Luciano Secchi
RITRATTO DI BUONA FAMIGLIA
Editoriale Corno
Prima edizione 1977
cartonato - 208 pagine
lire 4000
Luciano Secchi è lo pseudonimo di Max Bunker. In realtà dovrebbe essere il contrario, ma è con questo secondo nome che l’autore è universalmente conosciuto, quello con cui tutti gli si rivolgono. Però, nella sua veste di scrittore, sembra che Secchi tenda a non voler mescolare i campi d’azione. Anche nella scheda biografica pubblicata sui risvolti di copertina non si fa cenno a Kriminal, Satanik e Alan Ford. Si parla solo di Eureka. Il romanzo, il cui titolo non azzeccatissimo suggerisce toni e personaggi del tutto diversi, è stato pubblicato nel 1977 e, per certi versi, anticipa i tempi. Lo fa per l’uso della narrazione in prima persona e al presente, per esempio: oggi questo è di moda, allora si trattava senza dubbio di una soluzione assai meno diffusa. Lo fa per la crudeltà e la facilità nell’uso delle armi da parte del protagonista, che fa venire alla mente le uccisioni a bruciapelo di “Pulp fiction”, che però sarebbe giunto vent’anni dopo. Tuttavia è anche un romanzo ben calato nella realtà sociale e politica di quel tempo: si vedono i cortei con le bandiere rosse, gli estremisti di sinistra con gli eskimo e i capelli incolti, gli slogan contro i borghesi e il ceto medio. E proprio alla borghesia appartiene l’anonimo protagonista, di cui poco o nulla si sa, proprio a cominciare dal nome: ciò per una precisa scelta, poiché “più che un singolo è il simbolo di quello che già siamo o di quello che potremo diventare”, come si dice in quarta di sovraccoperta. L’io narrante è un giovane ricco annoiato, che vive di rendita o sulle spalle della madre (il padre non si vede mai), in un appartamento da single. Frequenta un ambiente “bene” fatto di feste e di ritrovi fra gente del suo stesso ceto, che però riesce solo a riempirlo di sbadigli. In lui, oltre alla noia, cova la rivalsa verso il lassismo delle autorità nei confronti della malavita e dell’estremismo rosso, che sente nemici giurati del proprio status. Da qui, la sua pronta accettazione della proposta fattagli da un amico, Daniele, esperto tiratore in un poligono privato, che ha un aggancio in Questura pronto a fornirgli dei bersagli umani: quelli di spacciatori di droga, pedofili, extraparlamentari di sinistra, politici corrotti, tutti però impuniti. Così, il protagonista e Daniele si trasformano in “giustizieri della notte”, animati non da un vero e proprio senso di giustizia, anche se personale, come nei film con Charles Bronson, ma da una volontà di rivalsa, da una affermazione di potenza. Però Daniele si rivela più debole dell’io narrante, che prova gusto nel sopprimere i “diversi da lui” per poi rifugiarsi nel branco svampito e nauseante degli amici borghesucci. Così, il protagonista si ritrova prima ad agire da solo, e poi a sopprimere il suo stesso complice, deciso a consegnarsi alla polizia. Tutto ciò si intreccia con una love-story fra l’io narrante e una certa Gilda, ragazza brutta ma che lui desidera contro ogni logica anche dopo essere stato rifiutato, quasi per una nuova sfida contro sé stesso; e con quella delle foto che ritraggono i suoi omicidi, recapitatigli misteriosamente dopo ogni uccisione. Alla fine, si capisce che si tratta di accadimenti paranormali, visioni scatenate dalla follia in cui va a precipitare sempre più il protagonista, forse la voce stessa della sua coscienza vigile, il super-io freudiano, che come gli invia sogni angoscianti, così lo mette di fronte alle sue responsabilità quasi a volergli dire che, comunque, c’è qualcuno che lo vede: sé stesso. Il finale è aperto (segue spoiler): scoperto dagli inquirenti dopo aver ucciso sia Daniele che l’amico in questura (il quale lo ha sfruttato per eliminare la moglie, dunque cedendo egli stesso alla corruzione morale che sembrava voler combattere), il killer con il silenziatore (così viene definito dai giornali) va a casa di Gilda e non si sa se per uccidere anche lei, o per portarla con sé in una ultima fuga disperata verso la Svizzera. Colpiscono nel segno le descrizioni dell’annoiante gruppo di amici “di buona famiglia”, le frecciate contro il giornalismo in eskimo, le stesse descrizioni dei cortei di “bolscevichi”, con cui l’autore non è tenero almeno quanto non lo è con il suo eroe negativo. Il romanzo si legge tutto d’un fiato, il ritmo è serrato, lo straniamento in cui cade l’io narrante è ben descritto. Si può notare solo che l’indeterminatezza del protagonista (senza nome, senza retroterra, senza volto, senza mestiere) rende le vicende sospese come in un incubo, come fossero fuori della realtà, come se accadessero in una visione. C'è talvolta un uso non ortodosso della punteggiatura (come nel caso di un “eh; eh; eh;” anziché del corretto “Eh!Eh!Eh!”) ma si tratta di peli nell’uovo: il romanzo è senza dubbio notevole.
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