Leonardo Sciascia
IL CONSIGLIO D’EGITTO
Adelphi
Brossurato, 1989
176 pagine, 11 euro
Scrive Leonardo Sciascia: “Volevo fare la cronaca del massacro dei presunti giacobini, avvenuto a Caltagirone alla fine del XVIII secolo, e avevo cominciato a documentarmi sull’argomento. Scorrendo la ‘Storia letteraria della Sicilia’ di Domenico Scinà, raccogliendo il materiale rimasto negli archivi, e poi leggendo le cronache del marchese di Villabianca, mi si è imposta la figura dell’abate Vella”. Il frate benedettino Giuseppe Vella (1749-1814), nato a Malta (dove aveva appreso i rudimenti dell’arabo) e poi trasferitosi a Palermo, è appunto il principale protagonista de “Il consiglio d’Egitto”, romanzo pubblicato da Sciascia nel 1963. Si tratta dunque di una figura storica, protagonista di una quasi incredibile vicenda ricordata come l’ “arabica impostura”, sostanzialmente la creazione di un falso, destinato però a destare grande clamore e finanche una certa influenza nel pensiero e nella politica non soltanto in ambito siciliano. Tutto nasce allorché fra’ Vella, destinato poi a venire chiamato “abate” per la fama acquisita, senza esserlo, viene convocato, in quanto in grado di parlare qualche parola di arabo, a fare da interprete tra le autorità palermitane e un ambasciatore del Marocco la cui nave era stata sospinta da una tempesta sulle coste siciliane. All’ambasciatore, nel corso del suo forzato soggiorno, viene mostrato un antico codice islamico risalente al periodo della dominazione araba in Sicilia, custodito nel monastero di San Martino. Il marocchino lo esamina e dichiara trattarsi di una copia di una delle tante biografie di Maometto in circolazione. Al che il Vella capisce di poter trarsi dalla sua condizione di povero frate questuante, e traducendo a beneficio di Monsignor Airoldi dichiara che l’ambasciatore ha riconosciuto nel manoscritto un testo che narra della conquista saracena della Sicilia e dei fatti della dominazione musulmana. Un documento, dunque, in grado di ricostruire vicende, perlopiù sconosciute o soltanto leggendarie, di mezzo millennio prima, anni da cui trassero fondamento le baronie e i feudi siciliani. Ripartito l’ambasciatore, Giuseppe Vella viene dunque incaricato di tradurre in italiano il preziosissimo codice, intitolato “Il consiglio d’Egitto”: per farlo, naturalmente, gli vengono riconosciuti emolumenti, un dignitoso alloggio, tutto il tempo necessario, il diritto di accesso nei salotti buoni, inviti nell’alta società nobiliare. Anzi, gli stessi nobili cominciano a foraggiare il Vella perché nella sua traduzione, di cui vengono abilmente fatti trapelare frammenti a spizzichi e bocconi, del tutto inventati, vengano citati i propri avi e confermati i diritti sulle terre possedute. Essendo ambientato tra il 1782 e i 1795, Sciascia riesce, riportando le conversazioni tra i baroni e gli ecclesiastici a cui l’abate assiste, e a cui partecipa in modo defilato, a ricostruire le vicende politiche e sociali di un’epoca che sta per tramontare, con la rivoluzione francese che sembra stare per tracimare anche in Sicilia, con le trame del Re, tramite il suo vice Caracciolo, tese ad avocare alla corona i privilegi delle baronie. Risulta chiaro che la vera “impostura” non è il falso dell’abate, peraltro di squisita fattura, ma quella dei fondamenti giudici del potere nobiliare di origine feudale. Le vicende di Giuseppe Vella si intrecciano con la vita di altre figure storiche, come quella Francesco Paolo Di Blasi, giurista e patriota, ghigliottinato nel 1795 per la tentata organizzazione di una rivolta tesa a creare, sul modello giacobino, una Repubblica siciliana. Il romanzo si chiude proprio con la lama che cade sul suo collo, e le pagine che raccontano le torture subite perché il Di Blasi facesse i nomi dei suoi complici (non li fece) sono sconvolgenti tanto quanto sono divertenti quelle dedicate alle prime mosse dell’ “impostura” dell’abate: è come se ne il libro di Sciascia ne racchiudesse due, e infatti ci sono due parti per distinte, una iniziale più faceta, una finale molto drammatica. Non si può fare a meno di ammirare l’eleganza della prosa sciasciana, precisa nella scelta dei termini, felice nell’ironia e tagliente nel cambio di registro, dotta nella ricostruzione di conversazioni fra poeti e letterati, avvocati e monsignori, maliziosa quando serve, impeccabile nella ricostruzione di ambienti e personaggi storici.
IL CONSIGLIO D’EGITTO
Adelphi
Brossurato, 1989
176 pagine, 11 euro
Scrive Leonardo Sciascia: “Volevo fare la cronaca del massacro dei presunti giacobini, avvenuto a Caltagirone alla fine del XVIII secolo, e avevo cominciato a documentarmi sull’argomento. Scorrendo la ‘Storia letteraria della Sicilia’ di Domenico Scinà, raccogliendo il materiale rimasto negli archivi, e poi leggendo le cronache del marchese di Villabianca, mi si è imposta la figura dell’abate Vella”. Il frate benedettino Giuseppe Vella (1749-1814), nato a Malta (dove aveva appreso i rudimenti dell’arabo) e poi trasferitosi a Palermo, è appunto il principale protagonista de “Il consiglio d’Egitto”, romanzo pubblicato da Sciascia nel 1963. Si tratta dunque di una figura storica, protagonista di una quasi incredibile vicenda ricordata come l’ “arabica impostura”, sostanzialmente la creazione di un falso, destinato però a destare grande clamore e finanche una certa influenza nel pensiero e nella politica non soltanto in ambito siciliano. Tutto nasce allorché fra’ Vella, destinato poi a venire chiamato “abate” per la fama acquisita, senza esserlo, viene convocato, in quanto in grado di parlare qualche parola di arabo, a fare da interprete tra le autorità palermitane e un ambasciatore del Marocco la cui nave era stata sospinta da una tempesta sulle coste siciliane. All’ambasciatore, nel corso del suo forzato soggiorno, viene mostrato un antico codice islamico risalente al periodo della dominazione araba in Sicilia, custodito nel monastero di San Martino. Il marocchino lo esamina e dichiara trattarsi di una copia di una delle tante biografie di Maometto in circolazione. Al che il Vella capisce di poter trarsi dalla sua condizione di povero frate questuante, e traducendo a beneficio di Monsignor Airoldi dichiara che l’ambasciatore ha riconosciuto nel manoscritto un testo che narra della conquista saracena della Sicilia e dei fatti della dominazione musulmana. Un documento, dunque, in grado di ricostruire vicende, perlopiù sconosciute o soltanto leggendarie, di mezzo millennio prima, anni da cui trassero fondamento le baronie e i feudi siciliani. Ripartito l’ambasciatore, Giuseppe Vella viene dunque incaricato di tradurre in italiano il preziosissimo codice, intitolato “Il consiglio d’Egitto”: per farlo, naturalmente, gli vengono riconosciuti emolumenti, un dignitoso alloggio, tutto il tempo necessario, il diritto di accesso nei salotti buoni, inviti nell’alta società nobiliare. Anzi, gli stessi nobili cominciano a foraggiare il Vella perché nella sua traduzione, di cui vengono abilmente fatti trapelare frammenti a spizzichi e bocconi, del tutto inventati, vengano citati i propri avi e confermati i diritti sulle terre possedute. Essendo ambientato tra il 1782 e i 1795, Sciascia riesce, riportando le conversazioni tra i baroni e gli ecclesiastici a cui l’abate assiste, e a cui partecipa in modo defilato, a ricostruire le vicende politiche e sociali di un’epoca che sta per tramontare, con la rivoluzione francese che sembra stare per tracimare anche in Sicilia, con le trame del Re, tramite il suo vice Caracciolo, tese ad avocare alla corona i privilegi delle baronie. Risulta chiaro che la vera “impostura” non è il falso dell’abate, peraltro di squisita fattura, ma quella dei fondamenti giudici del potere nobiliare di origine feudale. Le vicende di Giuseppe Vella si intrecciano con la vita di altre figure storiche, come quella Francesco Paolo Di Blasi, giurista e patriota, ghigliottinato nel 1795 per la tentata organizzazione di una rivolta tesa a creare, sul modello giacobino, una Repubblica siciliana. Il romanzo si chiude proprio con la lama che cade sul suo collo, e le pagine che raccontano le torture subite perché il Di Blasi facesse i nomi dei suoi complici (non li fece) sono sconvolgenti tanto quanto sono divertenti quelle dedicate alle prime mosse dell’ “impostura” dell’abate: è come se ne il libro di Sciascia ne racchiudesse due, e infatti ci sono due parti per distinte, una iniziale più faceta, una finale molto drammatica. Non si può fare a meno di ammirare l’eleganza della prosa sciasciana, precisa nella scelta dei termini, felice nell’ironia e tagliente nel cambio di registro, dotta nella ricostruzione di conversazioni fra poeti e letterati, avvocati e monsignori, maliziosa quando serve, impeccabile nella ricostruzione di ambienti e personaggi storici.
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