mercoledì 29 luglio 2015

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA



QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA
di Carlo Emilio Gadda
prefazione di Piero Citati, postfazione di Giorgio Pinotti
Garzanti
2013, 280 pagine, 12 euro

 "I capolavori sanno aspettare", mi ha scritto un amico dopo aver saputo che mi sono accinto alla lettura solo dopo quaranta anni dall'essere diventato un lettore consapevole. In effetti, affrontare il "Pasticciaccio" è indubbiamente una delle esperienze da fare nella vita. Bellissimo e complesso e appunto per questo non del tutto decifrabile né raccontabile (impossibile, credo, render conto fino in fondo della bellezza della complessità), il capolavoro lascia dentro la sensazione che la scrittura di tutto il resto sia misera cosa rispetto al caleidoscopio della sua lingua. Secondo Calvino, Gadda "cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento". 

La trama è sostenuta da un plot giallo che intriga di per sé: in un palazzo della Roma bene, durante i primi anni del Fascismo (nel 1927), si susseguono a breve di distanza di tempo due fatti criminosi: il primo, meno grave, la rapina di una anziana signora derubata, a mano armata, dei suoi ori; il secondo, l'efferato delitto di una donna, Liliana Balducci, sposata ma senza figli, trovata sgozzata dopo essere stata aggredita mentre era sola in casa. Le indagini sono affidate al commissario di polizia don Ciccio Ingravallo, molisano trapiantato nella Capitale, e i suoi interrogatori portano il racconto a investigare sia negli ambienti benestanti che in quelli più popolari della città e delle campagne circostanti. La descrizione della varia umanità che affolla e colora gli uni e gli altri è di una efficacia stupefacente, così come della realtà quotidiana della vita di quegli anni. 

Carlo Emilio Gadda
Per raccontare il suo caravanserraglio, nella versione definitiva del 1957, Gadda utilizza un linguaggio strepitoso, intrecciando il più sofisticato e barocco italiano (modellato comunque a modo suo) con termini e costruzioni sintattiche prese in prestito dai dialetti più disparati, per cui ogni personaggio viene descritto con le sfumature della sua parlata. Interi dialoghi sono in stretto romanesco, studiato e ristudiato attraverso varie rielaborazioni (Gadda era milanese e giunse nella Capitale, per lavorare in RAI, solo in età matura), ma si intrecciano parlate venete, napoletane, molisane, umbre, laziali lato. L'autore designa ogni oggetto, ogni moto dell'animo, ogni azione, con la parola, il verbo, l'espressione più consona e puntuale, andando a scovare o inventando onomatopee bellissime e termini desueti, scolpendo e modellando il testo come un artista rococò. Quando, a lettura terminata, si torna a leggere autori che si esprimono con il più basic dell'italiano, il confronto è spiazzante. Il giallo alla fine trova una parziale soluzione: sappiamo che Ingravallo sa, ma non ci viene detto esattamente com'è andata. Tuttavia, gli indizi sono sufficienti per trarre la somma da soli. Per Gadda la realtà è troppo complessa per poter giungere a venir semplificata nel nome di un assassino. O un'assassina.

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