Confesso di aver acquistato il libro solo perché attirato dal titolo, “Delitto in una camera chiusa”, senza nulla sapere dell’autore e della trama (non ho neppure letto i risvolti di copertina). Sono infatti un cultore e collezionista del genere “camera chiusa”. Wikipedia ben spiega che “con la locuzione enigma della camera chiusa o mistero della camera chiusa viene indicata una particolare varietà di romanzo o racconto poliziesco in cui l'indagine si svolge intorno a un delitto compiuto in circostanze apparentemente impossibili come quello scoperto in una camera chiusa dall'interno”. Ciò significa che non è tanto importante chi sia il colpevole e perché qualcuno abbia commesso l’omicidio (elementi comunque che fanno la differenza, quanto a risultato e qualità del racconto), quanto il “come” ci sia riuscito. Il maestro indiscusso di questo tipo di giallo è, come sapete (dato che in questo spazio se ne è parlato più volte), John Dickson Carr, ma naturalmente anche altri autori si sono cimentati nell’impresa di fornire spiegazioni convincenti (e nel mio piccolissimo anch’io ci ho provato in un racconto di Zagor). Anche Michel Crombie (pseudonimo di James Ronald, 1905-1972), giallista scozzese, di Glasgow, a lungo vissuto negli Stati Uniti ma poi tornato in patria sul finire dei suoi anni, amava giocare con i “misteri impossibili” e nei suoi quaranta romanzi ne propose diversi. Tuttavia, in “Delitto in una camera chiusa”, il delitto in una camera chiusa viene scoperto soltanto a pagina 178 (sulle 199 dell’edizione italiana), e quindi l’enigma di come sia stato possibile assassinare una vecchia signora (testimone di un altro omicidio) nella sua stanza chiusa a chiave dall’interno è soltanto un tassello marginale di un poliziesco che avrebbe potuto (e forse dovuto) avere un altro titolo. La storia racconta di uno zio criminale, Godfrey Winter, tutore di due nipoti, Eric e Patricia, che uccide il primo e tenta di far fuori anche la seconda, senza riuscirsi solo per un caso fortunato (per lei, che viene presa sotto tutela dal fidanzato Alan). Non faccio spoiler perché che il cattivo sia Godfrey lo si scopre già a pagina 15 e il giallo consiste soprattutto nel seguire le indagini di un coraggioso giornalista, Larry Milner, per vedere come, inizialmente non creduto e anzi licenziato dal suo stesso giornale, riesca a incastrare il colpevole della morte di Eric (e dell’eliminazione successiva di due testimoni scomodi). Eric e Patricia devono morire, nei piani dello zio, perché lui possa ereditare le loro sostanze, lasciate ai due dai genitori prematuramente scomparsi. Il romanzo è movimentato e divertente come un film poliziesco degli anni Quaranta (“The Sealed Room Murder” è del 1934), con molta azione e vari colpi di scena. Quando Milner si trova di fronte alla camera chiusa praticamente siamo agli sgoccioli della storia. Buffo che, per risolvere l’enigma, il giornalista si rivolga a tutti gli scrittori di gialli di sua conoscenza (giustamente, i delitti nelle camere chiuse non avvengono mai nella realtà e sono i giallisti i massimi esperti). La soluzione gli viene però suggerita da un prestigiatore, che quando fa sparire le persone dopo averle chiuse in una scatola con quattro solide pareti, ci riesce perché una delle pareti non è poi così solida.
domenica 26 novembre 2023
DELITTO IN UNA CAMERA CHIUSA
Confesso di aver acquistato il libro solo perché attirato dal titolo, “Delitto in una camera chiusa”, senza nulla sapere dell’autore e della trama (non ho neppure letto i risvolti di copertina). Sono infatti un cultore e collezionista del genere “camera chiusa”. Wikipedia ben spiega che “con la locuzione enigma della camera chiusa o mistero della camera chiusa viene indicata una particolare varietà di romanzo o racconto poliziesco in cui l'indagine si svolge intorno a un delitto compiuto in circostanze apparentemente impossibili come quello scoperto in una camera chiusa dall'interno”. Ciò significa che non è tanto importante chi sia il colpevole e perché qualcuno abbia commesso l’omicidio (elementi comunque che fanno la differenza, quanto a risultato e qualità del racconto), quanto il “come” ci sia riuscito. Il maestro indiscusso di questo tipo di giallo è, come sapete (dato che in questo spazio se ne è parlato più volte), John Dickson Carr, ma naturalmente anche altri autori si sono cimentati nell’impresa di fornire spiegazioni convincenti (e nel mio piccolissimo anch’io ci ho provato in un racconto di Zagor). Anche Michel Crombie (pseudonimo di James Ronald, 1905-1972), giallista scozzese, di Glasgow, a lungo vissuto negli Stati Uniti ma poi tornato in patria sul finire dei suoi anni, amava giocare con i “misteri impossibili” e nei suoi quaranta romanzi ne propose diversi. Tuttavia, in “Delitto in una camera chiusa”, il delitto in una camera chiusa viene scoperto soltanto a pagina 178 (sulle 199 dell’edizione italiana), e quindi l’enigma di come sia stato possibile assassinare una vecchia signora (testimone di un altro omicidio) nella sua stanza chiusa a chiave dall’interno è soltanto un tassello marginale di un poliziesco che avrebbe potuto (e forse dovuto) avere un altro titolo. La storia racconta di uno zio criminale, Godfrey Winter, tutore di due nipoti, Eric e Patricia, che uccide il primo e tenta di far fuori anche la seconda, senza riuscirsi solo per un caso fortunato (per lei, che viene presa sotto tutela dal fidanzato Alan). Non faccio spoiler perché che il cattivo sia Godfrey lo si scopre già a pagina 15 e il giallo consiste soprattutto nel seguire le indagini di un coraggioso giornalista, Larry Milner, per vedere come, inizialmente non creduto e anzi licenziato dal suo stesso giornale, riesca a incastrare il colpevole della morte di Eric (e dell’eliminazione successiva di due testimoni scomodi). Eric e Patricia devono morire, nei piani dello zio, perché lui possa ereditare le loro sostanze, lasciate ai due dai genitori prematuramente scomparsi. Il romanzo è movimentato e divertente come un film poliziesco degli anni Quaranta (“The Sealed Room Murder” è del 1934), con molta azione e vari colpi di scena. Quando Milner si trova di fronte alla camera chiusa praticamente siamo agli sgoccioli della storia. Buffo che, per risolvere l’enigma, il giornalista si rivolga a tutti gli scrittori di gialli di sua conoscenza (giustamente, i delitti nelle camere chiuse non avvengono mai nella realtà e sono i giallisti i massimi esperti). La soluzione gli viene però suggerita da un prestigiatore, che quando fa sparire le persone dopo averle chiuse in una scatola con quattro solide pareti, ci riesce perché una delle pareti non è poi così solida.
sabato 25 novembre 2023
MICKEY ALL STARS
Autori Vari
MICKEY ALL STARS
Panini Comics
Cartonato, 2021
56 pagine, 14.90 euro
“Questo originale percorso illustra e fa capire al lettore quanto sia stato grande il privilegio per noi, fortunati autori, di aver interpretato con il nostro stile il meraviglioso mondo di Topolino”, scrive Giorgio Cavazzano, maestro chiamato ad aprire e chiudere con due sue tavole “Mickey All Stars”. Cerchiamo di contestualizzare e capire di che cosa si tratta. Va innanzitutto premesso che da qualche anno le edizioni Glénat hanno iniziato a realizzare e pubblicare in Francia volumi appunto “alla francese” con personaggi Disney interpretati in modo originale da autori anche provenienti da esperienze diverse, in un format diverso, più simile ai graphic novel che alle storie seriali. Ce ne siamo occupati anche in questo spazio, recensendone alcuni. Questo “All Stars”, però, è diverso: 47 autori si sono incaricati di realizzare una tavola autoconclusiva a testa (tranne, appunto, Cavazzano che ne ha illustrate due) passandosi il testimone l’un l’altro in modo che la sequenza fosse comunque collegata dall’espediente di far entrare Topolino da una porta nella prima vignetta in alto e farlo uscire da un’altra porta nell’ultima vignetta in basso. Così, passando di porta in porta e quindi di stanza in stanza, da un interno a un esterno, da una realtà parallela a un’altra, il lettore segue Mickey in una sarabanda vertiginosa di stili e di situazioni. Sì, perché ogni disegnatore ha usato la propria calligrafia e il proprio mood, con risultati sorprendenti e a volte entusiasmanti (solo in qualche raro caso discutibili). Fra gli artisti di varia nazionalità anche sei italiani: Cavazzano, Bertolucci, Camboni, Fecchi, Petrossi, Rota. Il Topolino preso a modello da tutti è quello in pantaloncini rossi con i bottoni gialli, o bianchi, prima maniera. L’esperimento è pienamente riuscito, e c’è da divertirsi. Lo considero una lezione per tutti quei lettori che tendo a identificare un personaggio con un solo autore, come se ci fosse un “vero” Topolino (o un “vero” Uomo Ragno, o un “vero” Tex) e non si dovesse invece tener conto del contributo di tanti artisti nel corso dei decenni, tutti chiamati a tener viva la fiamma di una leggenda.
venerdì 24 novembre 2023
FRANKENSTEIN ILLUSTRATO
Alfredo Castelli
FRANKENSTEIN ILLUSTRATO
Cut-Up Publishing
Cartonato, 2023
114 pagine, 22.90 euro
Sotto il titolo, in copertina, compare la scritta “nuova edizione completamente riveduta e aggiornata al 2023”, e dunque c’è da chiedersi quando sia avvenuta la prima pubblicazione ldi questo “Frankenstein illustrato”. Alfredo Castelli lo spiega subito all’interno, insieme a un milione di altre cose di cui provvede a informarci: il primo varo di questo imprescindibile manuale risale al 2018, quando venne dato alle stampe in tiratura limitata nell’ambito della manifestazione catanese “Etna Comics”. Rispetto a quella, dunque, si aggiorna la filmografia (dal 1910 al 2023) che rappresenta la parte più consistente del libro, una settantina di pagine. Ma sono stati anche rivisti e corretti dimenticanze e refusi (bisognerebbe controllare pagina per pagina per scoprire quali).
Ne abbiamo parlato qui:
https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/2018/07/frankenstein-illustrato.html
Se la prima edizione di questo aureo libello risale dunque al 2018, molto più antico è l’interesse di Castelli verso il romanzo di Mary Shelley “Frankenstein or the modern Prometheus” (1918). Come l’autore riferisce nel primo capitolo, nel 1969, pubblicò ne “I classici a fumetti” della Sansoni un adattamento illustrato da Giorgio Montorio. Visto il buon esito, Castelli propose a Gino Sansoni di dedicare al personaggio della Shelley un saggio sulla storia del libro e sulle sue versioni teatrali, cinematografiche, televisive. Il progetto fu messo in cantiere, si ottenne addirittura una prefazione di Forrest J Ackerman (la “J” senza punto non è un errore), fondatore della rivista “Famous Monsters”, ma poi non se ne fece di nulla. Dopo oltre cinquanta anni, il testo viene finalmente collocato all’inizio del saggio per cui venne scritto. Castelli, con grande abilità di divulgatore essenziale ma esaustivo (peraltro supportato da un ricco corredo iconografico), ripercorre velocemente la genesi del racconto della Shelley, relaziona circa le sue varie riscritture e sulla tardiva prima traduzione italiana, poi accenna agli apocrifi autori di sequel, quindi passa a trattare delle versioni teatrali e degli adattamenti a fumetti. Un capitoletto si intitola “Il mio Frankenstein” e si occupa di tutte le (tante) volte in cui proprio Castelli ha utilizzato il mostro, non mancando di citare l’avventura “Molok” scritta per la serie di Zagor. Segue la riproposta delle trentaquattro tavole della storia del 1969 pubblicata da Sansoni. A questo punto si passa a parlare di film, cartoni animati, programmi TV. Ciliegina sulla torta, un sedicesimo a colori con le locandine delle pellicole più interessanti. Si resta stupiti di quanto il mito di Frankenstein abbia permeato l’immaginario collettivo e la fiction negli ultimi duecento anni.
domenica 19 novembre 2023
PASTORALE AMERICANA
PASTORALE AMERICANA
Einaudi
Supercoralli, 2013
Brossura, 460 pagine, 14 euro
Si possono ricavare tante emozioni diverse da “Pastorale americana” di Philip Roth e ci sono diversi piani di lettura di un capolavoro del genere. Io però ne sono uscito sgomento per il dramma di Seymour Levov, detto “lo svedese” per il suo aspetto da vichingo, che si vede sfuggire dalle braccia, rapita da una scelta di vita folle, la figlia Merry. Una figlia nata in una famiglia benestante, da genitori bellissimi, in una casa meravigliosa, educata alla liberalità e alla tolleranza (ebreo il padre, cattolica irlandese la madre Dawn), assecondata nelle sue passioni, seguita e curata in ogni modo, di certo amatissima, che a sedici anni però fugge di casa, diventa una terrorista, fa esplodere bombe, uccide quattro persone, si dà alla clandestinità. E non c’è da pensare che Seymour o Dawn la opprimessero imponendole proprie idee politiche reazionarie, da cui potesse derivare tanta follia, anzi, Roth riporta le conversazioni piene di buon senso e buoni sentimenti con cui il pazientissimo svedese cerca di far ragionare Merry, prima che improvvisamente esploda la prima bomba e la ragazzina scompaia. Ma non è solo questo che sgomenta. E’ la ricerca disperata del padre che non si rassegna alla sua fuga, la crede prigioniera, si illude che potendola riabbracciare potrebbe farsi spiegare come sono andate realmente le cose, perché di certo non può essere stata Merry a uccidere quelle persone. Lo strazio di Seymour è totale, e ne sono stato annichilito anch’io. Il dramma manda a monte il matrimonio con Dawn, amici carissimi si scoprono essere infidi, tutto il mondo dorato che lo svedese ha cercato di costruire attorno a se va in fumo come una fotografia della famiglia felice a cui si dà fuoco. “Pastorale americana”, titolo tragicamente ironico che allude a un idillio che è soltanto illusione, è certamente molto più di una tragedia famigliare, però è questo che soprattutto mi ha segnato. Poi, in questa storia lunga trent’anni (dai tempi del liceo dello svedese, campione sportivo noto in tutto il New Jersey, durante la Seconda Guerra Mondiale, fino alla metà degli anni Settanta, ma con un prologo nei Novanta), si raccontano il sogno americano, le paturnie religiose, l’antisemitismo, il razzismo, il boom economico e le rivolte operaie, il conflitto in Vietnam, lo scandalo Watergate, il terrorismo, il comunismo e l’anticomunismo: tutto viene descritto con odio e con amore, sempre impietosamente. Roth, attraverso il racconto fittiziamente fatto dal suo alter ego Nathan Zuckerman (figura ricorrete nei romanzi dello scrittore) salta di continuo fra gli anni e gli avvenimenti, non procede in ordine cronologico, ma tutto ciò che racconta serve a riempire uno spazio in un puzzle che si costruisce a chiazze, a gruppi di tessere. Scritto nel 1997, nel 1997 il romanzo ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa.
lunedì 13 novembre 2023
GUIDO MARTINA TOPOLINO, PECOS BILL E IL PROFESSORE
Gianni Milone
GUIDO MARTINA
TOPOLINO, PECOS BILL E IL PROFESSORE
Edizioni Fumettoclub
Spillato, 1994
36 pagine
Si tratta del catalogo di una mostra dedicata a Guido Martina inaugurata nel dicembre del 1994 a Carmagnola, in provincia di Torino, luogo di origine del grande sceneggiatore, che vi era nato nel 1906. Brevi ed essenziali interventi di Erika Balzaretti e Gianni Milone (curatori della rassegna), di Alberto Gedda e Carlo Chendi illustrano per sommi capi la vita e l'opera di Martina, uno dei primissimi sceneggiatori disneyani italiani, a tre anni dalla sua scomparsa (avvenuta a Roma nel 1991). L'autore, uomo di grande cultura e intelligenza, chiamato da Arnoldo Mondadori e da Mario Gentilini a collaborare con Topolino, ne diventò una colonna portante dopo essere partito dalle semplici traduzioni delle storie americane. La sua sterminata produzione conta migliaia di sceneggiature (in gran parte anonime, dato che l'etichetta "Disney" gli impediva di firmarsi), e la stesura di interi volumi come i vari Manuali e tutta l'Enciclopedia Disney, cosa che giustificava il soprannome di “Professore” con cui veniva appellato. All'attivo di Martina ci sono anche storie di altri personaggi, come Pecos Bill: eroe western che furoreggiò negli Anni Cinquanta. A corredo del catalogo viene riproposta la ristampa di una delle primissime storie disneyane di Martina, "Topolino e il Cobra Bianco", disegnata da Angelo Bioletto. Una vera rarità. Vien voglia di approfondire l’argomento, dato che qui se ne dà soltanto un (pur gustoso) assaggio, essendo soprattutto una biografia per immagini.
domenica 12 novembre 2023
GOLD
Gold: The Final Science Fiction Collection: ecco un libro di Issac Asimov che Asimov non ha mai scritto, e che forse non avrebbe mai voluto scrivere. Contiene infatti gli ultimi racconti egli ultimi articoli pubblicati su rivista poco prima della sua morte. La lettura dà un senso di tristezza perché, se da una parte il Buon Dottore è sempre se stesso, inconfondibile nella piacevolezza stile e nella maniera di argomentare, dall'altra è innegabile che si tratta di un Asimov minore e ormai in disarmo. La sensazione è che, pubblicando questa antologia postuma, si sia raschiato il fondo del barile. Inoltre, chi ha curato l'antologia non ha fornito alcuna spiegazione sugli intenti dell'opera e sulla provenienza dei singoli scritti. Chi sa quanto fossero gradevoli, invece, i testi di commento e di introduzione dello stesso Asimov ai propri racconti e articoli, non può che rimpiangere una simile mancanza. Mancanza che poi provoca degli scompensi, perché leggendo questo o quell'articolo si capisce che si tratta di prefazioni a volumi e presentazioni di antologie o romanzi altrui e si fa riferimento al libro che dovrebbe seguire e che invece non segue, o si parla di "questa rivista" senza che venga spiegato di che rivista si tratta. Nonostante il vecchio leone Asimov non abbia graffiato e ruggito come sapeva fare, questi scritti non possono comunque mancare nella collezione di nessun appassionati della sua sterminata produzione. Solo che i curatori dell'antologia potevano risparmiarsi la scritta in copertina: "la fantascienza allo stato puro" e "un altro capolavoro del padre fondatore della fantascienza". Chi non abbia letto nient'altro del grande Isaac e decida di cominciare da questi scritti crepuscolari, resterà deluso. Se questi sono i capolavori, chissà il resto. Invece, il resto c'è, eccome. Ed è da quello che si deve cominciare, per arrivare a "Gold" con grande rimpianto
sabato 11 novembre 2023
GHIACCIO SOTTILE
GHIACCIO SOTTILE
Seconda edizione novembre 2005
cartonato – 360 pagine - euro 16,50
“Sei alpinisti bloccati sull’Himalaya. Un cadavere nella neve. Soltanto sette giorni per salvarsi”. Tre righe sotto il titolo salvano la pessima copertina (ma chi è il grafico che l'ha pensata?) e valgono la lettura. Il romanzo è un ottimo congegno per catturare l’attenzione dei lettori, e dopo i primi due capitoli è difficile smettere di leggere, dato che la vicenda comincia a ingranare e si continua a macinare capitoli. Piero Degli Antoni, che è ben documentato in materia di alpinismo, congegna un susseguirsi di colpi di scena, condotti tenendo conto anche delle vere difficoltà degli alpinisti oltre i settemila metri, e della psicologia degli scalatori. Attinge sicuramente fatti avvenuti ad alpinisti celebri (Reinhold Messner che torna a valle senza il fratello, scomparso ad alta quota, la sparizione dagli occhi degli osservatori di Mallory ed Irvine nel 1924 sull'Everest, la cronaca di una tragedia himalayana del 1996 tracciata da "Aria sottile" di Jon Krakauer), come del resto ho fatto io per il giallo alpinistico zagoriano "Il gigante di pietra" (2007), che deve qualcosa anche a Degli Antoni.
venerdì 10 novembre 2023
ESERCIZI DI STILE
Disegni & Caviglia fanno la parodia di una parodia. Alla base di tutto, infatti, c'è il fondamentale "Esercizi di Stile" di Raymond Queneau, testo scritto alla fine degli anni Quaranta e tradotto in italiano da Umberto Eco. Lì, Queneau si divertiva a raccontare in decine di modi diversi (utilizzando i più vari stilemi narrativi, di cui faceva tutto sommato una intelligente e divertentissima parodia) un fatto del tutto banale: un tale nota un altro sull'autobus perché ha un bottone cadente al collo della camicia, e più tardi gli capita di notarlo di nuovo in compagnia di un amico. Questo episodio viene dunque rivisitato più volte, ora in stile giornalistico, ora in stile poetico, ora in stile telegrafico e così via. Disegni & Caviglia utilizzano la stessa idea per raccontare a fumetti un fatto ancora più banale: un uomo ha un appuntamento con una donna, lei arriva un po' ritardo, ma si fa perdonare con un bacio. Le strip dei due autori sono, naturalmente, meno nobili degli esercizi di Queneau, appunto perché ne costituiscono la gradassa parodia. Per cui avremo lo "stile depresso", lo "stile tossico", lo "stile sfigato", lo stile "avanspettacolo" e così via. I risultati sono spesso esilaranti. Prima di venire pubblicato negli Oscar in un insolito formato orizzontale, "Esercizi di Stile" era uscito nel 1994 nella Biblioteca Umoristica Mondadori.
domenica 5 novembre 2023
LA SCALA A CHIOCCIOLA (SOME MUST WATCH)
LA SCALA A CHIOCCIOLA
(SOME MUST WATCH)
Monadori
I Classici del giallo
Brossurato – 1981
256 pagine, 2000 lire
Vi racconto com’è andata. Durante l’estate 2023 trovo in vendita su una bancarella di libri usati (offerto a un euro) un romanzo dal titolo “La scala a chiocciola”, scritto nel 1908 da Mary Roberts Rinehart. Ho un flash, e ricordo un film in bianco e nero visto una volta da ragazzo (se non da ragazzino) in televisione, intitolato proprio così e che mi è rimasto impresso nella memoria come paurosissimo. Non credo di averlo mai visto più di una volta, ma tanto è bastato per farmi ricordare, oltre a titolo, certe scene e certe inquadrature. Con il tempo, mi sono convinto che il regista fosse nientemeno che Alfred Hitchcock, senza motivo - se non per la tensione creata dalla regia e dalla fotografia, oltre che per il tipo di trama. Tanto “La scala a chiocciola” segnò e turbò i miei ricordi che, molti anni dopo, nello sceneggiare “L’abbazia del mistero”, la mia seconda storia di Zagor, inserii il personaggio di una ragazza diventata muta dopo un shock, che recupera la voce in conseguenza di una nuova emozione vivissima, come capita appunto ad Helen, la protagonista del film, interpretata da Dorothy McGuire. Torniamo alla bancarella di libri usati. Compro il romanzo della Roberts Rinehart e lo leggo. Delusione! Non che sia un brutto giallo, ma è chiaro che NON è quello che ha ispirato il film omonimo. La trama è del tutto diversa. Faccio le dovute ricerche e scopro che The Spiral Staircase è un film del 1946, diretto da Robert Siodmak (e non da Alfred Hitchcock), che recupero anche in Rete, guardandolo dunque per la seconda volta ma senza ricavarne particolari brividi (pellicola apprezzabile ma non entusiasmante, soprattutto non terrorizzante secondo gli standard più recenti). Scopro anche che la pellicola è tratta da un romanzo del 1933 di Ethel Lina White (1876-1944), dal titolo Some Must Watch. Quindi, “La scala a chiocciola” di Mary Roberts Rinehart non c’entra nulla. Scrivo comunque la mia recensione, che potete leggere qui.
https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/2023/11/la-scala-chiocciola.html
A questo punto devo assolutamente rintracciare “Some Must Watch”, che la Mondadori ha pubblicato nel 1981 nei suoi Classici del Giallo - dandogli il titolo del film, appunto “La scala a chiocciola”. Ecco perché in cima alla recensione trovate indicato il titolo originale. Lo trovo su eBay e questa volta è il romanzo giusto. Tuttavia, ci sono alcune differenze tra il film e il romanzo della White. Per esempio, essendo la scrittrice gallese e il film americano, la pellicola è ambientata negli Stati Uniti invece che in Inghilterra. Ma soprattutto la protagonista Helen Capel nel libro non è affatto muta, anzi, è una ragazza dai capelli rossi molto vivace e intraprendente (diversamente dal personaggio interpretato dalla McGuire, cupo e angosciato). Inoltre il movente del serial killer che colpisce sullo schermo cinematografico è quello di uccidere donne segnate da un handicap (nella prima scena lo vediamo assassinare una zoppa), cosa che rende Helen una possibile vittima in quanto priva di voce; nel romanzo il maniaco dà la caccia semplicemente a ragazze che entrano nel suo raggio d’azione. Ci sono anche differenze nella composizione della famiglia Warren nella cui dimora la giovane donna presta servizio, e nelle dinamiche con cui interagiscono fra loro, ma nel complesso la storia è la medesima: in una notte da tregenda, in cui piove a dirotto, mentre si sa che l’assassino è nei paraggi, Helen rimane man mano sempre più sola nella villa (chi si allontana per un litigio, chi va in cerca dell’ossigeno necessario all’anziana inferma che giace nella Camera Blu, chi si ubriaca, chi prende troppo sonnifero…) finché alla fine chiaro che Helen non ha nessuno in grado di difenderla dal maniaco penetrato nella grande casa. Come si dice spesso, “è meglio il libro”: per quanto si tratti di un giallo d’altri tempi, il romanzo è un thriller assolutamente coinvolgente e alcuni personaggi (la vecchia moribonda, l’infermiera bisbetica che Helen sospetta di essere un uomo) sono decisamente inquietanti. Ho una parziale scusa (tirata per i capelli) anche per aver sospettato che “La scala a chiocciola” fosse un film di Hitchcock. Eccola: Ethel Line White è autrice di altri romanzi di successo, tra cui “Il mistero della signora scomparsa” (The Wheel Spins, del 1936), da cui proprio Alfred Hitchcock trasse, nel 1938, il film “La signora scompare” (The Lady Vanishes).
sabato 4 novembre 2023
LA SCALA A CHIOCCIOLA
LA SCALA A CHIOCCIOLA
Corriere della Sera – Polillo Editore
Brossurato, 2008
280 pagine, 6.90 euro
L’americana Mary Roberts Rinehart (1876-1958) è stata una delle più prolifiche autrici di gialli della storia. Esordì nel 1903, quando aveva 27 anni spinta a scrivere dall’estremo bisogno di guadagnare denaro per risollevare le sorti della propria famiglia, disastrata economicamente da investimenti azionari sbagliati. Il primo racconto, acquistato dalla rivista “Munsey’s”, le fruttò 34 dollari. Nel giro di pochi mesi, Mary riuscì a vedere una cinquantina di testi, guadagnando quasi duemila dollari e l’adorazione di una folta schiera di lettori. Perciò le fu chiesto di passare dai racconti ai romanzi, il primo dei quali fu il celebre “L’uomo della cuccetta n° 10” (1907). “La scala a chiocciola (1908) fu il secondo. In quasi mezzo secolo di attività, la Rinehart scrisse oltre quaranta romanzi, centinaia di racconti, commedie, poesie e articoli (persino come corrispondente di guerra in Europa). I gialli dell’autrice non sono quasi mai polizieschi veri e propri, e di certo non lo è “La scala a chiocciola”, dove le indagini della polizia, che pure vengono effettuate dopo un omicidio avvenuto in una villa di campagna da poco data in affitto per l’estate a una anziana signora cittadina desiderosa di fresco, restano sullo sfondo. E’ proprio Rachel, l’affittuaria, a raccontare la vicenda in prima persona: quasi sempre i romanzi della Rinehart hanno infatti protagoniste femminili. Non polizieschi in senso stretto, dunque, ma “mistery”, tracciando la strada che poi avrebbe seguito, a modo suo, anche John Dickson Carr. Storie in cui si descrivono ambienti, mentalità e costumi della società del tempo, in cui hanno un ruolo anche sottotrame amorose e dove non manca un certo senso dell’humor nella descrizione dei personaggi (deliziosi, per esempio, ne “La scala a chiocciola”, i siparietti tra Rachel e la sua domestica Liddy). La trama di “The circular straircase” è intricata, movimentata, affollata di personaggi, e i colpi di scena si susseguono: ogni capitolo si interrompe appunto nel momento esatto in cui se ne è verificato uno. “Astuta ideatrice di trame”, è del resto stata definita l’autrice dal critico inglese H.R.Keating. I misteri che si intrecciano a Sunnyside (questo il nome della tenuta che fa da perfetto e pressoché unico set del romanzo) coinvolgono due nipoti dell’anziana narratrice, Halsey e Gertrude, la ragazza e il giovane di cui sono rispettivamente innamorati (ma si tratta di amori contrastati e problematici), la famiglia Armstrong proprietaria della villa, i domestici, un paio di medici del luogo, i frequentatori di un vicino golf club. Alla base di tutto c’è l’improvviso crack di una banca, e una stanza segreta celata proprio a Sunnyside dove qualcuno ha nascosto il bottino sottratto. Niente di particolarmente stupefacente, ma la lettura è gradevole. Per dirla tutta: molto meglio, quanto a suspense, il film dallo stesso titolo “La scala a chiocciola”, del 1946, diretto da Robert Siodmak, tratto dal romanzo "Some Must Watch" di Ethel Lina White (1933), che ovviamente non c’entra nulla con l’opera di Mary Roberts Rinehart.