giovedì 9 giugno 2016

RUGHE DA SALITA





RUGHE DA SALITA
di Federico Pagliai
Biblioteca dell'Immagine
2011, brossoura
200 pagine, 14 euro

Si tratta del secondo libro di Pagliai, classe 1966 e stesso mio comune di nascita, dopo la raccolta di racconti "I miei crinali - Sedici colpi di pennato" (2008), che mi ha folgorato fin dal titolo. Il "pennato" io so benissimo cos'è, perché mio nonno, che andava per i boschi a far legna, lo portava sempre in vita appeso a un gancio che, ai miei occhi di bambino, doveva essere assai simile a quello a cui anche Zagor attaccava la sua scure. Fuori dalla montagna pistoiese, credo che si chiami roncola, ma non sono sicuro che questo secondo termine identifichi esattamente l'accetta arcuata, e dalle dimensioni di un machete, che conosco io. Fatto sta che i "sedici colpi di pennato" erano sedici testi scritti come se fossero stati incisi nella corteccia di un albero: testi scritti, dico, perché non sarebbe corretto neppure chiamarli racconti, dato che di inventato non c'era nulla e il talento dell'autore come affabulatore si manifestava non con l'invenzione ma con la narrazione. Pagliai raccontava cose che aveva visto, che sapeva, o di cui a sua volta aveva sentito raccontare, dando testimonianza di fatti, rappresentando persone, manifestando stati d'animo ed emozioni. Attraverso il suo personale punto di vista di uomo di montagna, abituato ad andare per crinali, a vivere in simbiosi con le rupi e il sottobosco, raccontava un mondo che piano piano va scomparendo. Con "Rughe da salita", l'impresa si ripete. Di nuovo, un titolo bellissimo, Accompagnato da una bellissima foto in copertina. Anche questa volta si tratta di una antologia (nove i titoli), e di nuovo si raccontano storie di montagna, di Appennino pistoiese. Rispetto alla prima prova, Pagliai si è fatto più maturo, anche se servirebbe qualche colpo di pialla o di sgorbia per eliminare le asperità dei colpi di pennato. Tuttavia, che sappia raccontare è innegabile. Si sta ad ascoltarlo a bocca aperta anche quando scrive "empire" per "riempire" o "piuri" per "mirtilli", scrive i mesi con la maiuscola ed esagera in puntini di sospensione e virgolette. Come se parlasse, appunto, e volesse mettere enfasi nel suo discorso. Se nei primi racconti l'esperienza raccontata era più personale, qui si parla di fatti d'altri e di personaggi incredibili, che quasi si fatica a credere che possano essere esistiti davvero. Ma i riferimenti sono precisi, l'autore è attendibile, e la gente di montagna è sempre un po' sopra le righe o un po' sotto. Taciturni e camminatori, con il fiuto per i funghi, l'istinto della caccia, la propensione verso il vino e le mangiate in compagnia (stomaci di ferro, quelli della gente di appennino), si tratta comunque di una razza in via di estinzione, perché sui crinali ci salgono sempre in meno, e lo spirito montanino non sembra essere stato ereditato dalle nuove generazioni. Ma, come scrive Mauro Corona nella sua prefazione, "vi sono molti modi per salvare il passato, vari modi per consegnare ai posteri un po' di memoria". E uno è raccontare ciò che si è visto, ciò che si sa. Talvolta facendo ridere, talvolta commuovendo. In questo modo, anche Celentano, l'uomo in grado di provocare un terremoto artificiale pur di vincere una scommessa, o la banda del Lago Santo, pronta a friggere i funghi con l'olio di una automobile pur di mangiarli, vivranno e rivivranno insieme al loro mondo trasferito su carta in attesa che altre leggende e altri mondi, sostituiti dai successivi, vengano a far loro compagnia.

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