Alessio Ricci
LATINISMI
Corriere della Sera
brossura, 2020
140 pagine, 7.90 euro
Ricordo che quando, studente universitario, dovetti affrontare l’esame di Storia della Lingua (uno dei più difficili, penso, del corso di Laurea in Lettere), rimasi stupito e affascinato dalla complessità della materia. Non che credessi una lingua come qualcosa di acquisito, stabilito una volta per sempre: basta leggere un romanzo ottocentesco per capire che a cento o duecento anni di distanza noi parliamo e scriviamo in modo diverso, e differentemente da noi parleranno e scriveranno i nostri discendenti. Vale anche per il latino: c’è un latino arcaico, ce n’è uno tardo. Tuttavia soltanto approfondendo la questione si scopre come sia stata avventurosa e rocambolesca la nascita dell’italiano nel corso dei secoli, quante parole abbiamo importato da lingue di tutto il mondo, direttamente o seguendo l’influenza di altre culture (per esempio, dall’indiano è entrata nel nostro dizionario la parola “giungla”, ma passando attraverso l’inglese “jungle”). Ogni secolo ha introdotto parole, stabilito nuove regole, perfezionato e unificato le grafie, cambiato il significato di certi termini, dimenticato e abbandonato vecchi vocaboli. Ogni campo del sapere, poi, ha coniato tecnicismi, alcuni rimasti nel ristretto ambito degli esperti, altri entrati nel linguaggio comune. Si calcola che siano 250.000 i lemmi dell’italiano: tanti ne registra il Gradit, il dizionario più completo dovuto all’opera di Tullio De Mauro. Soltanto 7000, però, costituiscono il lessico di base comunemente usato. Di esse, il 52% deriva dal latino. Riesce a spiegare molto bene tutto ciò Alessio Ricci, nell’agile saggio “Latinismi” distribuito all’inizio del 2020 come collaterale del “Corriere della Sera, assolutamente comprensibile anche dai profani e perciò raccomandabile. La prima cosa da spiegare, tuttavia, è appunto che cosa sono i “latinismi”: diversamente da ciò che si può credere, non si tratta di parole entrate nel nostro vocabolario per diretta discendenza dal latino (con l’inevitabile corruzione dovuta all’uso, come “nivem” diventa “neve”, attraverso fenomeni lessicali su cui sarebbe interessante soffermarci) ma parole create a tavolino e cominciate a usare in tempi moderni. Per esempio, la parola “sodalizio” è stata usata per la prima volta da Dante Alighieri in un canto del Paradiso. Prima, non esisteva. Dante la crea attingendo dal latino “sodalicium”. Galileo, molti anni dopo, dovendo dare un nome alle lune di Giove, introduce in italiano il vocabolo “satellite”, prendendo esempio da “satelles” che, ai tempi dei romani, voleva dire “guardia del corpo”. “Importante” compare nel Quattrocento e lo usa Lorenzo il Magnifico, “incombere” lo si deve al Leopardi, “velivolo” al D’Annunzio. Insomma, mentre “cattivo” deriva direttamente da “captivus” (prigionieri), e dunque si tratta di una parola ereditata direttamente, il latinismo “alluce” è addirittura novecentesco (prima attestazione: 1892). Prima si diceva “dito grosso” (così, per esempio, in una novella del Boccaccio). Ci sono persino i latinismi creati ad arte partendo da locuzioni non esistenti in latino, come “qui pro quo” e “una tantum”. Insomma, non bastandoci le parole ereditarie derivanti direttamente dal latino (per uso ininterrotto), ogni secolo (da quando esiste la letteratura in volgare, cioè in italiano) ne ha create e introdotte altre coniate sul modello della lingua di Cicerone. Dei 250.000 lemmi del Gradit, 30.000 sono latinismi. Leggendo il saggio di Alessio Ricci ci si stupisce di quanti se ne scoprono di insospettabili.
LATINISMI
Corriere della Sera
brossura, 2020
140 pagine, 7.90 euro
Ricordo che quando, studente universitario, dovetti affrontare l’esame di Storia della Lingua (uno dei più difficili, penso, del corso di Laurea in Lettere), rimasi stupito e affascinato dalla complessità della materia. Non che credessi una lingua come qualcosa di acquisito, stabilito una volta per sempre: basta leggere un romanzo ottocentesco per capire che a cento o duecento anni di distanza noi parliamo e scriviamo in modo diverso, e differentemente da noi parleranno e scriveranno i nostri discendenti. Vale anche per il latino: c’è un latino arcaico, ce n’è uno tardo. Tuttavia soltanto approfondendo la questione si scopre come sia stata avventurosa e rocambolesca la nascita dell’italiano nel corso dei secoli, quante parole abbiamo importato da lingue di tutto il mondo, direttamente o seguendo l’influenza di altre culture (per esempio, dall’indiano è entrata nel nostro dizionario la parola “giungla”, ma passando attraverso l’inglese “jungle”). Ogni secolo ha introdotto parole, stabilito nuove regole, perfezionato e unificato le grafie, cambiato il significato di certi termini, dimenticato e abbandonato vecchi vocaboli. Ogni campo del sapere, poi, ha coniato tecnicismi, alcuni rimasti nel ristretto ambito degli esperti, altri entrati nel linguaggio comune. Si calcola che siano 250.000 i lemmi dell’italiano: tanti ne registra il Gradit, il dizionario più completo dovuto all’opera di Tullio De Mauro. Soltanto 7000, però, costituiscono il lessico di base comunemente usato. Di esse, il 52% deriva dal latino. Riesce a spiegare molto bene tutto ciò Alessio Ricci, nell’agile saggio “Latinismi” distribuito all’inizio del 2020 come collaterale del “Corriere della Sera, assolutamente comprensibile anche dai profani e perciò raccomandabile. La prima cosa da spiegare, tuttavia, è appunto che cosa sono i “latinismi”: diversamente da ciò che si può credere, non si tratta di parole entrate nel nostro vocabolario per diretta discendenza dal latino (con l’inevitabile corruzione dovuta all’uso, come “nivem” diventa “neve”, attraverso fenomeni lessicali su cui sarebbe interessante soffermarci) ma parole create a tavolino e cominciate a usare in tempi moderni. Per esempio, la parola “sodalizio” è stata usata per la prima volta da Dante Alighieri in un canto del Paradiso. Prima, non esisteva. Dante la crea attingendo dal latino “sodalicium”. Galileo, molti anni dopo, dovendo dare un nome alle lune di Giove, introduce in italiano il vocabolo “satellite”, prendendo esempio da “satelles” che, ai tempi dei romani, voleva dire “guardia del corpo”. “Importante” compare nel Quattrocento e lo usa Lorenzo il Magnifico, “incombere” lo si deve al Leopardi, “velivolo” al D’Annunzio. Insomma, mentre “cattivo” deriva direttamente da “captivus” (prigionieri), e dunque si tratta di una parola ereditata direttamente, il latinismo “alluce” è addirittura novecentesco (prima attestazione: 1892). Prima si diceva “dito grosso” (così, per esempio, in una novella del Boccaccio). Ci sono persino i latinismi creati ad arte partendo da locuzioni non esistenti in latino, come “qui pro quo” e “una tantum”. Insomma, non bastandoci le parole ereditarie derivanti direttamente dal latino (per uso ininterrotto), ogni secolo (da quando esiste la letteratura in volgare, cioè in italiano) ne ha create e introdotte altre coniate sul modello della lingua di Cicerone. Dei 250.000 lemmi del Gradit, 30.000 sono latinismi. Leggendo il saggio di Alessio Ricci ci si stupisce di quanti se ne scoprono di insospettabili.
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