Non sono un critico letterario di professione, men che mai uno che scrive abitualmente recensioni di opere poetiche. Tuttavia, nel corso dei miei studi, mi sono occupato spesso di versificatori e ho sempre coltivato una privata passione per un certo tipo di composizioni, quelle maggiormente collegate ai ritmi e agli accenti, che collego anche alla musica, e alle canzoni della produzione italiana, i cui testi, come ho scritto più volte, rappresentano un aspetto importantissimo della poesia italiana e, anzi, a livello di penetrazione, diffusione ed efficacia nella cultura di massa hanno sostituito quella che una volta era la versificazione tramandata oralmente anche presso coloro che non sapevano né leggere né scrivere.
Ci sono stati, fino a pochi decenni fa, contadini o pastori che pur non avendo mai letto la “Divina Commedia” erano in grado di citarne a memoria interi canti. Esiste anche un filone di poeti illetterati in grado, grazie a uno spontaneo senso della metrica, e a una altrettanto innata ispirazione lirica, di improvvisare sonetti o cantare in ottava rima. I moderni cantautori hanno raccolto l’eredità degli antichi trovatori provenzali (le cui composizioni erano musicate, anche se ci sono state tramandate soltanto come testi, senza spartiti), e da quei trovatori, come sappiamo, nasce la poesia italiana, all’inizio del Duecento.
Sulla montagna pistoiese, la mia terra d’origine, così come in tante altre parti d’Italia, ci sono numerosi esempi di poeti “di paese”, quelli di cui, purtroppo, pare essersi perso lo stampo. Un nome fra i più famosi è di una donna, quello di Beatrice Bugelli, detta Beatrice di Pian degli Ontani (1803-1885), di cui si interessò persino Niccolò Tommaseo, che volle trascrivere su carta i versi che la donna, una pastora che portava al pascolo le pecore sulle cime tra Cutigliano e l’Abetone, cantava improvvisando in ottave, pur senza essere mai andata a scuola.
Ecco come Beatrice parla della sua educazione:
Non vi meravigliate giovinotti
se non sapessi troppo ben cantare
in casa mia non c'è stato maestri
e manco a scuola son ita a imparare.
Se voi volete intender la mia scuola:
su questi poggi all'acqua e alla gragnola!
Se voi volete intender il mio imparare:
andar per legna e starmene a zappare!
Proprio sulla montagna pistoiese, a Gavinana, giovedì 16 agosto 2012 , si è svolta infatti la presentazione del libro, da me curato, "Il poeta delle piccole cose", un saggio dedicato a un altro poeta illetterato della zona, che si firmava "Geri di Gavinana" ed era in grado di scrivere versi di una immediatezza rara. La conferenza ha avuto luogo in notturna, dopo cena, all'aperto, sotto il campanile della bellissima pieve romanica, e ha visto il sottoscritto parlare del Geri e l'attore Bruno Santini leggere, da par suo, i versi del poeta, divertenti come non mai in bocca a un dicitore così brillante. Gli organizzatori avevano predisposto cento sedie, contando di occuparne almeno cinquanta. Risultato: tutti i posti esauriti, e gente in piedi tutt'intorno, anche fuori dei cancelli, ad ascoltare (e guardare le immagini proiettate su un maxi schermo). Il libro, che è stato venduto in alcune centinaia di copie nel giro di quindici giorno (un risultato sbalorditivo per un testo di poesia), contiene non solo il mio saggio, ma una selezione, fatta da me) delle migliori opere del poeta.
Quello che segue è un breve estratto del mio scritto, più una brevissima scelta di alcune delle opere del Geri. Se volete divertirvi, emozionarvi, ridere e commuovervi, saltate pure il mio testo e correte a leggervi il Geri. Se poi volete procurarvi il libro (costa 10 euro, tutti devoluti alle attività a vantaggio della comunità), scrivete o telefonate all'Associazione Musicale e Culturale Domenico Achilli – Piazzetta Aiale, 24 – 51028 Gavinana (PT) – Tel: 0573 66057 – Email: associazione.achilli@gmail.com
POESIE COME FIORI
Di Moreno Burattini
Giuseppe Geri, da tutti e per tutta la vita, detto “il Poeta”, nacque a Gavinana il giorno di Ognissanti, il primo di Novembre, del 1889. E a Gavinana, dove però non visse tutti i suoi anni (avendone trascorsi parecchi anche in Garfagnana), morì nel settembre del 1975. Nel piccolo cimitero del suo paese natale può capitare che lo sguardo del visitatore cada su una tomba, niente affatto vistosa, simile a tante altre tranne che per una particolarità: sulla lapide, la scritta dice semplicemente: “Geri di Gavinana – Poeta”.
Geri di Gavinana: è questo, infatti, il nome con cui firmava le sue poesie, e quello che compare sulla copertina e sul frontespizio di un volumetto di poesie edito da Vallecchi del 1929, intitolato "Fiori di Bosco". L'autore si firma senza nessun accenno al nome di battesimo, ma sottolineando il luogo d’origine, come se l'essere nato a Gavinana fosse più importante del fatto di chiamarsi Giuseppe.
In quegli anni, il Geri (nella foto qui accanto, datata 1916, lo vedete con il fratello Guido) era un giovane che saliva verso la quarantina e che lavora nelle Officine di Limestre: il fatto che un operaio, un semplice operaio non un dirigente o un capo ufficio, in anni in cui i meno abbienti non andavano a scuola e non leggevano libri, scrivesse poesie, era sicuramente qualcosa di insolito. Infatti, il Geri frequentò soltanto fino alla terza elementare: per il resto, fu completamente autodidatta. Chi gli insegnò a scrivere in versi? A sentire lui, nella poesia "La mia scuola" soltanto la natura:
ci fanno scuola i piccoli animali,
le stelle, il cielo, il mar, la terra, i fiori,
i nostri sensi deboli e mortali.
Sono senza cultura, dice il poeta. Sembra appartenere a quella schiera dei poeti illetterati che si sfidavano a disturne cantando in ottave, e che sapevano improvvisare strofe semplicemente ripetendo come verso iniziale quello finale di chi li aveva preceduti.
Guglielmo Lera, in un suo scritto dedicato al Geri, dice: «Se a questa tradizione di poesia popolare, se all'improvvisatore di rime dolci e bizzarre dovessi dare un volto, se di una Beatrice di Pian degli Ontani dovessi cercare le ragioni del suo continuo rivolgersi al canto, oggi, a tanti anni di distanza, e in un mondo così mutato, andrei a cercare del Geri». Il Geri, però, rispetto alla Bugelli aveva qualche marcia in più. Non si limitava all'ottava rima, ma ricamava sonetti e canzoni, alternando i metri, modellando su poeti come il Pascoli e il Carducci la sua ispirazione spontanea.
Il confronto fra le ottave di Beatrice di Pian degli Ontani e composizioni di “Fiori di bosco” fa capire che il Geri, benché autodidatta e dalla "testa dura", come lui dice, fosse un uomo di migliori letture. Poche, forse, ma buone. Luigi Russo testimonia che "ha letto qualche poeta moderno, Giusti, Leopardi, Carducci, Pascoli, ma così a tratti, senza impegnarsi in uno studio e in una passione letteraria per la loro opera".
"La mia casa", per esempio, è una poesia composta di quartine di endecasillabi. Un metro usato da Pascoli ne "I Canti di Castelvecchio", per esempio nella poesia "Il ritratto”. Si tratta di un metro eminentemente narrativo, adatto per rievocare ricordi. Il Pascoli lo usa appunto per questo, e il Geri legge, impara, e lo fa proprio: sarà pure un cantore istintivo, ma conosce la metrica. Gli viene bene a orecchio, ma se la studia anche sui libri di poesia. Scrive il Russo: «La poesia del Geri, è arguta e fresca. Senza pretese, poesia elementare del popolo, ma merita accoglienza dal lettore proprio per quel principio d'arte che la trasfigura. Se nel Geri non c'è elaborazione letteraria, c'è pure una capacità di elaborazione artistica. E se egli vi giunge non per curriculo di studi, questo non importa, vi giunge per assidua meditazione, e per affinamento interiore. Anzi, i poeti, per giungere all'arte, non conoscono altra via che questa».
I versi del poeta affrontano i temi dei sentimenti universali, del trascorrere del tempo, dei misteri della vita e della morte, ma anche propongono scherzi e strambotti. Il modo d'approccio del Geri alla materia del suo canto è sempre limpido, cristallino, felicemente ingenuo, naif nella più pura e migliore accezione del termine. Da montanino, appunto, non inteso come uomo grezzo, incolto, ma come spirito semplice ma profondamente spirituale, che giunge all'essenza delle cose grazie a una illuminazione istintiva, non tramite la mediazione delle sovrastrutture culturali e filosofiche.
Come in molta produzione pascoliana, e sicuramente come in “Myricae” ne “I canti di Castelvecchio”, il Geri scriveva liriche sui fatti quotidiani. La poesia per lui non è canto dell'immaginifico, ma della piccola realtà di tutti i giorni. Descritta, per di più, in estrema sintesi. Le "piccole cose" sono anche gli spiritosi bozzetti di vita vissuta.
A Pascoli soprattutto Giuseppe Geri cerca di avvicinarsi nell'uso della rima e della metrica, oltre che delle tematiche. Pascoliana è, nel Geri, anche l’ossessione ricorrente verso il ricordo dei morti, o il pensiero che corre alle dolorose memorie famigliari che cementano il rapporto con il “nido” casalingo. Ma mentre il Pascoli, coltissimo e letterato, anche quando parla della cavallina storna pensa in realtà a Xanto, il cavallo parlante di Achille nell'Iliade di Omero, il Geri no. Lui, quando parla del suo cane Leo, scomparso nel bosco e mai più tornato, pensa davvero a Leo, e la commozione che traspare dai suoi versi è sincera e comunicativa, si trasmette a chi legge anche se non tutti gli accenti sono giusti, anche se l'andamento è discontinuo. Se il Geri perde sul versante tecnico, della ricerca e della sperimentazione, delle sottigliezze dell'arte della versificazione, nei dattili e negli spondei insomma, guadagna in immediatezza, in sincerità, in comunicatività.
Una delle prime raccolte poetiche di Giovanni Pascoli si intitola “Myricae”. Le myricae sono arbusti bassi, umili, detti anche “cesti” o “stipe”. Sarà un caso che il Geri scelga come titolo per il suo libro proprio “Fiori di bosco”, accostando, volontariamente o meno, la sua raccolta a quella pascoliana?
Si potrebbe accostare il Geri a Trilussa: ma Trilussa popolareggiava per scelta stilistica, il Geri era davvero popolaresco. Gli animali del Geri, come Leo o il gallo re del pollaio, sono veri animali, quelli del Trilussa sputano sentenze.
Spesso la poesia del Geri è poesia della memoria, e di nuovo viene in mente il Pascoli, che sosteneva come la poesia "non è se non ricordo", recupero delle emozioni perdute. La poesia è nelle cose, e il poeta ha il dono magico di una vista a raggi X che la sa cogliere. Ci sia concesso un altro paragone pascoliano, breve ma molto significativo. Nella raccolta pascoliana "Myricae” è contenuta una ballata piccola di endecasillabi intitolata "Il tuono". Sono solo sette versi che dicono così:
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.
Si noti come il verso "rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo" faccia il verso al rumore del tuono. C'è un uso onomatopeico delle parole. Una sapienza letteraria. Notiamo anche il fatto che dopo il tuono, il ritorno alla tranquillità è testimoniato dal canto di una mamma al suo bambino svegliato dal fragore del temporale. Ed ecco ora il Geri, ne “Il temporale”:
Scroscia sui vetri con rombo sonoro
la grandine e il vento sconquassa le gronde.
Anche in questo caso l’onomatopea è evidente: “scroscia sui vetri” riproduce efficacemente il rumore della pioggia sulle finestre, e “rombo sonoro” fa il verso al tuono tanto quanto “sconquassa le gronde” lo fa al vento. Ma ecco che il temporale si placa:
Cessata è la pioggia; un vecchio per mano
tenendo un fanciullo che appena cammina,
nel fango melmoso ne vanno pian piano
mirando nel cielo una striscia turchina.
La recuperata serenità, che per il Pascoli è significata dall’immagine della madre che canta la ninna nanna per far riaddormentare chi giace nella culla, per il Geri è rappresentata dal nonno che porta a spasso tenendolo per mano “un fanciullo che appena cammina”. Le similitudini sono evidenti. Nel poeta dei “Fiori di Bosco”, però, non ci sono arditezze letterarie, c'è solo sapienza descrittiva e spontaneità di immagini. Ma l'immagine del ritorno alla tranquillità, il richiamo ai bambini, alle "piccole cose", agli affetti, è un tratto comune alla sensibilità dei due poeti. Viene quasi da chiedersi che razza di versi avrebbe scritto Giuseppe Geri se solo avesse studiato quanto il Pascoli.
Il poeta lavorò come operaio nelle officine di Limestre fino agli Anni Trenta, poi per motivi di lavoro fu costretto a trasferirsi a Fornaci di Barga (nella foto qui accanto), insieme ad altri del paese. Il Geri ci rimase male, visse la cosa come una ingiustizia. Se ne lamentò. Però partì. Per un uomo attaccato quant'altri mai al suo paese natale fu indubbiamente uno strappo lacerante. Tuttavia egli fece spesso ritorno a Gavinana, quando il lavoro glielo permetteva, e anche a Fornaci di Barga non mancò di conquistare la simpatia degli abitanti del luogo, continuando a poetare nella sua nuova casa.
Ne pubblicò alcune su riviste e su giornali, ma non compilò più nessun libro. Nel 1994 ne è uscito uno postumo, a cura di Milvio Sainati. “80 anni di poesia”, questo il titolo, si fregia anche di una prefazione di Gian Luigi Ruggio, all’epoca conservatore di Casa Pascoli a Castelnuovo. Una caratteristica del tutto singolare del modus operandi del Geri era, soprattutto negli anni trascorsi in Garfagnana, quello di scarabocchiare poesie improvvisate su foglietti di carta volanti, che poi il poeta regalava agli amici e, talvolta, anche agli sconosciuti. Alcuni venivano recuperati, e ci fu chi cominciò a raccoglierli e a batterli a macchina. Laura Tonietti, a cui si deve rendere merito per aver svolto questa attività, regalò poi gli originali del Geri a Milvio Sainati, che mise insieme circa 150 manoscritti. Ma chissà quanti ce ne sono in giro.
Per tutta la vita, Giuseppe Geri fu afflitto dal “mal di vivere”. Ne “La mia preghiera” sono efficacissimi i due versi con cui, rivolgendosi a Dio, lo descrive.
Spengi dal petto mio questa fornace,
che lenta mi divora.
E spessissimo tornano alla ribalta i temi dell’amarezza, dell’angoscia, della vita resa intollerabile dal peso dei pensieri, dei dolori, della disperazione. Da questo punto di vista, come interpretare invece il Geri comico, il Geri dello strambotto e della facezia? L’arguzia è, per il poeta gavinanese, una difesa contro il male oscuro, un modo per esorcizzare la depressione. Spesso, quando si accorgeva che una poesia faceva commuovere, se ne usciva con una battuta o un’immagine divertente per spezzarne l'amarezza. La sia ironia non è però mai caustica, mai satirica e soprattutto mai politica.
E’ bonaria, da uomo saggio che conosce il mondo ma che il mondo guarda da lontano, come spettatore disilluso:
E guardo questo mondo un po’ in cagnesco
che mi sembra sia tutta una finzione.
Il Geri è in fondo un uomo segnato dal destino perché per lui il poetare è come una "condanna", ciò che lo rende diverso dagli altri. E’ un poeta semplice, ma non semplicione. Sapeva essere originale, interveniva con tocchi di inaspettata genialità. La tristezza e le difficoltà della vita aumentano con l’età. Il Geri è un poeta vero, un poeta nato, ma anche un uomo comune, toccato dai nostri stessi problemi: le tasse, il carovita. E' il poeta del quotidiano. Ma anche capace di esprimere e rappresentare con estrema e drammatica efficacia la vita di un pensionato che vive solo, privo di illusioni.
Giuseppe Geri morì nel 1975, e come aveva chiesto nelle sue poesie tornò a Gavinana per esservi sepolto. Ma lasciò un testamento, un testamento spirituale: la sua opera poetica, quella di un uomo che non ha nulla da lasciare agli altri se non la testimonianza di una vita spesa nella modestia e nella poesia.
GERI DI GAVINANA
POESIE
AI MIEI LETTORI
Se scrivo comico mi chiaman matto,
se scrivo serio son pessimista;
c'è pure chi mi tien per un artista,
c'è chi mi dice che non valgo affatto.
Io, per uscire da quell'imbroglio,
scrivo quando mi pare e come voglio.
EPIGRAMMA
Se qualcuno a tempo perso
pur leggessi qualche verso
che distrattamente ho fatto,
certamente e con ragione
gli farebbe l'impressione
che nel mondo fossi un matto.
Ma di questo mi consolo,
che di matti non son solo.
LA MIA SCUOLA
Nel mondo non studiai che la natura,
dove mi posi tanto a meditare,
dove conobbi nel fatale andare
sorrisi, le speranze e la sciagura.
Non ebbi scuola e son senza cultura,
non feci che la terza elementare,
ma tante cose pur potei imparare
per quanto avessi assai la testa dura.
S'impara più e più si schiude i cuori
a contemplar le cose naturali,
che a intisichire in mezzo ai professori.
Ci fanno scuola i piccoli animali,
le stelle, il cielo, il mar, la terra, i fiori,
i nostri sensi deboli e mortali.
AUTORITRATTO
Non sono bello, non sono brutto,
di color pallido, di viso asciutto,
non porto baffi, la fronte alta
tra la calvizie che più risalta.
Ho il naso grosso, labbro sottile,
l'animo acceso da fiele e bile,
ho i denti radi, franche mascelle,
statura media, di forme snelle.
Son taciturno, camminatore,
dormo pochissimo, conto le ore
son mezzo astemio, mezzo poeta.
Indifferente per la moneta,
sorriso mite, lo sguardo ratto:
è questo identico il mio ritratto.
IO COI FINIMENTI NUOVI
Oggi mi son vestito a tutta festa:
le scarpe bianche, basse col ghettino,
stirato a duro e lucido il solino,
e sulle ventitré cappello in testa.
Ho la giubba alla moda e ben si presta,
i calzon con la piega, il cravattino,
e frullo un elegante bastoncino
passeggiando per via tutto alla lesta.
Ma preferisco i finimenti vecchi:
il mio giubbone lungo e rattoppato
e il cappellaccio a gronda su gli orecchi.
Ma preferisco starmene isolato
in mezzo ai monti, come i saltabecchi,
che vivere così tutto legato.
LA MENDICA
Venne, povera vecchia, alla mia porta,
scalza, tutta lacera e piangente:
chiese la carità... non ebbe niente.
Ed or mi pento; troppo tardi, è morta.
Batteva la campana a lenti tocchi
ed io pentito mi asciugavo gli occhi.
Giuseppe Geri con il cane Leo nel 1920
A LEO
Più non ti vedo, o mio fedele cane,
e sono privo della tua carezza,
manca all'affetto mio quella dolcezza
che sempre viva dentro al cuor rimane.
Quando la coda dimenavi lento,
gli occhi volgevi a me tutto commosso
e, feste e prilli, mi saltavi addosso,
mugolando così tutto contento.
Povero Leo, una mattina scialba
tu mi partisti e più non sei tornato:
invano t'aspettai, e t'ho cercato
su questi monti nella prima alba.
E col tuo nome in cuore e sulla bocca,
confuso errai allor di valle in valle,
tra lo scherno e le beffe della sciocca
gente, che mi ridea dietro le spalle.
E col sorriso della delusione
tornavo a casa sconsolato e stanco,
pensando sempre a te: gentile e bianco,
amico sol fedel del tuo padrone.
LA TASSA SUI CELIBI
La tassa sul celibato fu istituita il 13 febbraio 1927 dal regime fascista, e interessava i celibi di età compresa fra i 25 e i 65 anni.
Bisogna dare un calcio al celibato
e pigliar moglie anche chi non vuole;
ed ognuno farà quello che puole,
si tratta d’una legge dello Stato.
E chi non piglia moglie vien tassato,
questi sono fatti veri e non parole,
fanno per limitar la tanta prole
che non ha babbo sopra il lastricato.
Una volta la tassa era sui cani,
ma ora si comincia a far progresso,
e l’hanno messa ai poveri cristiani.
Ma io vi parlo chiaro e vi confesso:
a pigliar moglie aspetterò domani,
pagò la tassa, e camperò lo stesso.
LE NOVELLE DELLA NONNA
Al piccolo chiaror d'un lume a mano,
la nonna raccontava le novelle,
un tempo che passò molto lontano;
e noi, seduti intorno alle gonnelle,
attenti si ascoltava a capo chino
sotto la vecchia cappa del camino.
Sotto la vecchia cappa, la fiammella
del lume a mano ci parea una stella.
Morì la nonna, e noi siam fatti grandi:
la cappa del camino nera nera
ferma al suo posto ancor par che domandi
le liete novellucce della sera:
il foco manda ancor qualche favilla,
ma il lumicino a mano più non brilla.
Non brilla più la piccola fiammella,
che a me nel buio mi parea una stella.
Ed or la nonna è morta da tant'anni,
dorme con tanti morti al cimitero,
che sol tra i morti non si trova inganni.
Ah, buona nonna! Ancora nel pensiero
conservo le novelle tue d'un giorno,
che presto volò via senza ritorno!
E ancor vorrei tornar piccol bambino
presso le tue gonnelle e il tuo lumino.
L'ULTIMO CANTO DEL GALLO
Canta gallo, canto a festa
che sarà l'ultimo canto:
domattina la tua cresta
nel tegame bollirà.
Nel pollaio sarà il pianto
tra le tenere galline
nel saper la brutta fine
che il suo gallo subirà.
Canta, gallo mattiniero
che ci svegli ogni mattina,
a cui limpido il pensiero
corre, al canto tuo gentil!
Ma vederti domattina
con la testa penzoloni,
senza penne e senza sproni,
è una cosa troppo vil.
Quante volte, al fido canto,
sono sceso giù dal letto
e, indossato il vecchio manto,
son venuto giù da te!
Ti trovavo ritto in petto
tra le fide tue galline,
tutte vispe a te vicine
che sembravi proprio un re.
Mangerò senza rimorso
le tue cosce saporite,
dove dietro berrò un sorso
del buon frutto della vite.
Ma nel gàrrulo pollaio
sarà morta l'allegria,
del tuo canto arzillo e gaio
sentirò la nostalgia.
Giuseppe Geri davanti alla sua casa, a Gavinana
LA MIA CASA
E' una stamberga stonacata e nera,
dal tetto rosso e piccole finestre,
dove fiorisce intorno le ginestre
sembrandoci un'eterna primavera.
Sorride lieta la gàrrula cicala,
sopra il cipresso canta l'usignolo,
batte l'accetta e canta il boscaiolo
e s'arrampica ognor sopra la scala.
Dove la sera trovo la diletta
madre, al focolare, mesta, assisa,
che sonnecchia, che pensa e che m'aspetta
la poca cena misera e divisa.
Ma quanti affetti alla stamberga nera,
alla casetta vecchia e stonacata
che mi ricorda dell'età passata,
il primo sogno e l'ultima preghiera.
Che mi ricorda quando ancor fanciullo
sul focolar, seduto dopo cena,
mi tingevo le mani alla catena
e questo era per me quasi un trastullo.
Dove studiavo, nelle lunghe sere,
la noiosa dottrina del piovano:
oh, quante volte avrò pregato invano!
Dove saranno queste mie preghiere?
Allor sentivo raccontar novelle
di streghe e maghi, di regine e fate,
restavo con le braccia spalancate,
prestavo fede a stupide storielle.
Che ingenuo fui! Poco più d'ora,
che streghe e maghi allor tutto credei,
le cose che ora vedo agli occhi miei
sono abisso infernal che mi divora.
Ah! Bei giorni davver lieti e giocondi
che ancor conserva la casetta nera,
e ancor ti vedo maestosa e altera
e ancora più di prima mi confondi.
NATALE
Raccontava una nonna ai nipotini
mentre faceva a lor la ninna nanna:
oggi nacque Gesù nella capanna,
oggi è Natale, festa dei bambini.
Oh, non sentite voi quel dolce suono
che al cuore porta la felicità?
Oggi è Natale, quel Natale buono
che il piccolo Gesù benedirà.
Così gli raccontava la vecchietta
ai bimbi che teneva sui ginocchi,
e li baciava in una forte stretta,
quando una lacrima cadde dai suoi occhi.
Quella lacrima sua, cosa voleva
dire ai suoi nipotini, non lo so.
Forse pensava, forse in cuor tesseva
tutti gli anni migliori che passò?
Forse pensava a quest'altro Natale
che essendo vecchia, non ci sarà più:
posò la mano scarna sul grembiale
e ripeteva ancor: nato è Gesù...
LA CACCIA AL RAGNO
Madonna benedetta del Castagno,
quanto lavoro e quanta confusione
per dar la caccia a un disgraziato ragno!
C'era, niente di meno, sei persone.
Chi con le molle, e chi con la paletta,
chi col martello e l'altro la granata,
armati tutti peggio d'una armata,
ci mancava fucile e baionetta.
Esce dal buco, busse forte dài,
scappa di sotto, vai di là, sfrucòna!
E tutti intorno al fuoco, a far corona
con l'armi alzate: dove sarà mai?
E il ragno, impaurito, su pel muro
tra un colpo e l'altro si salvò in soffitta:
e tutta quella gente restò ritta
con un tanto di naso, e a muso duro.
UN TEMPORALE
Scroscia sui vetri con rombo sonoro
la grandine e il vento sconquassa le gronde
dei tetti, nei campi confonde
il grano tra l'erba, e gàrrulo un coro
di uccelli di sente, nascosti sul tetto
tra un tegolo e l'altro vicini al camino:
di sotto la chioccia si affaccia un pulcino
e il trillo si sente di qualche galletto.
Il tempo minaccia più forte e fatale,
e l'aria più nera, più turbina il vento:
tra tuoni e tra lampi che fanno spavento
sembra che sia il diluvio universale.
E l'acqua dei campi si allarga alle strade,
più torbida scende con cupo rumore.
La pioggia rallenta, rallenta il terrore:
le nuvole tornan più chiare, più rade.
Cessata è la pioggia; un vecchio per mano
tenendo un fanciullo che appena cammina,
nel fango melmoso ne vanno pian piano
mirando nel cielo una striscia turchina.
ILLUSIONI
Quando siam giovani
quante illusioni
di questa vita
che ci si fa!
Poi non ci restano
che delusioni,
quando con gli anni
più si va in là.
Io che sognavo nella mia mente
tutta una vita color di rosa,
or di quel sogno non resta niente
neppur la minima, piccola cosa.
E' sempre il cielo bello e sereno,
come a quei tempi, senza cambiar:
ma c'è del fango sopra il terreno,
ma c'è del fango da calpestar.
LA FONTANA DELL'AMORE
La bella fontanina dell'amore
che butta l'acqua tutto il giorno, fresca,
la gente che ci va, vattelo a pesca,
ci va con tutti a rinfrescare il cuore.
Le belle coppiettine innamorate
vanno alla fontanina nell'estate
e con la scusa, poi, della fontana
giù sopra l'erba, nella tramontana.
Se quella fontanina poi parlasse
quante cose avrebbe da narrare:
direbbe cose grandi come il mare
e ne direbbe tante molto grasse.
Ma la fontana, anche se trabocca,
guarda, sorride e tiene l'acqua in bocca.
UN FATTO COMICO
Mentre un signore stava lì seduto
a prendere il caffè dall'Aladino,
un cane, poverino,
viene di fuori e subito dà il fiuto.
Forse sognando qualche cagna bella
alza la cianca e fa una pisciatella.
E gliela fece sopra i pantaloni,
sopra le scarpe, sopra anche l'ombrello,
e un altro cane, subito anche quello,
era già pronto a far le sue funzioni:
ma non fa in tempo a fare la pisciata
che subito gli arriva un'ombrellata.
E' stato un fatto comico un po' strano
proprio degno di fare una risata,
poiché nel dare al cane l'ombrellata,
l'ombrello rotto gli rimane in mano
e quel signore si trovò ridotto
coi piedi molli e con l'ombrello rotto.
COME PASSO LA VITA
Tutte le sere all'otto vado a letto,
ma con questo non sono un dormiglione:
passo nottate sveglio sul saccone
che a volte perdo il ben dell'intelletto.
E fo castelli più di un architetto
ma tutti in aria, senza conclusione;
a volte, sogno d'essere un riccone...
ma mi risveglio sempre poveretto.
Mi par mill'anni di arrivare al giorno
perché finisca quella tiritera
e allora m'alzo, e via, si fa ritorno.
Si spera sempre: chi non muore, spera.
Ma i muriccioli che sono qui intorno,
li frusto tutti, da mattina a sera.
COMPLEANNO
Il primo di novembre sono nato
dell'anno mille e ottocento ottantanove:
quanto di sotto i ponti è già passato
e quante cose vecchie e quante nuove!
Quante illusioni morte nei tramonti
come l'acqua che passa sotto i ponti,
come fosse qualcosa di giocondo
e avessi chiesto di venire al mondo.
Ma quando uno c'è, bisogna che ci stia:
e faccia la sua parte e tiri via.
Poi se dovessi far tutta la storia
dei miei volati compleanni
mi ci vorrebbe buona la memoria
ora che sono un mezzo barbagianni.
Anche se qualche volta mi ci impegno,
sembro lo smemorato di Collegno.
Quando si marcia verso l'ottantina
ogni giorno che va si ruba a Cristo
e sempre quando m'alzo la mattina
dico: "Anche per oggi mi son visto".
Ma un qualche giorno non mi vedo più,
poi, dove vado, lo saprà Gesù.
NECROLOGIO
Vidi un giorno sul giornale
che tra i morti un certo tale
non soltanto aveva il nome
ma lo stesso mio cognome,
proprio uguale come il mio:
ma però non ero io!
Nel veder Giuseppe Geri
in caratteri ben neri
c'è mancato poco o niente
mi prendesse un accidente.
Si capisce, lì per lì:
poi la cosa si chiarì.
Vidi subito che un altro,
fosse più o meno scaltro,
fatto più o meno tondo,
era andato all'altro mondo.
Quel che penso è che di là
se non guardano l'età,
faran certo confusione
nel registro di ammissione.
Tante volte non vorrei,
ripensando ai fatti miei,
di trovar, quando chiamato,
il mio posto già occupato!
UN BUON CONSIGLIO
Diceva un vecchio prete a un contadino:
"Perché tanti figlioli hai messo al mondo?
Il primo, dopo subito il secondo,
il terzo, il quarto, che ti par pochino?
Il quinto e il sesto... fai come il molino:
piano, figliolo mio, gira un po' al tondo!
Io ci scommetto quando sarai in fondo
non avrai posto intorno al tavolino.
"Mi compatisca, sa, signor Priore,
lo vede, vengan giù fatti col pennello:
la volontà di Dio non è un errore!"
"Lo so" rispose il prete, "in quanto a quello
anche l'acqua la manda giù il Signore
ma la gente però porta l'ombrello!"
TESTAMENTO
Lascio per mio ricordo a chi li vuole
il mare, i monti, il canto degli uccelli.
Vi lascio un pizzicotto di capelli,
insieme a quelli che non batte il sole.
Vi lascio, se volete, anche il diritto
di tutte le fregnacce che io ho scritto.
Non vi credete di trovar quattrini,
son pensionato della previdenza:
abituato come sono a fare senza
si fischia sempre come i cardellini.
Quei pochi che mi danno li consumo
a mangiare un boccone, e un po' di fumo.
Lascio di cuore tutti i miei bagagli,
scatole tutte rotte, libreria,
casse, cassetti pieni di ritagli,
fogli strappati da buttarsi via.
Qualche vestito pieno di tignole
e scarpe vecchie fin che se ne vuole.
Poi lascerò al becchino le mie ossa
e lui potrà far quello che gli pare;
così se torna a spalancar la fossa
perché ci ha qualcuno ancor da accomodare,
dopo dieci anni prenderà il bastone:
"Vai fuori che non paghi la pigione!"
DISTRAZIONI
D’ora in poi rovini il mondo
io non me la prendo più:
resterò sempre giocondo
quanto è ver che c'è Gesù.
Che m'importa a me se Tizio
l'han portato all'ospedale,
e se Caio per indizio
l'hanno messo in tribunale?
Se quell'altro è già in prigione
qualche volta sortirà:
per un povero minchione
non si muove la pietà.
Tanto vedo che la gente
non si scrolla mai per me:
se mi prende un accidente
me ne mandano anche tre.
D’ ora in poi rovini il mondo
io non me la prendo più:
quando trovo un sasso tondo
mi ci fermo a seder su,
o mi appoggio al campanile
senza rischio di cascar,
quando in corpo ho della bile
voglio ridere e cantar.
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