sabato 23 settembre 2017

JANE EYRE





Charlotte Brontë
JANE EYRE
Mondadori
2004, 576 pagine
brossurato, 9.35 euro

Quando si dice che Charlotte Brontë (1816-1855) è la sorella maggiore di Emily e Anna, il terzetto di scrittrici a cui si devono una serie di romanzi che hanno fatto la storia della letteratura vittoriana (come "Cime tempestose", "Agnes Grey" e, appunto, "Jane Eyre"), si tralascia di ricordare (ammesso che lo si sappia) come in realtà i loro genitori avessero avuto in precedenza altre due figlie Maria ed Elizabeth. Costoro, però, erano morte ancora bambine, all’età di undici e di dieci anni, per gli stenti patiti nel collegio di Cowan Bridge, la Clergy’s Daughter School, riservato alle figlie di ecclesiastici. Una scuola particolarmente severa e repressiva, dove il cibo era scarso e le condizioni igieniche insufficienti, che minò anche la salute di Charlotte ed Emily, che vi furono rinchiuse dall’austero genitore. E’ appunto all’istituto di Cowan Bridge che fa riferimento la terrificante Lowood School in cui finisce Jane Eyre nella prima parte del romanzo che porta il suo nome nel titolo, pubblicato per la prima volta nel 1847. Un classico che ancora oggi si legge con interesse e con piacere nonostante gli stilemi facciano riferimento alla letteratura del primo Ottocento e siano pertanto escluse le pulsioni sessuali o le rivendicazioni sociali. Il piacere della lettura deriva, oltre che dalla trama appassionante e felicemente romanzesca, dall’approfondimento psicologico dei personaggi, mai banali, e dalla voglia di autodeterminazione e di indipendenza della protagonista, seguita nella sua crescita e nella sua evoluzione caratteriale. Tutto ciò va unito a una credibile ricostruzione della società vittoriana, raccontata in molte diverse sfaccettature. La storia di Jane Eyre, raccontata in prima persona dalla protagonista, io narrante che si rivolge direttamente al lettore, comincia mostrandola bambina nella casa dell’arida zia che ha promesso al fratello di occuparsi di lei. La piccola orfana ha un carattere ribelle che la rende incapace di tollerare le ingiustizie e per questo finisce per essere separata dai cugini, viziati e arroganti, e chiusa in collegio. La vicenda raccontata nella prima parte del libro ha perciò un sapore dickensiano e gli anni passati a Lowood sono davvero tristi, soprattutto nelle scene che raccontano l’epidemia di tifo che falcia le piccole ospiti della scuola. La malattia strappa alla protagonista una cara amica che muore convinta di lasciare questa valle di lacrime per la felicità eterna che ci attende in paradiso e Jane resta colpita dalla fede dimostrata dalla giovanissima vittima. Un po’ dispiace vedere il caratterino tutto pepe di Jane stemperarsi in una fede che la rende, come dice lei stessa, una mezza quacchera, ma tant’è: uscendo da Lowood all’età di diciotto anni e andando a lavorare come istitutrice in una dimora borghese (esperienza che davvero l’autrice fece) la ritroviamo animata da un sacro fuoco religioso e da saldi principi. Tuttavia, emotivamente e passionalmente la protagonista resta un personaggio di straordinario spessore, e le vicende che la vedono protagonista sono decisamente coinvolgenti. La fedeltà di Jane ai suoi valori fa quasi rabbia vedendola fare scelte insensate come fuggire da Thornfield Hall, e dall’uomo che ama, senza un soldo in tasca, soltanto perché non può vivere con lui fuori dal matrimonio dato che Edward Rochester è già sposato (sia pure con una moglie completamente e folle con manie omicide, tenuta sotto chiave, unita a lui da un matrimonio giovanile combinato dal padre per interesse). Però si è partecipi dei suoi sentimenti e delle sue emozioni, anche quando pare assurdo il suo senso del dovere e del sacrificio. Jane è un’eroina che fa scelte sulla base di ciò che per lei è giusto e non sulla base di ciò che le è più conveniente, rinuncia a un’eredità e ai gioielli in regalo, si dedica anima e corpo alla missione che ritiene di dover perseguire, resta là dove crede essere il suo posto e svolge il ruolo che pensa le competa, senza ambire a niente che non ritenga adatto a lei: non è una arrampicatrice sociale anche se riesce a far innamorare un ricco possidente, e lo sposa soltanto quando ha raggiunto essa stessa il benessere ed è lui ad aver bisogno, perché cieco ed infermo, della sua assistenza. Si dedica agli altri, studia, esercita il buon gusto, si migliora costantemente e lavora per aiutare gli altri ad elevarsi (come le allieve figlie di contadini della scuola di campagna del cugino, il reverendo St. John Rivers). Naturalmente mai che un pensiero impuro le sfiori la mente (almeno, non ci viene detto) pur amando Rochester, mai che lei le tocchi i seni quando sono nel frutteto seduti su una panchina. Tuttavia, si intuisce la sua passionalità al pari della sua integrità.E inoltre, di Jane ci viene detto che non è neppure bella, come del tutto brutto sembra essere Edward, oltre che più anziano di lei di vent’anni: in questo, la loro burrascosa storia d’amore è decisamente insolita. Però che bel personaggio tormentato, anche lui: ricco e dannato, sarcastico e umorale, con un tragico segreto da nascondere che gli impedisce di sposare chi ama, ma pronto a rompere ogni convenzione sociale preferendo una donna al suo servizio (l’istitutrice della figlioccia) all’altolocata Blanche Ingram, interessata però, chiaramente, soltanto ai suoi soldi. Charlotte Brontë costruisce una trama solida e articolata in cui tutto torna: ci sono la storia d’amore contrastata, il mistero sulla misteriosa inquilina della soffitta di Thornfield Hall, i rovesci del destino e la redenzione finale. Lascia perplessi soltanto un passaggio: quando Jane fugge da Edward dopo aver scoperto, proprio mentre viene condotta all’altare, del suo precedente matrimonio con Bertha Mason (la pazza tenuta sotto chiave), finisce, ridotta in fin di vita dagli stenti, per bussare alla porta di St.John Rivers che si rivelerà essere, ma guarda la combinazione, un cugino di cui non conosceva l’esistenza, un parente che non sapeva di avere, lei che si credeva sola al mondo. Fra tanti al mondo, viene salvata proprio da lui. Potenza del romanzesco.



lunedì 18 settembre 2017

IL MANUALE ILLUSTRATO DELL'IDIOTA DIGITALE



Diego Cajelli
IL MANUALE ILLUSTRATO DELL'IDIOTA DIGITALE
Panini Books
2017, cartonato
220 pagine, 16.90 euro

Ottimo nelle intenzioni, questo manuale avrebbe però dovuto intitolarsi "dizionario" perché poi la magna pars è costituita appunto da brevi voci in ordine alfabetico e manca la parte saggistica più consistente e articolata sull'idiozia digitale che uno si sarebbe aspettato (e che io, personalmente, auspicavo). In altre parole, Cajelli ha compilato un testo social, con testi brevi e sparsi, e non si è impegnato in una disamina complessiva del problema. Del resto, una prima versione è stata pubblicata appunto in Rete. Non che la lettura non sia divertente, lo è: dalla voce "autismo" (causato, secondo gli idioti digitali, dai vaccini) a "zoccole" (le vittime degli stupratori italiani) ci si possono riconoscere tutte le perversioni mentali dei naviganti meno illuminati. Però si tratta appunto di un elenco di voci, neppure completo (Cajelli recrimina giustamente per gli insulti rivolti alla Kyenge ma improperi del medesimo tenore vengono rivolti a chiunque anche della parte politica opposta). C'è però un apparato di corredo al dizionario che è la parte migliore del libro ed è quello che lo rende imperdibile: sono le sei leggi del Web contemporaneo ("L'idiota digitale vive la libertà di espressione come suo diritto inalienabile di insultarti e diffamarti, ma se diffami e insulti lui ti denuncia"); l'atlante dei Social Network viventi, estinti e Google + (la maggior parte di questi io non sapevo neppure che esistesse o fosse esistito); e il tutorial "Come identificare un idiota digitale in dieci mosse" ("Condivide, diffonde e cede alle bufale più imbecilli che circolano sul Web").

mercoledì 13 settembre 2017

ÖTZI, L'UOMO VENUTO DAL GHIACCIO




Angelika Flackinger
ÖTZI, L'UOMO VENUTO DAL GHIACCIO
Folio Editore
2017, brossura
129 paginem 10 euro

Nel settembre del 1991 due turisti tedeschi, i coniugi Simon, durante una escursione sul monte Similaun, sulle Alpi Venoste (Ötzlaler Alpen), scoprirono per puro caso il corpo di un uomo che emergeva con il busto dal ghiaccio in cui, con tutta evidenza, era rimasto sepolto per anni. Inizialmente tutti pensarono al cadavere di uno sfortunato alpinista. Fu Reinhold Messner, giunto sul posto poco dopo, il primo a rendersi conto che si trattava di una mummia ben più antica. L'alpinista ipotizzò che potesse avere anche tremila anni. Si appurò poi che Ötzi, così in seguito sarebbe stato chiamato l'uomo del Similaun, era morto più di cinquemila anni prima, dopo aver vissuto tra il 3350 e il 3100 avanti Cristo. Prima cioè della costruzione delle Piramidi e di Stonehenge. La mummia è stata ritrovata in territorio italiano (sia pure per un centinaio di metri, tanto poco dista la linea di confine con l'Austria) ed italiana, stando alle attuali demarcazioni, sembra essere la sua terra di origine, a giudicare da tutti gli elementi a disposizione. Elementi che non sono pochi, perché Ötzi aveva con se tutta la sua attrezzatura da viaggio che si è conservata abbastanza bene come il suo corpo (di cui è stata fatta la completa mappatura genetica). Gli scavi nel ghiaccio, condotti per alcuni anni attorno al punto di rinvenimento della mummia, hanno permesso di riportare alla luce i suoi abiti, le sue armi (una scure, un coltello, arco, frecce, faretra), il marsupio, il gerla, le esche per il fuoco, funghi medicinali, il necessario per cucire. Ed è proprio questo materiale che, personalmente, mi affascina: l'uomo del Similaun era attrezzato per cavarsela in ogni circostanza, per sopravvivere lontano dal suo villaggio anche là dove io morirei in due giorni. Anche lui alla fine è morto, ucciso da una freccia la cui cuspide gli è stata ritrovata in una spalla (aveva anche i segni di altre ferite, in testa e a una mano), ma alla bella età di quasi cinquant'anni che per la sua epoca, quella del rame, era un buon traguardo. Che cosa ci facesse Ötzi sul Similaun rimane un mistero: di sicuro non c'era, su quella montagna, il ghiaccio che si è accumulato in seguito e altrettanto sicuramente c'era una via in quota che univa le valli che e che veniva percorsa da viaggiatori come lui, in un'evo in cui si cominciavano a sviluppare i commerci (il metallo della lama della sue scure veniva dalla Toscana, per esempio). I tatuaggi che la mummia ha sul corpo sembrano frutto di pratiche curative simili all'agopuntura, però potrebbero anche indicarne l'appartenenza a una classe privilegiata di sacerdoti o di sciamani. Gli studi fatti a tutti i livelli su una straordinaria serie di reperti unici non si sono ancora conclusi e chissà che in futuro altre scoperte gettino nuova luce su un uomo giunto quasi perfettamente conservato fino a noi attraverso i millenni. L'agile e aggiornato saggio di Angelika Fleckinger, ricco di immagini fotografiche, fa il punto della situazione e ha in copertina la ricostruzione attendibile dell'aspetto di Ötzi, che gode persino di una faccia simpatica.

martedì 12 settembre 2017

LA SOLUZIONE SETTE PER CENTO




Nicholas Meyer
LA SOLUZIONE SETTE PER CENTO
Il Giallo Mondadori Sherlock
2017, brossurato
200 pagine, 5.90 euro

La collana "Sherlock" dedicata dal Giallo Mondadori ai romanzi apocrifi con protagonista il Detective di Baker Street, ovvero Sherlock Holmes, pubblica come suo trentatreesimo titolo, datato maggio 2017, uno dei più celebri falsi sherlockiani. Dico "falsi" senza voler dare un giudizio negativo sulla sterminata produzione letteraria che ha proseguito l'opera di Arthur Conan Doyle nella narrazione delle imprese del più famoso investigatore del mondo. Nella maggior parte dei casi gli autori si pongono il problema dell'aderenza al "canone" e dunque cercano di rispettare non soltanto la personalità e le caratteristiche del personaggio ma anche inseriscono le loro storie in precisi momenti della sua "biografia" con l'intento di non contraddire in niente ciò che Conan Doyle ha stabilito, sfruttando magari le cose non dette o lasciate in sospeso. Molto meno fedeli sono le trasposizioni cinematografiche o televisive ma questo è un altro paio di maniche. "The Seven-Per-Cent Solution" è un romanzo del 1974 che nel 1976 è divenuto anche un film. Si tratta di un testo degno di nota perché protagonisti non ne sono soltanto il Dottor Watson (l'io narrante) e Sherlock Holmes, ma anche Sigmund Freud, il padre della psicanalisi. Ma non basta: Nicholas Meyer (newyorkese classe 1945) si prende anche la responsabilità di svelare il motivo per cui Holmes si droga, perché consideri ossessivamente il professor Moriarty un suo acerrimo nemico e perché non riesca a legare con le figure femminili. Come se non bastasse, risolve in modo clamoroso il problema del Grande Iato. Cos'è il Grande Iato? Sono i mesi oscuri e misteriosi in cui Sherlock scompare, dato per morto in una cascata in Svizzera dopo il racconto "Il problema finale", per poi far ritorno molto tempo dopo in quello intitolato "Casa vuota". In realtà sappiamo che Conan Doyle voleva liberarsi del suo ingombrante personaggio per scrivere altro, e che furono le pressioni dei lettori a convincerlo, o forse a costringerlo, a riportarlo in vita. Meyer giustifica la faccenda, senza contraddire ciò che sappiamo, con il bisogno che aveva Holmes di completare la sua disintossicazione dalla cocaina iniziata grazie a Freud a Vienna nella primavera del 1891. In uno dei racconti canonici, Conan Doyle fa dire a Watson di aver aiutato Sherlock a liberarsi della sua tossicodipendenza, senza entrare nei particolari. Ne "La soluzione sette per cento" ecco tutti i particolari forniti fino alla dovizia: il biografo del Detective di Baker Street si accorge di come il suo amico cada sempre più preda al suo vizio e soffra di deliri e crisi di persecuzione. Così, d'accordo con Mycroft Holmes, il fratello di Sherlock, organizza una sorta di "trappola" per portare l'investigatore fino a Vienna, dove Freud gli svela la verità (non è stato accompagnato fin lì per un risolvere un caso misterioso ma per una cura) e lo prende in terapia. Però poi un caso misterioso si presenta eccome, ed è quello che serve perché Holmes ritrovi l'entusiasmo ed esca dal suo tunnel, visto che Freud da solo non basta. Il Detective deduce persino gli sviluppi che porteranno alla Prima Guerra Mondiale, Freud utilizzando i metodi del paziente traccia un azzeccato ritratto psicologico dell'Imperatore austriaco traendone spunto per perfezionare le sue teorie che porteranno alla psicanalisi. Non mancano le scene d'azione che contraddistinguono molte pagine di Conan Doyle. Un'ultima curiosità: il titolo allude alla percentuale di principio attivo psicotropo nelle dosi utilizzate da Holmes per drogarsi.

giovedì 7 settembre 2017

VANGELO SECONDO MARIA



Barbara Alberti

VANGELO SECONDO MARIA
Castelvecchi 
2007, brossurato,
160 pagine, 14 euro


Uscito nella prima volta nel 1979, quando Barbara Alberti aveva 36 anni, il "Vangelo di Maria" non ha perso, nonostante il passare del tempo, la sua potenza eversiva e la sua attualità. La Madonna di questo romanzo è di totale rottura con quella della tradizione, figura pochissimo presente nei Vangeli (tutta l'impalcatura mariana è stata costruita a posteriori con la sedimentazione devozione e teologica). Maria di Nazareth è una donna che ha detto "sì"; la Maria di Barbara Alberti dice "no". L'idea stessa su cui si basa il racconto è così potente da far inserire di diritto questo vangelo orgogliosamente femminista (ma di un femminismo sui generis, poetico e non barricadiero) nell'ideale gruppo di testi che meglio di altri raccontano la donna (con altri, certamente, di segno, opposto, che descrivono magari l'angelo del focolare). Il "Vangelo secondo Maria" descrive una ragazza ribelle e vitale che rifiuta un destino già segnato, un futuro già scritto, una vita di cui non si è artefici ma è programmata da altri. Sfugge a un matrimonio combinato, si sottrae ai maneggi famigliari, si ribella al ruolo e alla sottomissione. Bellissimo il suo matrimonio casto con un illuminato Giuseppe (prima rifiutato poi accettato di fronte alla figura di un uomo che può scegliere e che non gli è imposto) che le fa da padre e da maestro lasciandola libera di realizzare i suoi sogni e i suoi desideri, di essere se stessa. Barbara Alberti, nel momento cruciale dell'Annunciazione non nega il Divino: l'angelo annuncia a Maria quel che sappiamo. Cambia però la risposta di lei, in un finale decisamente sconvolgente. "Ti basti sapere che ciò che ti è accaduto da quando sei nel mondo era previsto, perché arrivassi a essere il vaso di Dio", dice il messaggero celeste. Tutto previsto: come il destino di ogni donna. E' a questa "previsione" che Maria si ribella, vuole uscire dal disegno. E riguardo al peccato originale, così risponde: "Non considero la conoscenza un peccato, ma un dovere dell'uomo. E se davvero sei pentito per averci scacciato, perché non distribuisci piuttosto la sapienza? Mi parrebbe soluzione più ingegnosa dell'altra, che ci umilia. Se elimini la colpa, un redentore è superfluo. Ecco, Dio. Ti ho esposto i miei argomenti. Aspetto i tuoi".

sabato 2 settembre 2017

MONOLITH





Roberto Recchioni
Mauro Uzzeo
LRNZ
MONOLITH
1° e 2° tempo
Sergio Bonelli Editore
2017, due volumi di 100 pagine
cartonati, 16 euro ciascuno

Cominciamo a distribuire i meriti. Il soggetto della storia (“una storia che si è formata nella testa tutta insieme, completa di un inizio, di uno svolgimento e di una fine”, spiega l’autore nella prefazione) è di Roberto Recchioni. La sceneggiatura del fumetto (e in parte anche del film che ne è stato tratto) è di Mauro Uzzeo. I disegni sono di LRNZ, al secolo Lorenzo Ceccotti, il cui unico demerito è di essersi scelto uno pseudonimo impronunciabile, che è anche stato lo scenografo della versione cinematografica firmata da Ivan Silvestrini. Della pellicola non dirò nulla (perché non ho potuto vederne che un accattivante trailer). Del fumetto, dirò dopo. Dell’idea che è alla base di entrambi dico subito che è fantastica. Un’indistruttibile automobile supertecnologica progettata e programmata per proteggere da ogni pericolo chi la guida e chi ci viaggia, si trasforma in una trappola mortale per un bambino rimasto chiuso dentro dopo che la madre ne è scesa in seguito all’investimento di un cervo lungo una strada sperduta in un deserto americano. In pratica, i protagonisti sono due: la donna e il figlio. Tre con la macchina. Ricorda il genere di film di “Mamba” (quello con la ragazza chiusa in una casa ugualmente tecnologica con letale e aggressivo serpente) o di “Frozen” (due sciatori rimasti bloccati di notte su una seggiovia, con il freddo che li sta uccidendo e i lupi sotto che aspettano di farsene un boccone). Recchioni racconta come il soggetto sia stato subito opzionato per farne un film, che ha avuto una lavorazione travagliata durata molti anni, e di come la Sergio Bonelli Editore sia entrata in un secondo momento fra i partner della produzione cinematografica proponendo anche una versione a fumetti. Si tratta in effetti del primo film con il marchio Bonelli sul cartellone. I disegni di Ceccotti, belli e coinvolgenti, danno un taglio “autoriale” a un fumetto avvincente che però avrebbe potuto essere felicemente popolare con maggior vantaggio di tutti (della storia, degli autori e dei lettori), e non si capisce fino in fondo perché una storia che Alfred Hitchcock avrebbe raccontato in mezz’ora in uno dei suo celebri telefilm sia stata divisa in due volumi cartonati usciti a distanza di tempo l’uno dall’altro. In altre parole: un fumetto da edicola in un solo albo avrebbe raggiunto un pubblico maggiore, e un thriller del genere si sarebbe ben prestato al tradizionale taglio bonelliano. In ogni caso, “Monolith” si legge con facilità, con coinvolgimento e con piacere (lode allo sceneggiatore) sia nelle pagine in cui il dramma si sviscera e raggiunge l’apice, sia nelle tavole oniriche richieste dagli incubi, il delirio e le visioni (lode al disegnatore capace di cambiare registro con efficacia). Lodi infine alla Bonelli per il coraggio dimostrato nel battere nuove strade.

venerdì 1 settembre 2017

LE OTTO MONTAGNE





Paolo Cognetti
LE OTTO MONTAGNE
Einaudi
2017, cartonato,
210 pagine, 18.50 euro

Mi è difficile sia parlar male che parlar bene del romanzo vincitore del Premio Strega 2017. Innanzitutto, già il fatto che abbia vinto quell'agone non depone a favore: sono estremamente diffidente verso i libri - come verso i film - che ottengono il plauso della critica paludata, convinto come sono che Emilio Salgari non avremmo mai vinto lo Strega e Stephen King mai vincerà il Nobel. Tuttavia, ci stati Strega che mi sono piaciuti, da "Tempo di uccidere" di Flaiano (1947) a "L'isola di Arturo" della Morante (1957) fino a "Il nome della rosa" di Eco (1981) - e confesso che gli altri non li ho letti tutti. Fatti miei, senza dubbio: faccio questa premessa, a mio disdoro, per sottolineare come parto prevenuto. Ciò detto, ecco i tanti pro (per passare solo dopo ai pochi, ma sostanziali, contro). Paolo Cognetti scrive come tutti dovremmo imparare a fare: chiaro e pulito, con periodi brevi e frasi essenziali, precise ed efficaci, e un vocabolario mai banale ma neppure inutilmente pretenzioso. Si legge con piacere e ci si lascia volentieri incantare dalla sua prosa. In secondo luogo, è bello leggere una storia di montagna che trasmette amore verso la montagna, che fa capire il fascino arcano dei sentieri, delle vette, dei nevai e il senso della fatica fatta per salire sempre più in alto, verso la solitudine che affratella. Interessante capire il significato del titolo, che fa riferimento a una leggenda nepalese secondo la quale il centro del mondo è una alta vetta sacra circondata da otto montagne più basse disposte ad anello. La domanda è: conosce di più chi dimora sulla cima centrale o chi percorre tutte le altre? Non c'è risposta ma ognuno di noi si divide in uomini che hanno trovato il centro del mondo e non si muovono da lì, e altri che scalano tutte le restanti otto vette. Personalmente mi considero fra questi. Stimolante il ritratto dei personaggi: il padre, la madre, l'amico Bruno. Il padre di Pietro, l'io narrate, cerca in montagna la propria identità che il lavoro in città nega, a lui che viene dalle Dolomiti e, costretto a trasferirsi a Milano, impara ad amare il Monte Rosa, e sfoga sui sentieri caparbiamente percorsi in solitaria in costante sfida verso se stesso, tutte le sue frustrazioni, in polemica anche con il turismo di massa. Bruno, il co-pratogonista, è prima un ragazzo e poi un uomo di montagna, che capisce di avere il suo destino legato a filo doppio con gli alpeggi: lui è quello che resta ancorato al suo personale centro del mondo, e vani sono i tentativi di Pietro di fargli allargare gli orizzonti, salvo poi restare con il dubbio che siano proprio quelli di Bruno gli orizzonti più ampi. Sono sempre affascinato dalle storie in cui due che sono stati amici da bambini si ritrovano poi uomini. Bruno e Pietro ricordano, almeno a me, Mario e l'amico Guido Laremi di "Due di due" di Andrea De Carlo, personaggi anch'essi caratterizzati da un certo disprezzo verso la società e che, a un certo punto, fanno una scelta di vita bucolica. Anche i due finali, per qualche verso si assomigliano. I punti negativi. Pietro, detto Berio, il protagonista, resta un personaggio senza spessore. Di fronte al padre e a Bruno, Pietro, semplicemente, non sa di niente. Non si capisce cosa pensi, cosa voglia, che passioni abbia, perché faccia certe scelte. Con Bruno non parla di sesso, di polita. di Dio, del mondo. A un certo punto litiga con il padre e smette di andare in montagna con lui, ma non si capisce perché. Per anni non lo vede, senza che sia spiegato come mai. Tronca i ponti anche con Bruno, senza un motivo, e poi li riallaccia come nulla fosse, senza una spiegazione. Non vive storie d'amore, non è ben chiaro che lavoro faccia (il documentarista, certo, ma come, dove, perché?), tutto resta vago. Nè Pietro né Bruno si sono sposati, non hanno fatto figli, non hanno lavori fissi, al punto che possono permettersi di costruire insieme una capanna in alta montagna dove vivono a turno per mesi pur senza acqua né elettricità, dove ci si va solo a piedi con ore di cammino e dove nonostante ciò c'è continuamente gente ospite. Mah. Situazioni e circostante davvero strane, mi piacerebbe sapere se c'è davvero gente che lo fa, così come se davvero c'è chi non si trova ingabbiato in situazioni famigliari che rendono impossibile l'eremitaggio in montagna. Però, alla fine, il vero punto debole di "Le otto montagne" è questo: non succede nulla. Non c'è nessuna tensione narrativa. Non ci sono fatti. Non c'è una trama. Non c'è un inghippo. Non si capisce perché debba essere intetessante, al di là della gradevolezza della narrazione, vedere che cosa succede nella pagina dopo. L'unico momento di dramma, peraltro irrisolto (non si sa che cosa sia successo a Bruno, in realtà) è nelle pagine finali. Per il resto, Bruno può permettersi di soffiare la ragazza a Pietro senza che questi batta ciglio. Mi dispiace, per me i romanzi dovrebbero essere romanzeschi. Alle "Otto montagne" preferisco le "Cime tempestose".