martedì 5 luglio 2016

IL LIBRO CUORE (FORSE)



Federico M. Sardelli

IL LIBRO CUORE (FORSE)
Mario Cardinali Editore
Collana I Grandi Autori del Vernacoliere
Prima edizione dicembre 1998
brossurato - 108 pagine -  lire 12.000

Il fatto stesso che esista (cioè che qualcuno lo scriva, e qualcun altro lo pubblichi) un libro così politicamente scorretto  dà una soddisfazione che supera quasi il grande divertimento che si prova nell’esilarante lettura. Le risate sgorgano irrefrenabili ma a danno di poveri focomelici, di ciechini, di bambini con le gambe morte, di bidelli monchi, di maestri epilettici, di reduci di guerra ridotti a camminare sulle gengive, della più assoluta mancanza di pietà verso la sofferenza altrui. Federico Sardelli, uno dei massimi esperti e interpreti dell'opera di Vivaldi, noto flautista e direttore di musica barocca, è una persona colta e si vede. Anche nel pescare nel triviale lo fa con consapevolezza. Scrive in perfetto stile De Amicis, costruendo una parodia di straordinaria vis comica di Cuore, anzi del “libro Cuore”, come si usava dire una volta dando per scontato che si trattasse del libro per antonomasia. Quel che stupisce leggendo l’originale deamicisiano è appunto l’abbondanza di disgrazie, tragedie e handicappati che affollano quelle pagine. Nella dotta prefazione, Carlo Lapucci cita uno studio effettuato sui giornali torinesi degli anni di Cuore da cui risulta che effettivamente gli incidenti sul lavoro e le malattie gravi erano all’ordine del giorno. In ogni caso, la lettura di De Amicis è angosciante. Proprio su queste angosce gioca Sardelli, caricandole a tal punto da provocare valanghe di risate liberatorie. Al divertimento del testo si aggiunga quello delle foto d’epoca ritoccate dallo stesso autore (che è pure un valente disegnatore). Qui di seguito un estratto dal libro. Cercate di non soffocarvi dalle risate, se vi riesce.

L’anno è appena iniziato, ed ecco subito una cattiva notizia. Stamane, quando si fece sull’uscio cogli occhi gonfi di pianto il nostro buon bidello Mallio — quel poveraccio che perse due gambe e l’unghia lunghissima del mignolo nella battaglia di Lupino — tutti sussultammo. Recava con sé una circolare tutta inzuppa di lagrime e pinot grigio in cui s’annunziava che il nostro buon direttore era molto malato e non sarebbe venuto a scuola pei prossimi tre mesi.
Il nostro amato maestro colitico serrò le mascelle, si terse coll’indice l’angolo dell’occhio di sotto all’occhialetto e poi disse col suo vocione da basso tuba: — Oggi è un giorno di grande mestizia per la scuola intiera. E’ come se vostro padre fosse improvvisamente mancato, escluso naturalmente il Panicchi che tanto gli è già stiantato il babbo tre mesi fa. Quel grand’uomo del vostro direttore, buono e dal cuore nobile, che ogni mattina sollecito e premuroso bada che tutti voi entriate in classe e svolgiate con diligenza il vostro compito, da oggi non potrà più essere qui a vegliar su di voi. — E qui il Soffioni esplose in un pianto dirotto che trascinò tutta la classe in singulti ed ululati. — Egli, pensate — continuò il nostro buon maestro poliomelitico — è stato còlto dal un morbo maligno che ora lo rode; e pur negli spasmi del dolore il suo pensiero è comunque rivolto a voi fanciulli, che con le vostre bizze e intemperanze l’avete condotto a quello stato pietoso; egli s’è finalmente ammalato dopo aver speso tutto sé stesso per il vostro bene, razza di carogne ingrate, ed ora giace sur un lettuccio di dolore a combattere contro un male che non gli dà tregua, ma lo fa comunque pensando a voi, merdoni assassini che l’avete sulla coscienza. —



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