoli infestate dai briganti. Innumerevoli volte teme di morire di sete, o deve sventare intrighi a suo danno. Assiste a supplizi terribili imposti dalla rigida osservanza dei dettami islamici, si commuove per la sorte tragica di schiavi persiani o russi catturati dai Turcomanni, incontra il ferocissimo khan di Khiva abituato a mettere a morte qualcuno ogni giorno solo per l'alzata di un sopracciglio. Ma alla fine, riesce a raggiungere Samarcanda. Rientrato in Europa, scrive il suo reportage che è avventuroso come un romanzo di Emilio Salgari. E la traduzione ottocentesca proprio di Salgari ha il sapore.

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