Joël Dicker
IL LIBRO DEI BALTIMORE
La nave di Teseo
2016 cartonato
590 pagine
Benché fossi rimasto perplesso dopo la lettura di "La verità sul caso Harry Quebert" (di cui ho già scritto esprimendo tutti i miei dubbi sulla qualità del romanzo a dispetto del clamoroso successo mondiale) ho comunque deciso a concedere una seconda possibilità a Joël Dicker. Dopo parecchie esitazioni, mi sono deciso e ho letto finalmente il suo romanzo successivo, "Il libro dei Baltimore". Ecco, con ogni probabilità Dicker lo saluto qui. Sussistono tutti i motivi per storcere le labbra che c'erano nel precedente romanzo, ma almeno lì c'era un giallo da risolvere e alla fine, bene o male, pur fra mille situazioni tirate per i capelli, il mistero veniva svelato. Personalmente non ho apprezzato la soluzione, ma bisognava ammettere che lo scrittore aveva saputo tenerci incollati fino alla fine. Nel "Libro dei Baltimore" non c'è neppure il giallo. La trovata per farci rimanere incollati fino alla fine è cominciare con l'annunciare una "tragedia" data per avvenuta da chi ne scrive molti anni dopo (lo stesso Marcus Goldman, improbabile scrittore protagonista del "Caso Harry Quebert") e poi procedere con la ricostruzione degli avvenimenti sempre tenendo alta la curiosità su quale mai sarebbe stata questa "tragedia". Non soltanto, nel finale, la "tragedia" si rivela assurda al limite del grottesco, ma per tutto lo svolgimento del romanzo capitano una quantità di avvenimenti a cui si fa fatica a credere. Sostanzialmente Marcus Goldman rievoca la sua infanzia e la sua adolescenza in seno a una famiglia divisa in due, quella di suo padre, piuttosto squattrinato, e quella dello zio Saul, pieno di milioni. Marcus rimpiange di continuo non essere figlio dello zio Saul, che ha un figlio suo, Hillel, e un secondo, Woody, che ha finito per essere adottato, non si capisce bene perché. Comunque sia, ci sono tre cugini che crescono insieme, e c'è una ragazza che li frequenta, Alexandra, di cui tutti e tre sono innamorati. Romanzo di formazione, si potrebbe dire, se non che il succedersi degli avvenimenti (quelli che avrebbero condotto alla famigerata "tragedia") fa cadere le braccia per come si resta increduli nel sentirli raccontare. Un esempio: lo zio Saul adorato da tutti, a un certo punto teme di essere sostituito, nell'ammirazione dei tre cugini, dal padre di Alexandra che, più ricco di lui, diventa idolatrato, come possono farlo degli adolescenti, dai ragazzi. Allora sponsorizza con sei milioni di dollari lo stadio dove questi vanno ad assistere alle partite di football, in modo che ci sia scritto il suo nome sul portone da dove figli e nipote entrano. Figli e nipote che mai hanno litigato con lui o hanno smesso di volergli bene, beninteso. Però Saul, roso dalla gelosia, fa questo gesto eclatante che lo manda in rovina e provoca la fine anche del suo matrimonio. Si badi bene: lo zio Saul è sempre stato descritto da Marcus come l'uomo più saggio, buono, assennato del mondo. Mah. E vogliamo parlare della tragedia? Non dirò qual è, ma accenno al fatto che tutto nasce da una condanna a cinque anni (ripeto: cinque anni, non cinquanta) a cui uno dei cugini cerca di sottrarsi fuggendo prima dell'incarceramento: inseguito, spara come un assassino nato e ammazza perfino dei poliziotti. Roba da matti: ma perché? Ecco: in cose così ci si imbatte in ogni pagina. A onor del vero va detto che Dicker scrive in modo fluido, che è gradevole da ascoltare, che seicento pagine di romanzo si leggono in poche ore, ma si tratta del grado zero della scrittura. Peraltro, perché mai uno svizzero debba raccontare vicende americane, non si capiva al tempo di Harry Quebert e si continua a non capire adesso.
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