lunedì 22 aprile 2024

I DELITTI DELLA RUE MORGUE

 


 
Edgar Allan Poe
I DELITTI DELLA RUE MORGUE
Cut-Up Publishing
2023, brossurato
80 pagine, 13.90 euro


Personalmente sono più che convinto che il primo giallo della storia della letteratura sia contenuto nella Genesi, il primo libro della Bibbia. Lì c’è un omicidio, quello di Caino ai danni del fratello Abele, c’è un detective (Dio), vengono svolti degli interrogatori e dunque delle indagini, si scopre il colpevole – che viene condannato e punito. A dire il vero, sul fatto che Caino sia stato il vero assassino ho i miei dubbi, che ho esposto in un racconto intitolato “La signora Miller e Dio” (lo trovate nell’antologia “Dall’altra parte”, edita da Cut-Up Publishing). Ma non divaghiamo. Genesi a parte, il capostipite del genere giallo viene pressoché unanimemente considerato "I delitti della Rue Morgue" di Edgar Allan Poe (1809-1849), datato 1841, anche se non propone un vero poliziotto quale autore delle indagini e propone una trama tutto sommato fantastica che si discosta dal realismo che contraddistingue invece il poliziesco vittoriano, da cui nasce una scuola giunta fino ai nostri giorni. Tuttavia è innegabile che Auguste Dupin (protagonista di altri due racconti dello scrittore bostoniano) sia un perfetto Sherlock Holmes ante litteram e l’amico che funge da io narrante sembra la controfigura del dottor Watson (condizioni economiche a parte). Quando, soltanto grazie al ragionamento, Dupin segue il flusso dei pensieri dell’altro e risponde a voce alta a una considerazione fatta dal compagno soltanto nella propria testa, pare proprio che a scrivere sia Conan Doyle. Oltre a essere il primo giallo letterario della storia, “I delitti della Rue Morgue” è anche il primo caso della “camera chiusa”. Il racconto è perfetto per ritmo, tempistica e climax, e la soluzione del mistero, per quanto insolita, risulta convincente (ne ho fatto la parodia in “Cico Detective”). Aldo Luigi Mancusi firma una nuova traduzione e una interessante postfazione. Cut-Up Publishing confeziona un libretto delizioso.
Va segnalato, però, che c’è chi sostiene che nei “Delitti della Rue Morgue” ci sia in realtà lo zampino di Alexandre Dumas. Un giallo nel giallo. La tesi è di Ugo Cundari e provo a riassumerla. Esiste un racconto di Dumas pubblicato a puntate tra il 28 dicembre 1860 e l’8 gennaio 1861, di cui esistono, negli archivi di tutto il mondo, pochissime copie, e che era, fino a poco tempo fa, praticamente sconosciuto: “L’assassinio di Rue Saint Roche”. La lettura lascia del tutto sbigottiti, perché si tratta di un clamoroso plagio dei "Delitti di Rue Morgue" di Poe. Stessa ambientazione parigina, stessa situazione, stesse vittime, stessa soluzione del caso. Non solo: anche i particolari sono i medesimi, dalle voci provenienti dalla casa chiusa scambiate dai vicini per lingue straniere sempre diverse, al dettaglio delle finestre inchiodate. Che cosa cambia? Cambia, innanzitutto, il fatto che il detective risolutore del caso è lo stesso Edgar Allan Poe. Cioè Dumas racconta di aver incontrato lo scrittore americano a Parigi nel 1832 e, mentre era in sua compagnia, di averlo veduto incuriosirsi di un caso descritto sui giornali e quindi indagare sulla faccenda fino a venirne a capo. Ora, i "Delitti della Rue Morgue" è stato pubblicato nel 1841, dunque vent'anni prima il racconto di Dumas. Dunque tutto lascia pensare che sia stato lo scrittore francese a copiare Poe. Il che non sarebbe neppure improbabile, essendo Dumas uso ad attingere a piene mani di qua e di là, al punto da aver subito diversi processi con l'accusa di appropriazione indebita di scritti altrui. Però, la questione non è così semplice. Nella sua lunga e avvincente postfazione, Cundari elenca tutta una serie di circostanze misteriose. Tanto per cominciare, anche nel racconto di Poe compare un Dumas, che è uno dei personaggi secondari. Una combinazione? E se Dumas e Poe si fossero davvero incontrati, nel 1832? Perché, infatti, Poe ambienta proprio a Parigi il suo giallo, e non a Boston o Philadelphia? Come può conoscere così bene la capitale francese, com'è dimostrato dal suo testo? La biografia di Poe è, incredibilmente, misteriosa e lacunosa sui suoi spostamenti in quell'anno e ci sono testimonianze che lo vogliono in Russia, in Francia, in Inghilterra. Il curatore elenca una serie impressionante di indizi che sembrano far supporre che il contatto ci sia stato, e che una bozza di racconto possa essere stato visto e letto da Poe, oppure discusso con Dumas, che sarebbe stato però l'artefice dell'opera, avendone collocato l'azione su uno sfondo parigino che l'americano non aveva ragione di usare. Per quel che può valere la mia opinione, credo in un plagio del parigino ai danni di Poe, ma è possibile che i due si siano davvero incontrati a Parigi.

domenica 21 aprile 2024

STORIE DI GUERRA

 



Angelo Stano
STORIE DI GUERRA
Allagalla
2023, cartonato
100 pagine, 20 euro


Angelo Stano (“uno dei migliori disegnatori del mondo”, secondo Aldo Di Gennaro, che di disegno se ne intende) è nato a Santeramo in Colle, in provincia di Bari, nel 1953.Le sei storie di guerra da lui illustrate raccolte in questo volume da Allagalla sono datate tra il 1976 e il 1977. Quindi, ci ripropongono il lavoro di un autore di ventitré o ventiquattro anni, da poco trasferitosi a Milano e con all’attivo soltanto le prime collaborazioni a fumetti (la prima, datata 1971, è una riduzione del romanzo di Verne “Dalla Terra alla Luna”). Nel 1975 lo troviamo a illustrare racconti di uomini in guerra per la Dardo, una Casa editrice che a partire dai primi anni Sessanta aveva visto furoreggiare in edicola testate come “Collana Eroica” e “Super Eroica”, di provenienza inglese (anche se per la Fleetway che le realizzava lavoravano autori di tutto il mondo, tra cui molti italiani, quali Tacconi, Calegari, D’Antonio, Tarquinio e persino Pratt). A metà degli anni Settanta, però, assecondando il clima politico mutato dalla contestazione giovanile, Giuseppe Casarotti, patron della Dardo, pensa di pubblicare una testata di vicende belliche ma con risvolti antimilitaristi, con ambientazioni storiche e ricostruzioni di contesti più accurati, con personaggi realistici e non necessariamente eroici. Nacque così la collana “Uomini e guerra”, per la quale viene ingaggiato il giovane Stano. La testata non riscuote il successo sperato, ma il disegnatore fa in tempo a realizzare una mezza dozzina di racconti, quelli contenuti in questo volume (cinque pubblicati, uno rimasto inedito), che sicuramente servono a fargli fare le ossa e a gettare le basi per la sua carriera. Le sceneggiature sono di Franco Fattori e dello Staff di If e hanno il torto (forse per una precisa indicazione editoriale) di essere ridondanti di didascalie. Tuttavia, la scelta degli scenari di guerra e della tipologie di trame è interessante: la prima, ambientata sul fronte dell’Altopiano di Asiago nel 1915, comincia ricordando come in trincea finissero fanti “morti di fame”, miseri spediti al macello. Una delle storie ricostruisce il raid di Entebbe, lamentando le vittime ugandesi. I disegni, giovanili ma già straordinariamente efficaci, mostrano controluce il grande autore che muove i primi passi, quelli che lo avrebbero portato a divenire il creatore grafico e il copertinista di Dylan Dog, arrivando a maturare un segno inconfondibile.

sabato 20 aprile 2024

PASQUALE FRISENDA ARTBOOK

 

Pasquale Frisenda
ARTBOOK
Cut-Up Publishing
2024, cartonato
96 pagine, 35 euro


Gli artbook sono un genere a se stante. Si potrebbero definire “cataloghi” o “campionari” delle opere di un artista, realizzati indipendentemente da una mostra che le esponga in una galleria o in un museo. Dunque, vere e proprie mostre essi stessi, da tenersi in casa, da venire portate in giro, da poter essere visitate semplicemente sfogliando le pagine di un libro ogni volta che lo si desideri. Non sono il “ricordo” di una esposizione, sono l’esposizione stessa. Gli artbook risultano particolarmente interessanti quando ripercorrono l’evoluzione di anni di lavoro di un fumettista perché dimostrano come i disegnatori di comics siano al tempo stesso narratori di storie e illustratori, e si dimostrino in grado di eccellere in ambiti diversi, ora al servizio di una storia articolata o di un personaggio dalla lunga tradizione che si intende rispettare o reinterpretare, ora folgorandoci o incantandoci con una sola immagine, che basta a se stessa. Tutto ciò è straordinariamente ben dimostrato dall’artbook di Pasquale Frisenda, classe 1970, milanese, attivo a livello professionale a partire dal 1991 (l’esordio avviene sulla rivista “Cyborg”) ma alle prese con chine e matite (e sogni) già dal 1985, grazie al suo incontro con lo Studio Comix di Carlo Ambrosini, Giampiero Casertano ed Enea Riboldi, dove fa apprendistato. Ci sono, nel volume edito da Cut-Up, anche esercitazioni grafiche precedenti, a testimonianza di come si nasce fumettisti anche prima di imparare la tecnica, esercitandosi, copiando, inventando racconti disegnati. Ma la svolta, per Frisenda, arriva grazie alla collaborazione con Ivo Milazzo che lo mette al lavoro su storie di Ken Parker sceneggiate da Giancarlo Berardi, pubblicate sul “Ken Parker Magazine”. Da Lungo Fucile a Magico Vento il passo è breve: entrambi grandi personaggi autoriali (il secondo è scritto da Gianfranco Manfredi), eroi western fuori dai canoni. Di Magico Vento, Pasquale diventa anche il copertinista. Fuori dal canoni è anche il Texone che Frisenda viene incaricato di illustrare nel 2009, su testi di Mauro Boselli, intitolato “Patagonia”. Un capolavoro che gli vale di Gran Guinigi a Lucca Comics & Games, e che dimostra (se mai ce ne fosse il bisogno) sia la dignità del fumetto popolare in grado di proporsi come produzione “alta” senza rinnegare i propri canoni, sia la vocazione di Frisenda a incarnare il popolare d’autore nella più nobile accezione. Da quel momento in poi è impossibile non considerarlo un maestro, qualunque cosa faccia, a colori e in bianco e nero, in Italia e all’estero (Dylan Dog, Deadwood Dick, Le Storie, Peux Epaisses). Nel 2024 esce la versione a fumetti de “Il deserto dei tartari”, di Dino Buzzati, su sceneggiatura di Michele Medda. L’artbook della Cut-Up si ferma tuttavia al 2021. Ho un solo rimpianto: che manchi l’illustrazione realizzata con la biro e pubblicata su un numero della rivista “Dime Press”, raffigurante un poderoso Zagor la cui sagoma avanza verso il lettore stagliata contro la luce di un fulmine.

venerdì 12 aprile 2024

STORIA DELLA COLONNA INFAME


Alessandro Manzoni
STORIA DELLA COLONNA INFAME
Sellerio
2020, brossurato
200 pagine, 12 euro

«La Colonna Infame venne eretta in Milano nel 1630, a ignominia di un barbiere e di un commissario di sanità condannati al taglio della mano, ad essere squarciati a brani con tenaglie roventi, rotti sulla ruota e sgozzati dopo sei ore di agonia. La peste desolava allora la città; e quei due miseri furono accusati di avere sparso veleni e malie per le strade ad accrescere la pubblica sventura. E a che pro? I posteri, vergognandosi della ferocia stolida dei loro maggiori, rasero la colonna innanzi la rivoluzione». Così spiega e riassume i fatti Ugo Foscolo, citato nella postfazione da Leonardo Sciascia. Va aggiunto il particolare che il lugubre monumento sorse nello spiazzo, nei pressi di porta Ticinese, dove sorgeva la casa di uno dei condannati, il barbiere Giangiacomo Mora, che venne abbattuta a somma ingiuria. Il tragico episodio di follia giudiziaria aizzata dalla superstizione del popolino rientra dunque nella cosiddetta “caccia all’untore” resa celebre dalla narrazione che ne fa Alessandro Manzoni dei “Promessi Sposi”. Ciò che colpisce, leggendo oggi la ricostruzione di quei fatti, è constatare come le assurde credenze di un complotto teso a decimare la popolazione non imperversavano soltanto nel Seicento, ma hanno attraversato i secoli fino ai nostri giorni. Sempre Sciascia riferisce quanto segue a proposito dell’influenza diffusasi subito dopo la guerra del 15-18: «Della “spagnola” si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra, per errato calcolo, finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione, da parte dei governi, per quel tanto, né più né meno, che ci voleva a far tornare il conto. La convinzione che la mortalità fosse voluta e programmata dal governo era talmente radicata che ad opporvi il fatto che anche alti funzionari governativi ne morivano, la risposta era che “avevano sbagliato bottiglia”: che avevano cioè attinto al veleno invece che al controveleno». Anche nel caso del colera che imperversò in Sicilia tra il 1885 e il 1986 ci si convinse che ci fossero degli “untori”, e addirittura un maresciallo dei carabinieri, citato da Sciascia, scrisse in un libro di memorie: “Tutti lo credevano e, a dire la verità, anch’io penso che qualcosa ci fosse”. Riguardo alla peste di Milano del 1630, il Manzoni, nei “Promessi Sposi”, racconta di un anziano che, recatosi a pregare in Duomo, volle spolverare con un fazzoletto la panca su cui intendeva sedersi, e venne additato dai presenti come spargitore di veleni, e trascinato sul sagrato dalla folla per essere linciato. Volendo documentarsi nel migliore dei modi per scrivere il romanzo di Renzo e Lucia, il Manzoni rintracciò in archivi pubblici e privati una grande quantità di testimonianze d’epoca. S’imbatté perciò nella storia della Colonna Infame, decise di volerla approfondire e raccontare, ma capì che sarebbe stata una digressione troppo lunga se le sue ricerche fossero confluite nel racconto delle traversie dei due fidanzati, e perciò ne ricavò un saggio a parte (1840). Sciascia si meraviglia che il suo “piccolo grande libro” resti tra i meno conosciuti della letteratura italiana. Peccato, perché si tratta di un pamphlet di taglio giornalistico, una perfetta ricostruzione di un caso giudiziario, in cui il Manzoni racconta i fatti nulla trascurando, esamina le testimonianze, riporta gli interrogatori, smonta punto per punto le tesi dell’accusa, fa proprie le idee di Pietro Verri (1728-1797) nel suo saggio “Osservazioni sulla tortura” (1777). Le confessioni di Guglielmo Piazza (il primo sventurato arrestato e costretto a fare i nomi di complici che non aveva) e di Giangiacomo Mora vennero estorte sotto le più crudeli torture, e i disgraziati accettarono di confermare tutto ciò che gli inquisitori volevano che dicessero, salvo ritrattare, inascoltati, fin sul patibolo. Memorabile l’inizio della cronaca dei fatti: “La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani che pareva scrivesse”. Guglielmo Piazza scriveva davvero, ma essendosi macchiato le dita d’inchiostro, cercò di pulirsele sfregandole contro un muro. Ed ecco le parole della donnicciola: “mi venne in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che andavano ungendo le muraglie”. Un untore, insomma, di quelli che tutti credevo spargere la peste per non si sa quale complotto. In quel “per disgrazia” che dà inizio alla “Storia della Colonna Infame” c’è tutto il senso della perfetta ricostruzione manzoniana di uno dei caso giudiziari più terribili della storia moderna.

giovedì 11 aprile 2024

JULIAN



 
Carlo Lucarelli
Stefano Fantelli
Marcello Mangiantini
JULIAN
Cut-Up Publishing
2024, cartonato
64 pagine, 23.90 euro


Mi sono sempre chiesto che cosa potessero provare i condannati alla ghigliottina nel momento in cui la lama spiccava loro la testa dal collo. La morte era davvero immediata, come spero, oppure la vittima percepiva, sia pure per un breve momento, la caduta del capo nel cesto? Si sa di esperimenti condotti da studiosi, all’epoca della Rivoluzione Francese, prendendo accordi con alcuni destinati al supplizio, che avrebbero dovuto cercare di comunicare con un movimento degli occhi il perdurare di uno stato di coscienza subito dopo l’esecuzione, e pare che tutte le prove avessero dato esito negativo. Nessuna reazione percettibile. Carlo Lucarelli, apprezzato scrittore noir e famoso giornalista specializzato in cronaca nera, prova a immaginare, in un suo racconto realmente orrorifico prestato a fare da soggetto a una storia a fumetti, che cosa possa succedere a una testa, mozzata di netto da una lama troppo affilata e da un meccanismo lubrificato di fresco, che non perda conoscenza ma anzi, ovviamente per un caso più unico che raro, conservi le percezioni visive e uditive e la capacità di elaborare pensieri. Per sceneggiare il fumetto Lucarelli ha precettato un esperto del genere horror (scrittore a sua volta ma anche fumettista), Stefano Fantelli, il quale si è affidato ai disegni di Marcello Mangiantini, con cui ha stretto sodalizio grazie ad alcune storie, decisamente sopra le righe quanto a cupezza e sangue versato, realizzate insieme per Zagor. Mangiantini, peraltro, è decisamente talentoso quando si tratta di illustrare racconti in costume (il suo primo lavoro fu un graphic novel ambientato nel contesto della Rivoluzione Americana). Ai colori, cupi come conviene, Letizia Castagna. Il protagonista del racconto di Lucarelli e Fantelli si chiama Julian, nome che ricorda, variante grafica esclusa, il Julien Sorel de “Il rosso e il nero”, un altro ghigliottinato letterario, anche se il contesto è quello rivoluzionario pre-napoleonico e non, come in Stendhal, quello della restaurazione post-napoleonica. La storia prende inizio proprio con l’esecuzione di Julian, conseguenza infausta di un suo contrasto con Robespierre. Quel che succede dopo, ovvero le traversie di una testa tagliata gettata in una fossa comune e portata in giro da un topo infilatosi nella bocca è una sorta di scommessa tra gli autori e il lettore, con i primi che puntano sul riuscire a condurre in porto, e a una conclusione soddisfacente, una storia in cui il protagonista non solo non parla, ma non può contare neppure sul linguaggio del corpo, non avendone uno.

lunedì 8 aprile 2024

GLI ZII DI SICILIA

 

Leonardo Sciascia
GLI ZII DI SICILIA
Adelphi
1992, brossurato
250 pagine, 18 euro


Se si pensa a Leonardo Sciascia (1921-1989), è facile ricordarlo come l’autore de “Il giorno della civetta” o di “A ciascuno il suo”. Forse, grazie al film che ne è stato tratto, anche di “Todo modo”. Più difficile sentirlo rammentare per un altro, pur notevole, romanzo: “Il consiglio d’Egitto”. Tutte opere di cui abbiamo parlato di questo spazio. Ma, secondo me, il libro più bello dello scrittore di Racalmuto è “Gli zii di Sicilia”, pubblicato nel 1958 nei “Gettoni” diretti da Elio Vittorini (altro scrittore siciliano di cui ci siamo occupati) e poi riproposto di nuovo nel 1960 con l’aggiunta di un quarto racconto oltre ai tre presenti nella prima edizione, il fondamentale “L’antimonio”. Già, perché “Gli zii di Sicilia” è una antologia di quattro romanzi brevi (o racconti lunghi, sempre difficile da distinguere), uniti da alcuni tratti comuni. Innanzitutto, i protagonisti sono tutti siciliani; in secondo luogo l’ambientazione è storica e i personaggi si confrontano con avvenimenti epocali di grandi trasformazioni politiche e sociali; terzo punto, ci sono dibattiti e confronti ideologici (fascismo e antifascismo, comunismo e clericalismo, potere baronale e movimenti liberali) ma che mostrano le contraddizioni di ogni posizione; infine, c’è di mezzo la guerra, vista (da lontano o da vicino) con gli occhi degli ultimi, inquadrata dal livello del suolo. Leonardo Sciascia è già il narratore straordinario che in seguito avrebbe, più che dimostrato, confermato di essere: non una parola di più, non una di meno; un stile caratterizzato da un periodare pulito, elegante, misurato, attento ai dettagli ma solo a quelli essenziali, coinvolgente, ironico, sommesso.
Il primo racconto, “La zia d’America”, racconta dello sbarco americano in Sicilia nel 1943 con la voce di un ragazzino che vede prima fuggire i tedeschi, poi smantellare le insegne del regime dalla piazza del paese, quindi togliere i gagliardetti mussoliniani dal bavero delle giacche, ascoltando anche i mugugni e le recriminazioni dei nostalgici in risposta alle aspettative di aiuti economici e di libertà dei compaesani, fino alla comparsa delle prime pattuglie alleate. A guerra finita, arriva in visita la famiglia di una zia emigrata in America che ha fatto fortuna nel commercio, con un “storo”, ma che disprezza la povertà e le mosche dei parenti siciliani.
Il secondo racconto, "La morte di Stalin", narra di un convinto comunista cresciuto nel culto di Stalin, da lui considerato il migliore degli uomini e la speranza dell'Umanità, salvo poi vederne crollare il mito e venire costretto dai suoi stessi compagni di partito a convincersi dei crimini del leader, così da perdere ogni punto di riferimento.
Il terzo romanzo breve è “Il quarantotto”, inteso come 1848, l’anno in cui cominciarono a germinare in Italia i primi movimenti che avrebbero portato ai moti risorgimentali e all’impresa di Garibaldi. Anche in questo caso l’io narrante è un ragazzino, figlio di un cocchiere al servizio di un barone, che, cresciuto, si arruola fra le fila garibaldine e vede il nobiluomo cambiare casacca e, da fervente borbonico, trasformarsi in liberale.
Il più bello dei racconti è però il quarto “L’antimonio”, il ci titolo fa riferimento al nome dato dagli zolfatari siciliani al gas che provoca esplosioni nelle miniere di zolfo. Proprio dopo essere scampato a una di queste esplosioni, il minatore protagonista decide di arruolarsi volontario nella Guerra di Spagna (1936-1939): nulla o quasi sa del perché là si combatta, sa solo che combattendo si guadagna ciò che basta a mantenere la famiglia e se si muore, si muore sotto il sole e non in una galleria sottoterra. Una volta al fronte, però, le cose cominciano a farsi più chiare davanti ai suoi occhi. Un testo illuminante, un capolavoro.

sabato 6 aprile 2024

ANTENATI


 
 
Giorgio Manzi
ANTENATI
Il Mulino
2024, brossura
224 pagine, 16 euro


La rubrica “Homo Sapiens” di Giorgio Manzi è la prima che vado a cercare, ogni mese, sul nuovo numero de Le Scienze. Manzi insegna antropologia alla “Sapienza” di Roma ed è accademico dei Lincei. Da affezionato lettore, ben conoscendo la gradevolezza della sua scrittura, non mi sono perso questo suo nuovo saggio, in cui il paleoantropologo esamina dieci distinti casi di ritrovamenti di parti di scheletri di nostri antenati preistorici, raccontando come e dove sono avvenuti, come sono stati interpetrati i reperti in un primo momento e di che cosa ci si è convinti in seguito, come si sia andata elaborando, attraverso lo studio di calotte craniche o frammenti di bacino, o magari di denti, una teoria sull’evoluzione e della distribuzione del genere homo partendo dalle prime specie di ominini da cui discendiamo. La paleoantropologia nacque nel 1856, quando i lavori in una cava tedesca nella valle di Neanderthal portarono alla luce i resti di tre scheletri che sembravano umani ma chiaramente non lo erano. Nel 1864, un paleontologo irlandese, William King, trovò una collocazione tassonomica per i proprietari di quelle ossa, definendoli appartenenti a una specie umana estinta, l’homo neanderthalensis. Si scoprì poi che già negli anni Trenta del XIX secolo era stata rinvenuta in Belgio la volta cranica di un bambino che, tirata fuori dallo scaffale dov’era finita, venne attribuita appunto a un piccolo neanderthaliano. La stessa cosa accadde per un cranio femminile scoperto a Gibilterra. Oggi è ormai è chiaro che per millenni gli homo sapiens, ultimi arrivati in famiglia, hanno coabitato la Terra con diversi parenti (cugini più o meno lontani) e che è soltanto da quarantamila anni che siamo rimasti soli (forse anche per colpa nostra). Manzi racconta, davvero molto bene, del ritrovamento, avvenuto nel 1974 in Africa Orientale, dello scheletro di Lucy, una nostra trisnonna di 3,2 milioni di anni fa, che non aveva un aspetto propriamente umano, ma che già camminava su due gambe (era una australopithecus afarensis). C’è poi la storia del cosiddetto “ragazzo del lago”, scoperto nel 1984 sulla sponda del lago Turkana, in Kenya, i cui resti risalgono a un milione e 600.000 anni fa, che invece era già un “homo”, della specie Homo Ergaster; seguono le vicende del ritrovamento dei resti di strane creature, umane ma alte appena un metro, che abitavano l’isola di Flores, sperduta in mezzo al mare tra l’Indonesia e l’Australia (homo florisiensis). C’è spazio anche per l’Italia, con il resoconto della scoperta, avvenuta pressi di Frosinone nel 1994 dell’uomo di Ceprano, un homo heidelbergensis, che rappresenta una fondamentale testimonianza sia della progressiva espansione in Europa della grande famiglia a cui apparteniamo, sia della varietà di tipologie, manifestatesi nel corso dei millenni, dei nostri zii e cugini. Sempre italiani sono i resti di neanderthaliani rinvenuti sul Monte Circeo nel 1939; quelli scoperti nel 1993 in una grotta nei pressi di Altamura, in Puglia, identificati come vecchi di 150.000 anni; quelli di una mummia, divenuta molto famosa, emersa dai ghiacci delle Alpi, nei pressi della vetta del Similaun, sopra la Val Senales. Quest’ultimo ritrovamento, datato 1991, riguarda il corpo di un uomo del tutto simile a noi, vissuto oltre 5000 anni fa, in piena età del rame, conservatosi con tutta l’attrezzatura da viaggio che si portava dietro. Proprio le pagine con l’analisi degli abiti, le armi, il cibo, gli utensili, i tatuaggi di Oetzi (così è stato chiamato) chiudono lo stupefacente saggio di Giorgio Manzi, in cui si parla però anche di un falso reperto costruito ad arte per lucrare fama e denaro, rivenuto nel 1912 a Piltdown, in Inghilterra, il cui autore venne smascherato soltanto 41 anni dopo, grazie ai progressi della paleoantropologia.

mercoledì 3 aprile 2024

LA BANCONOTA DA UN MILIONE DI STERLINE


 
Mark Twain
Tiziano Sclavi
Mario Rossi
 LA BANCONOTA DA UN MILIONE DI STERLINE
 Allagalla
2021, cartonato
100 pagine, 19 euro


Un volume decisamente interessante, questo proposto da Allagalla, e per vari motivi. Il primo: il recupero di un fumetto di 47 tavole sceneggiato per “Il Giornalino” nel 1990 da Tiziano Sclavi (il creatore di Dylan Dog, nato a Broni, in provincia di Pavia, nel 1953); il secondo, la riproposizione integrale in una nuova traduzione dall’inglese del racconto di Mark Twain “The Billion Pound Bank Note”, da cui origina la versione sclaviana; il terzo, la ricostruzione degli “anni del Giornalino” sotto la gestione di don Tommaso Mastrandrea e Claudio Nizzi (a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta), rivista per cui lavoravano decine di autori di prima scelta (un po’ come nella redazione del “Corriere dei Ragazzi” di dieci/venti anni prima), tra i quali spiccava il genovese di adozione romana Mario Rossi, classe 1946, l’ottimo illustratore di questo adattamento. “Mario è bravissimo, racconta alla perfezione, le sue storie sono leggibili anche senza testo”, dichiara Sclavi. Il ricco apparato critico a corredo del volume comprende una intervista allo sceneggiatore, un saggio di Loris Cantarelli sulla fortuna del racconto di Mark Twain, alla base di numerose versioni teatrali, fumettistiche e cinematografiche tra cui il celebre film “Una poltrona per due”. Infatti, a dare inizio all’originale trama, c’è la scommessa di due ricchi uomini d’affari, “fratello A” e “fratello B” sul destino di uno spiantato a cui avessero messo tra le mani una grossa fortuna. Ci sono anche una introduzione di Roberto Guarino e Matteo Pollone e una di Giuseppe Noto, professore universitario che propone un utilizzo didattico (nelle scuole) del volume Allagalla. Per quanto lo sceneggiatore pavese sia rimasto abbastanza fedele al racconto di Mark Twain, la sua calligrafia si riconosce per il ricorso agli incubi del protagonista e le citazioni nascoste qua e là, a partire dalla vignetta d’apertura. Sclavi e Rossi hanno firmato insieme per “Il Giornalino” anche la serie “Agente Allen”, di cui ci siamo già occupati in questo spazio:
 

domenica 31 marzo 2024

LA TREGUA

 
 
 
 
Primo Levi
LA TREGUA
Einaudi
2014, brossurato
234 pagine, 13 euro

Non c’è niente da ridere, naturalmente. Però, ne “La tregua” di Primo Levi (1919-1987) ci sono senza dubbio anche pagine che muovono al sorriso. Lo stesso, del resto, si potrebbe dire di un altro diario di guerra, “Un anno sull’altipiano”, di Emilio Lussu, quando vengono narrati aneddoti di variopinta e sagace umanità. Il secondo libro di Levi dopo quello dell’esordio, “Se questo è un uomo” (1946) inizialmente passato inosservato, racconta l’avventuroso ritorno a Torino dell'autore nell’ottobre del 1945, dopo la liberazione del lager di Auschwitz, in Polonia, avvenuta nel gennaio dello stesso anno. Per alcune settimane, gli internati del campo rimangono nelle loro baracche e continuano a morire di stenti e di malattie, anche in assenza degli aguzzini nazisti. Poi, il destino decide chi sono i salvati e chi i sommersi. Primo Levi, chimico ed ebreo torinese entrato in clandestinità fra le fila partigiane, era stato arrestato nel dicembre 1943 in Val d’Aosta e tradotto ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Lì, riesce a sopravvivere un anno, fino alla fuga dei tedeschi pressati dall’avanzata dell’esercito sovietico. Proprio i russi si fanno carico degli scampati allo sterminio, in una situazione comunque precaria che non risparmia ai liberati altri mesi di privazioni, fame, traduzioni in treno in carri merci in viaggi apparentemente senza senso, tragitti verso destinazione ignote. Neppure la notizia della fine della guerra significa, per Levi e i suoi compagni, che sia giunto il momento del rimpatrio. Il percorso che avrebbe potuto essere lineare assume la forma di un arabesco tra i confini polacchi, bielorussi, russi, rumeni, austriaci, in una odissea durata dieci mesi, attaverso l'Europa distrutta dalla guerra. La prima parte del diario, ambientata ad Auschwitz, è molto drammatica, sia pure scritta con registro asciutto senza indulgere sull’orrore del lager, come pure sarebbe stato lecito, ma anche senza nascondere o tacere niente. Tragico per esempio, il ritratto del bambino Hurbinek, nato (non si sa come) nel campo e lì sempre vissuto nei suoi tre o quattro anni, che non sa neppure parlare ma lotta caparbiamente per la vita. Dopo la partenza dal campo di sterminio comincia a prevalere la speranza, sempre frustrata da cocenti disillusioni. Iniziano però anche gli aneddoti sull’inventiva degli ex-prigionieri per procurarsi da mangiare, o scarpe da calze, ragazze da sposare o soltanto da portare a letto. Fra i compagni di Levi facciamo la conoscenza di Cesare, in grado di vendere qualunque cosa a chiunque pur parlando soltanto romanesco, ma anche del medico Leonardo, a cui lo scrittore fa da infermiere, del gigantesco veneto Avesani, detto il Moro, gran bestemmiatore. Ma si descrivono anche gli arrivisti, gli intrallazzatori, i manipolatori, i millantatori. Colpisce il resoconto degli spettacoli teatrali organizzati durante la permanenza a Staryje Doroghi, la “casa rossa”, segno di una insopprimibile desiderio dell’animo umano di esprimersi attraverso l’arte. Il titolo “La tregua” si riferisce alla breve pausa fra una guerra e le successive, ma anche alla parentesi nella vita di Primo Levi costituita dagli assurdi mesi del viaggio verso casa. Il libro ebbe subito un grande successo e vinse la prima edizione del Premio Campiello, riaccendendo l’attenzione, in Italia e all’estero, anche su “Se questo è un uomo”. Da leggere, assolutamente, tutti e due.