lunedì 24 settembre 2018

I FUMETTI CHE HANNO FATTO L'ITALIA





Roberto Alfatti Appetiti
I FUMETTI CHE HANNO FATTO L'ITALIA
Giubilei Regnani Editore
2014, brossurato
170 pagine, 14 euro

“Diciamolo ad alta voce: i fumetti hanno condizionato il costume e a volte persino annunciato le rivoluzioni sociali. Nel secolo breve, hanno incendiato le anime più di quanto siano riusciti a fare paludati maître à penser”. Queste parole racchiudono, in buona sostanza, il senso e la morale dell’intero saggio, che ne è la dimostrazione argomentata, ricca di esempi. Senza procedere necessariamente in ordine cronologico (pur partendo dal 1908 e dal “Corriere dei Piccoli”), ma saltando da autore ad autore, da personaggio a personaggio, sulla base dei collegamenti di idee e dei corto circuiti, Roberto Alfatti Appetiti (giornalista di rara competenza in campo fumettistico) percorre un entusiasmante itinerario attraverso le testate, gli eroi e i disegnatori che hanno fatto discutere, sono stati processati, hanno infiammato i cuori e sono divenuti dei simboli, ma anche sono stati usati per battaglie ideologiche o combattuti dagli avversari politici.
Non c’è spazio per i fumetti edulcorati e “rassicuranti”: Alfatti Appetiti sceglie di parlare di quelli che hanno creato tumulto. A cominciare dagli eroi in camicia nera di Antonio Rubino o da quelli americani importati da Mario Nerbini, che entusiasmavano anche i figli di Mussolini, nonostante l’autarchia culturale imposta dal regime. “Eccetto Topolino”, non a caso, si dice abbia ordinato lo stesso Duce censurando tutti i comics d’Oltreoceano tranne quelli disneyani.
Fra gli italici autori fascistissimi di cui la damnatio memoriae imposta dal dopoguerra ha impedito si celebrasse l’opera, viene ricordato Gino Boccasile le cui Signorine, secondo Antonio Faeti, “rappresentano una pietra filosofale dell’erotismo”. Da esse nasce Pantera Bionda, la Tarzan in (succinta) gonnella di Gian Giacomo Dalmasso, che giunge alla fine degli anni Quaranta a gettare scompiglio tra la gioventù e viene fatta rivestire dal Tribunale. Meno male che negli anni Sessanta arriveranno prima Satanik e poi Isabella a gettare le fondamenta della liberazione sessuale a fumetti. Anch’esse, insieme ai “neri” che affrontano per la prima volta i temi scabrosi della corruzione e del malaffare, destinate comunque a subire denunce e sequestri.
Ma a far palpitare i cuori ci sono anche eroi come Capitan Miki e Tex, che (ognuno gettando il proprio seme) alle saghe della Storia del West e di Ken Parker. E come non parlare della grande stagione delle riviste? Linus ed Eureka, di sinistra l’una e di destra, forse, l’altra, però con i Peanuts (il cui autore era un conservatore) sulla prima e le Sturmtruppen (il cui autore non era un conservatore) sulla seconda, e con Benito Jacovitti cacciato dalla redazione linusiana perché anticomunista ma anche dal Diario Vitt perché passato a illustrare il Kamasutra. Interessanti anche i capitoli su Reiser, sul Commissario Spada (e sui collegamenti con gli Anni di Piombo), fino ad arrivare a parlare di Ranxerox e di Andrea Pazienza, esaminati in modo non banale e con un’ottica diversa da quella preconfezionata che si usa di solito. Ma perfino i Puffi e Tintin fanno discutere, in questo caso grazie ai paladini del politicamente corretto (giustamente derisi da Alfatti Appetiti) che ce l’hanno con la presunta apologia dell'”utopia totalitaria” rappresentata dalla comunità di Peyo, agli ordini del dittatore Grande Puffo e propugnatrice degli ideali della purezza di sangue (la razza ariana incarnata dalla Puffetta bionda), ma anche con il presunto “fascismo” di Hergé. Insomma: la storia dei fumetti viene analizzata, in modo brillante, alla luce dell’impatto ideologico e della sua forza di incidere sui dibattiti e sui costumi. Sentiti e commoventi i ricordi dell’autore riguardo le due figure a cui è dedicato il saggio: Luigi Bernardi e Sergio Bonelli.

venerdì 21 settembre 2018

I DELITTI DEL MONDO NUOVO



Leonardo Gori
I DELITTI DEL MONDO NUOVO
Hobby & Work
Prima edizione gennaio 2002
Collana Giallo & Nero
Postfazione di Franco Cardini
cartonato - 380 pagine -  lire 30.000

In quarta di copertina, la frase “uno scrittore di gialli che non delude”. Se “Nero di maggio” poteva essere etichettato come “giallo”, a questo nuovo romanzo sicuramente l’etichetta sta stretta. Non è un giallo nonostante ci siano dei delitti misteriosi e dei colpevoli, insospettabili, da scoprire. In copertina, una scritta dice: “Mistery”.  Il che aggiusta il tiro, indubitabilmente. In verità, secondo me, il genere (ma “letteratura di genere” in Italia suona male, non per colpa della letteratura di genere ma dei critici che storcono la bocca di fronte ai generi) è il feuilleton.  Il feuilleton è un termine francese che indica il romanzo a puntate nell’appendice di un giornale. Pubblicato a puntate, il feuilleton utilizza ogni mezzo per tenere viva la curiosità dei lettori: predilige le avventure di cappa e spada, i grandi affreschi storici, le vicende commoventi e le storie d’amore. Nei “Delitti del Mondo Nuovo” (qui recensito nella sua prima edizione, ma ce ne sono state altre) c’è, indubbiamente, tutto questo. La vicenda si svolge in Toscana nel 1776, dopo un breve prologo in America ambientato nell’anno precedente, in piena Guerra di Indipendenza. Protagonista del romanzo è il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena che, se si trattasse di un giallo, potrebbe essere identificato addirittura come l’investigatore. La figura di Pietro Leopoldo è ricostruita con acutezza e spessore, sorretta da una rigorosa documentazione che ci restituisce una figura umana vera, vivida, credibile e molto moderna. Dunque c’è una corte, ci sono le spie, ci sono gli intrighi, i passaggi segreti, i messaggi cifrati, i fatti d’arme. Non solo, ma i fatti si susseguono incalzanti, e la narrazione si interrompe spesso sul più bello, lasciando in sospeso il filo teso di una vicenda, per riprendere quello di un altra. Non è un romanzo a puntate, ma è costruito come se lo fosse. Ciò non significa sminuire i meriti del romanzo, tutt’altro. Anche se in Italia la parola “feuilleton” ha una accezione ingiustamente negativa (come “fumetto”), in realtà scrissero feuilleton Honorè del Balzac, Victor Hugo, Theophile Gautier, George Sand, Alessandro Dumas ed Eugene Sue. Un feuilleton è un capolavoro come “I tre moschettieri”. Il primo romanzo d’appendice, per convenzione, è il Robinson Crusoe di Daniel De Foe, apparso sul “London Post” nel 1719.  Parlando dei Tre Moschettieri, viene subito alla mente “Il Club Dumas”, e dunque uno scrittore a cui si può avvicinare Gori, e cioè Artruro Perez Reverte. Chi abbia letto un qualunque romanzo di Perez Reverte sa di come sia abile a mescolare il mistero con la Storia con la S maiuscola, il giallo con l’intreccio erudito. Pérez-Reverte ha la capacità rara di essere colto ma accattivante, erudito ma non pedante, letterario ma non pesante, di spessore ma non prolisso. Sa scrivere bene, ma mette la sua penna al servizio della storia (e dunque del lettore) e non del bello stile fine a sé stesso (e non, dunque, della sua vanagloria).  Il "Richelieu" del “Club Dumas” è l'io narrante, vale a dire un professore universitario studioso di Dumas e dei romanzi di appendice, la cui filosofia è del tutto condivisibile, come il suo disprezzo per i romanzi in cui l'autore non parla altro che di sé stesso, e si crogiola nel proprio bello scrivere. Uno dei mali di molta letteratura italiana (e non) è appunto l’essere fine a se stessa, l’essere esercizio di bello stile, del dire ma non del raccontare. Troppo spesso alla letteratura è mancata la trama, è mancato l’intreccio, è mancata la storia, sono mancati i fatti. In Gori, la trama c’è. I fatti sono raccontati in modo serrato, la costruzione è avvincente, l’intreccio tutt’altro che banale.
Il delitto di un ingegnere impegnato nella costruzione della nuova e ardita strada granducale destinata a collegare Firenze con Modena attraverso il valico dell’Abetone, scatena una serie di fatti di sangue sulle montagne pistoiesi nei dintorni di Cutigliano. Il granduca Pietro Leopoldo, abituato a occuparsi in prima persona di ciò che avviene nel suo regno, si reca sul posto per rendersi conto di quanto stia avvenendo. Ma strada facendo, cade in una imboscata tesa da chi aveva architettato tutto per attirarlo in trappola e ucciderlo. Solo per caso gli viene risparmiata la vita, e il brigante slavo chiamato Lupo, incaricato di eliminarlo, finisce per salvarlo allorché si rende conto che le idee illuminare del sovrano rendono preziosa, per la gente come lui, la sua opera riformatrice. Il complotto teso a eliminare Pietro Leopoldo, che solo nel colpo di scena finale viene rivelato in tutta la sua complessità e nelle sue sofisticate motivazioni, voleva impedire che il Granduca potesse divenire Re delle Colonie Ribelli del Nord America, com’era negli accordi segreti con Jefferson e Washington. Pietro Leopoldo era in contatto con i rivoluzionati americani al punto da collaborare a scrivere la Dichiarazione di Indipendenza (a cui del resto contribuì non poco anche il fiorentino Filippo Mazzei) e il progetto dei capi ribelli e del Granduca prevedeva non che, a indipendenza ottenuta, si costituisse una federazione repubblicana ma una monarchica retta da un sovrano illuminato e democratico, in modo da consentire un passaggio meno traumatico dal regno di re Giorgio verso una nuova ma futura Repubblica destinata a instaurarsi solo quando i tempi fossero stati maturi.  Le idee di Pietro Leopoldo erano infatti del tutto tese all’avvento del “Mondo Nuovo” che avrebbe soppiantato l’Ancient Regime. Egli credeva che gli uomini nascessero tutti liberi e tutti uguali, e che ognuno avesse il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità, com’è scritto nella costituzione americana. Il complotto ai suoi danni, benché sventato, gli impedisce comunque di dare tempestive comunicazioni a Jefferson della sua definitiva disponibilità a collaborare e dunque la rivoluzione finisce come la storia ci insegna e con Pietro Leopoldo rimasto al suo posto, a Firenze. Solo nelle ultime pagine scopriamo però che il complotto non era stato ordito, come era lecito supporre, dai reazionari, dai nobili, dagli imperiali o dagli inglesi. Al contrario: a capo c’è addirittura Robespierre, che intendeva impedire comunque l’instaurazione in America di una monarchia seppur illuminata, perché la Rivoluzione fosse completa.  Da notare. infine, come i romanzi di Gori siano sempre ambientati in momenti di passaggio della Storia, all’alba di eventi nuovi. Qui sta per arrivare la Rivoluzione Francese. Così, in “Nero di Maggio”, si era nel 1938, stava per arrivare la bufera. 
Da notare che uno dei personaggi, un popolano della Montagna Pistoiese, si chiama Burattini. Del resto il mio nome figura in una nota insieme a quelli di chi ha fornito all'autore un qualche tipo di consulenza (la mia è stata limitatissima).


venerdì 7 settembre 2018

CUORI IN ATLANTIDE





Stephen King
CUORI IN ATLANTIDE
Sperling & Kupfer
Prima edizione gennaio 2000
cartonato - 600 pagine 
lire 34.900

"Cuori in Atlantide", di Stephen King, è uno straordinario affresco della vita nella provincia americana tra il 1960 e il 2000, attraverso le vite parallele (ma anche intersecantesi) di un gruppo di ragazzi nati nei bigotti e moralistici Fifties e cresciuti nei decenni successivi, quelli invece della contestazione. Il libro è costruito con una giustapposizione di racconti imperniati su personaggi diversi, che però compaiono in tutte le storie in posizioni diverse e magari secondarie. Il primo racconto è il più lungo e l’unico con gli ingredienti del fantastico: racconta di un ragazzo dell’immaginaria e sonnolente cittadina di Harwich, Bobby Garfield, orfano di padre e ostaggio di una madre nevrotica, e ne segue il passaggio dall’infanzia all’adolescenza (all’inizio lo vediamo emozionato per la tessera che gli dà l’accesso alla sezione degli “adulti” della biblioteca pubblica). Il passaggio è visto come un susseguirsi di prove iniziatiche, con l’aiuto di un angelo custode dall’aspetto di un vecchio venuto da un’altra dimensione (e qui i riferimenti – che purtroppo infastidiscono,  – sono al ciclo kinghiano della “Torre Nera”). Ma  il racconto più bello in assoluto, e più coinvolgente, non ha niente di fantastico e di orrorifico, ed è quello che dà il titolo alla raccolta: “Cuori in Atlantide”. Siamo in un campus universitario americano negli anni Sessanta, all'epoca della Guerra del Vietnam, e ci viene descritta la presa di coscienza da parte dei giovani studenti della "generazione perduta" del dramma della guerra (anche chi non voleva mettere in discussione la guerra doveva farci i conti: non superare gli esami voleva dire partire per la giungla).   Sconvolge la descrizione di come un gioco a carte ("cuori") invasi a tal punto un gruppo di studenti da far dimenticare loro la necessità di studiare e quindi li precipita all’inferno, in Atlantide (così veniva chiamato, appunto, il Vietnam nel gergo dell'epoca). C’è probabilmente la metafora della droga, c’è sicuramente quella del desiderio di autodistruzione nell’obnubilamento tipico di una certa fase della crescita (e del male di vivere di tutte le età). C’è anche la descrizione del dramma di una società piena di contraddizioni che si scopre lacerata mentre fino a pochi anni prima aveva vissuto nel mito dell’unità delle sue componenti. I conflitti generazionali si rivelano esplosivi e minano alle fondamenta i valori comuni e preconfezionati su cui ci era illusi di aver costruito un castello che si rivela di sabbia. La crescita (l’evoluzione) della società corrisponde a quella degli individui che da bambini si fanno uomini, e donne. Gli altri tre racconti sono brevi e meno interessanti, ma servono a concludere l’affresco. “Willie il cieco”, ambientato negli Anni 80, racconta di un reduce del Vietnam che non ha combattuto quasi per niente ma del Vietnam ha fatto il suo mestiere giacché ogni giorno si traveste da barbone e chiede l’elemosina fingendosi infermo di guerra, mentre fuori dall’orario di “lavoro” ha una cosa da borghese benestante: la carità gli permette di vivere bene (e gli ideali di una intera generazione possono andare a farsi benedire). Nella nota finale, l’autore ringrazia alcune persone, fra cui la moglie, per averlo aiutato a “trovare il coraggio” di scrivere questo libro. Segno che quel che King racconta lo ha davvero sentito, e vissuto.

mercoledì 5 settembre 2018

TEX WILLER






Rudi Bargioni - Ercole Lucotti
TEX WILLER
Analisi semiseria del più popolare fumetto italiano
Gammalibri
1979, 140 pagine

Traspare dalle pagine del saggio (uno tra i primi, risalendo al 1979, a occuparsi del personaggio di Bonelli & Galleppini) il rapporto odio/amore dei due autori nei confronti di Tex, di cui viene evidenziata una affascinante ambiguità: da una parte, infatti, Tex è un ribelle insofferente verso l'autorità e la burocrazia, dall'altra invece propone valori di tipo "conservatore" quali la difesa della legge e dell'ordine costituito. In realtà l'ambiguità non esiste, in quanto Tex non è un difensore dello status quo, ma solo della giustizia. Dalla parte del torto o della ragione non si trovano sempre quelli di "destra" (i politici, i militari e i ricchi possidenti) o sempre quelli di "sinistra" (i pellerossa, i bianchi spiantati e diseredati): per questo motivo è ingiusto cercare di applicargli etichette come "progressista" o "reazionario". Casomai si potrebbe discutere sulla sicurezza manichea con cui Tex individua subito e a colpo sicuro (senza dubbi né incertezze) i "buoni" e i "cattivi", ma questo è un altro discorso. Bargioni e Lucotti propongono anche una analisi strutturale delle storie di Tex. Il concetto è il seguente: tutte le avventure del nostro eroe si basano sullo stesso schema, il cui sviluppo è in gran parte prevedibile. Il lettore è quello si trova insomma immerso in un gioco di cui conosce le regole e l'esito, e trae soddisfazione solo dalle variazioni minime attraverso le quali il protagonista giunge ad avere ragione del cattivo di turno. L'apparente varietà delle trame, sostengono Bargioni e Lucotti, si riduce a ben vedere a pochi canovacci fondamentali, riproposti ogni volta con indiscutibile perizia dagli sceneggiatori texiani: ciò non a danno del lettore, ma anzi assecondando le sue attese. Le eccessive innovazioni, infatti, infastidiscono il pubblico piuttosto che stuzzicarlo.  I due autori tentano addirittura di sviluppare una "morfologia di Tex", richiamandosi in questo al fondamentale trattato intitolato "Morfologia della Fiaba" scritto nel 1928 dallo studioso russo Vladimir Propp. Chi sfogliasse il saggio di Propp scoprirebbe con sorpresa come le sue pagine sono piene di quelle che possono a tutti gli effetti essere considerate formule algebriche: il suo intento è infatti quello di dimostrare come qualunque racconto fiabesco sia in realtà costruito sulla base del medesimo schema, costruito grazie a una rigida "grammatica" dell'affabulazione, e riconducibile a una sorta di espressione matematica in grado di tener conto delle variabili. Lo stesso cercano di fare i due analizzatori delle storie di Tex i quali, in maniera molto semplificata rispetto all'esempio proppiano, propongono un elenco di poche "funzioni" principali. Queste sarebbero, essenzialmente: il Danno (il reato o il mistero), la Missione (Tex decide di occuparsi del caso - o è costretto a farlo), il Viaggio (i pards giungono sul luogo), l'Indagine, la Prima Mossa del malvagio (che tenta di ostacolare il nostro eroe), la Lotta aperta con il criminale, la Vittoria di Tex, che coincide con la Punizione del Cattivo. Utilizzando le iniziali maiuscole delle "funzioni" come caratteri algebrici, ecco una formula (qui ridotta ai minimi termini) in grado di riassumere tutte le avventure di Tex: D+M+V+I+PM+L+V = PC.

martedì 4 settembre 2018

SE L'UNIVERSO BRULICA DI ALIENI, DOVE SONO TUTTI QUANTI?



Stephen Webb
SE L'UNIVERSO BRULICA DI ALIENI, DOVE SONO TUTTI QUANTI?
Sironi
2018, 494 pagine
brossura, 25 euro 

La domanda è quella del cosiddetto “paradosso di Fermi”, e cioè: se l’universo brulica di vita, dove sono tutti quanti? Fu questo, infatti, il quesito che Enrico Fermi pose ai suoi colleghi di Los Alamos durante un pranzo di lavoro nell’estate del 1950. E nel 2002, Stephen Webb ha scritto un brillante saggio intitolato proprio così: “If the Universe is teeming with aliens, where is everybody?”. Il libro è stato pubblicato in Italia nel 2004 da Alpha Test e  inserito nella collana “I saggi di Focus”. Adesso viene ripreso, in edizione ampliata da Sironi. Il punto di partenza del “Fermi’s paradox” è che tutte le evidenze sembrano dirci che ci siano nell’universo migliaia (se non milioni) di pianeti su cui sia possibile la vita e che questa, pertanto, dovrebbe essersi sviluppata, con estrema probabilità, in molti di essi. Dunque, perché non ne scorgiamo la minima traccia? Dove si nascondono gli alieni? Webb fornisce decine di possibili risposte, tutte perfettamente argomentate con i pro e i contro. Le spiegazioni si dividono in tre gruppi. Il primo, risolve il paradosso ipotizzando che in realtà non sussista, perché il contatto è già avvenuto anche se non è di dominio pubblico. Il secondo, parte dal presupposto che gli alieni esistano ma che sia impossibile comunicare con loro. Il terzo gruppo, contiene tutte le teorie che descrivono la vita come un evento molto raro, se non unico, e comunque tendente a estinguersi con grande velocità a causa dei fattori più diversi, compresi i lampi di raggi gamma che sterilizzano intere galassie (e potrebbero verificarsi in ogni momento anche nella nostra). Insomma, gli alieni o sono già qui, o esistono ma non possiamo contattarli, o non esistono. La teoria finale di Webb è che non esistono: la vita potrebbe essere una singolarità irripetibile. Isaac Asimov, che all'argomento dedicò il suo saggio "Civiltà extraterrestri",  la pensava diversamente: secondo lui gli extraterrestri esistono, ma le distanze interstellari sono impossibili da superare anche per loro, come per noi, e dunque siamo destinati non incontrarci. Personalmente, preferirei che non ci trovassero. Non si sa mai.