domenica 31 agosto 2025

NECROMANTICA MUSA BLUES

 
 
Stefano Fantelli
NECROMANTICA MUSA BLUES
Cut-Up Publishing
2025, cartonato
110 pagine, 19.90 euro
Illustrazioni di Paolo Massagli

La nota biografica in appendice ci informa che Stefano Fantelli, “scrittore e sceneggiatore di genere dark e new weird, conosciuto anche con lo pseudonimo di El Brujo, Active Member della Horror Writers Association, ha pubblicato più di venti libri tra romanzi, raccolte di racconti e graphic novel”. Aggiungo, io che lo conosco, come abbia scritto storie pure di Zagor e molti altri fumetti, sceneggiato per il cinema, coordinato le pubblicazioni Cut-Up Publishing, organizzato eventi. Gli mancava soltanto di cimentarsi nella poesia, ed ecco il suo esordio anche questo ambito. Anche poeta, in sostanza. Tuttavia, fedele al suo personaggio, la raccolta “NecRomantica Musa Blues” (la R maiuscola all’interno del titolo è significativa) non propone al lettore, inclito o meno che sia, liriche nell’accezione più ricorrente e immediata del termine, componimenti cioè votati al sublime letterario e alla bellezza formale (bellezza che, in generale, come dice Dostoevskij, è sempre un enigma). La silloge (ecco che l’inclito lettore apprezzerà il vocabolo) raccoglie piuttosto testi in cui il bello e il sublime si manifesta attraverso versi che cantano di artisti maledetti, eroi dei fumetti, sangue e colpa, lapidi cimiteriali, gioventù bruciata, divinità e miti oscuri, favole nere, eros e thanatos. Nessun riferimento diretto a Baudelaire e Bukowsky, e neppure a Carver (per quanto di certo tenuti presente); molti di più agli autori di testi di canzoni di gruppi o musicisti della scena dark punk, gothic, rock psichedelico, heavy metal, prog. Appunto come testi di canzoni Stefano Fantelli presenta i suoi componimenti fin dal titolo, ma soprattutto dal sottotitolo, “canzoni e ballate di morte e d’amore”.  In una conversazione con l’autore gli ho chiesto se la forma di “lyrics”, destinata cioè alla musica (“words of a song”, secondo il dizionario) sia soltanto una scelta stilistica o se davvero i suoi testi fossero stati scritti per venire musicati e incisi. Risponde Fantelli: “alcuni sono stati musicati ma non incisi. In generale, quando li ho scritti avevo in mente anche una melodia. Nessuno è stato inciso finora”.  L’idea che dei versi abbiano, fin dal momento della composizione, il rimando a una musica su cui appoggiarsi, porta a riflettere sulla notte dei tempi e sulla cetra (forse Rickembacker) di Omero. La poesia nasce cantata, anche quella italiana, che trae origine dai componimenti dei trovatori provenzali che, tra il XII e il XIV secolo, cominciarono a scrivere versi in volgare, in un neolatino chiamato lingua d'oc (oggi scomparsa, dato che il francese moderno deriva da un altro neolatino, la lingua d'oil). Quei versi venivano scritti per essere cantati. Non sappiamo esattamente quali fossero le melodie, ma la nostra storia letteraria nasce da lì. Gli eredi di questa tradizione, i veri poeti del nostro tempo sono proprio gli autor idei testi delle canzoni. La poesia accademica e austera, quella di coloro che non scrivono per la gente, non raggiunge quasi più il cuore di nessuno. Sono i testi delle canzoni che hanno assunto il compito svolto in passato dalla poesia, nella società: sono loro che descrivono i moti dell'animo, che assolvono una funzione catartica o liberatoria, o che incitano a reagire, o illuminano di nuova luce il reale o veicolano idee o semplicemente fanno sognare. Sono i versi dei parolieri e dei cantautori che passano di bocca in bocca, vengono imparati a memoria, ripetuti nelle riunioni fra amici, rimuginati nei momenti di solitudine. Ognuno ha la sua canzone che almeno una volta lo ha fatto piangere. Di certo quanto detto porta a concludere che ci piacerebbe ascoltare i testi di “NecRomantica” messi in musica. “El Brujo, lo stregone che scriveva versi chilometrici / cambiò un giorno il suo agente con uno della narcotici”, scrive di sé Fantelli (in “Dark Jazz”), che resta pur sempre uomo di penna (intinta nel cianuro) e non di chitarra, e quindi ci consegna poesie-racconti, testi autobiografici, pagine di diario. Immagino che possa considerarsi l’unico poeta che ha dedicato dei versi a Gwen Stacy, e che spiega le sue fonti di ispirazione scrivendo: “noi che leggevamo Lovecraft, Pirandello e Zagor”. Applausi per lui ma anche per il disegnatore Paolo Massagli, chiamato a illustrare il volume.



giovedì 28 agosto 2025

VERITIERE MEMORIE DEL DOCTEUR MYSTERE



 
Alfredo Castelli
Lucio Filippucci
VERITIERE MEMORIE DEL DOCTEUR MYSTERE
Sergio Bonelli Editore
2024, cartonato
256 pagine, 32 euro

Sulle pagine del n° 397 (marzo 2023) di Martin Mystère,  Alfredo Castelli scriveva: “Dopo aver vagabondato per parecchi anni in varie Case editrici e straniere, Docteur Mystère è tornato all’ovile e presto (non subitissimo, ma siamo così felici dell’avvenimento che non vedevamo l’ora di annunciarlo) uscirà un ricco volume di formato oblungo con tre storie mai ristampate da venti anni, riviste e integrate con nuove tavole”. Castelli (classe 1947) ci ha poi lasciato nel febbraio 2024, senza vedere pubblicato il tomo “oblungo”, dato alle stampe nel novembre dello stesso anno. Il formato è effettivamente singolare (lo vedete nella foto qui sopra) ma funzionale alla riproposta delle avventure di Docteur Mystère sottoforma di strisce simili a quelle pubblicate, dagli inizi del Novecento in poi, sui giornali quotidiani americani (le “daily strips”). Una soluzione grafica senza dubbio adatta al tipo di racconto, volutamente ma solo apparentemente retrò sia dal punto di vista grafico che da quello delle trame. Dico “solo apparentemente” perché poi basta leggere per rendersi conto di come sotto la patina vintage si celano (neanche troppo) elementi narrativi del tutto contemporanei: contaminazioni multimediali, paradossi, citazioni, audaci collegamenti, camei, easter eggs e inside jokes, omaggi e parodie, il tutto confezionato con una libertà di ispirazione e di espressione invidiabile e magistrale.
Scrive Carlo Recagno nella sua introduzione: “Si tratta di avventure scanzonate, da non prendere troppo sul serio, con quell’umorismo al limite del demenziale che Castelli non poteva inserire nella serie ‘Martin Mystère’, un eroe che doveva mantenersi ‘serio’. Storie nelle quali i protagonisti nei loro viaggi incontravano bizzarri personaggi tra realtà e invenzione letteraria, prendendo in giro i luoghi comuni dei romanzi d’avventura dell’Ottocento e del primo Novecento. Storie in cui i personaggi del ‘Mago di Oz’ si fondevano con quelli di ‘Miracolo a Milano’, con il protagonista del ‘Fantasma dell’Opera’ che aiutava a sconfiggere il mefistofelico Fu Manchu. E come se non bastasse, il nemico giurato del Docteur era un improbabile Maresciallo Radetzky trasformato in uno sgangherato genio del male da cartone animato, che aveva come animale da compagnia un topo”.
Ma chi è il Docteur Mystère? E che c’entrano lui e il suo assistente Cigale con Martin Mystère, il personaggio creato da Alfredo Castelli nel 1982 e che gli è sopravvissuto? L’ho spiegato in una recensione pubblicata su questo blog a proposito di un volume edito da Cut-Up Publishing, intitolato “I due dottori”,  che potete leggere cliccando sul titolo colorato. Ne riporto qui di seguito i punti essenziali, che cercherò di riepilogare.
Lo scrittore francese Paul Deleutre (1856-1915), che si firmava con lo pseudonimo di Paul d'Ivoi, fu autore di molti romanzi e racconti d'avventura che si inserivano nel filone dei "Viaggi straordinari" di Jules Verne. Fra questi, pubblicò nel 1900 il romanzo "Docteur Mystère", illustrato (come all'epoca si usava) con tavole di Louis Bombled. Protagonista ne era un ricco e presumibilmente nobile indiano, il cui vero nome rimane ignoto e che si fa chiamare così come risulta dal titolo in copertina. Costui, caratterizzato da una cultura enciclopedica e dal fatto di viaggiare su un "Hotel Elettrico" di sua invenzione, ha come assistente un giovane francese, trovatello, soprannominato Cigale, ed è giunto in Europa per compiervi una missione misteriosa. Mentre il Docteur non compare più, se non di sfuggita, in altri romanzi di d'Ivoi, Cigale invece diviene protagonista di una serie tutta sua. Trascorso quasi un secolo, nel 1994, Alfredo Castelli scopre in una libreria antiquaria una edizione di "Docteur Mystère", si incuriosisce per la corrispondenza del nome del personaggio principale con quello di Martin Mystère, l'eroe a fumetti da lui creato, e decide di inserire il ricco indiano di d'Ivoy nella saga del suo Detective dell'Impossibile, facendone un antenato. Come conciliare, però, i tratti somatici WASP di Martin con le sembianze etniche tipiche dell'India del Docteur? In una storia del 1996 Castelli spiega che Cigale era stato adottato dal suo mentore, assumendone come cognome proprio "Mystère". Quindi Martin Mystère si rivela essere discendente dal trovatello francese e giustamente può avere i capelli biondi. Il Buon Vecchio Zio Alfy non si ferma qui: nel 1998 trasforma il Docteur Mystére e Cigale in protagonisti di avventure scritte ex novo (da lui e da Carlo Recagno) pubblicate in albi fuori serie del Buon Vecchio Zio Marty (gli Almanacchi del Mistero) e ristampate poi in volumi cartonati, in Italia e all’estero (con apparizioni persino su spillati distribuiti in occasione di fiere e su quotidiani). Le caratteristiche dei due personaggi, ricreati graficamente da Lucio Filippucci, risultano un po' diverse da quelle degli eroi di d'Ivoi, ma resta il sapore della letteratura d'appendice e il fascino dell'ambientazione ottocentesca o d'inizio Novecento, il tutto contaminato con un sottofondo di brioso umorismo, un pizzico di elementi sexy, ed esotismo.
Il tomo “oblungo” dal titolo “Veritiere memorie del Docteur Mystère raccontate da lui medesimo ai famosi artisti Castelli & Filippucci” raccoglie, nel formato “a striscia” di cui si è detto, le ultime tre avventure che non erano ancora state ristampate. La prima, datata dicembre 1988, apparve in prima edizione sull’ “Almanacco del Mistero 1999, e fin dal titolo (“Gli scorridori del Selvaggio West”) dichiara l’intenzione di vedere il Docteur Mystére, Cigale e il loro “Hotel Elettrico” (una specie di camper-autotreno) alle prese con gli stereotipi del western. Stereotipi che Castelli stravolge non soltanto trascinando Radetzky nel Lontano Ovest ma anche svelando che Calamity Jane è in realtà l’italianissima Bella Gigogin. La seconda storia, “Gli orrori del castello maledetto”, pubblicata per la prima volta sull’ “Almanacco del Mistero 2004”, ha per scenari quelli gotici dei racconti di paura ambientati sui Carpazi o in Transilvania, con un tenebroso maniero abitato da un vampiro e un gobbo di nome Igor. Non mancano il solito Radtzky e il suo topo. La terza avventura, “La donna caduta dal cielo” (pubblicato inizialmente sullo speciale “Martin Mystère: Generazioni” del 2003), ambientata nella Londra dickensiana, non porta la firma di Castelli, sostituito ai testi (fornendo un’ottima prova) da Carlo Recagno, il quale, da appassionato “trekker” qual è, inserisce nella storia collegamenti con i viaggi nel tempo e, appunto, a Star Trek, riuscendo a farci stare anche due personaggi tolti di peso dalla saga mysteriana, Dee e Kelly.  Ogni storia è introdotta da un brevissimo prologo in cui compare Martin Mystère che riceve, in modo sempre originale e diverso, un plico inviatogli dallo zio Paul,  contenente il resoconto dell'avventura che sta per cominciare, spacciato come un estratto dai "veritieri" diari dell'antenato Docteur. Confido in altri volumi “oblunghi”.


mercoledì 20 agosto 2025

LA FUGA DEL SIGNOR MONDE

 

Georges Simenon
LA FUGA DEL SIGNOR MONDE
Adelphi
2011, brossura
160 pagine, 18 euro

La produzione letteraria di Georges Simenon (1903-1989) si divide in romanzi con Maigret e senza Maigret.  Entrambi i gruppi di opere sono sterminati: in totale, più di quattrocento titoli (senza contare racconti, articoli e saggistica). L’autore era in grado di scrivere ottanta pagine al giorno, senza che la quantità andasse a discapito della qualità. Si racconta di una telefonata di Alfred Hitchcock allo scrittore: “Monsieur Simenon è impegnato nella stesura di un romanzo”, spiega la segretaria. E il regista: “Va bene, attendo in linea”. 
I casi del celebre commissario iniziano a venire pubblicati nel 1931, ottenendo un grande successo di pubblico, pubblico che Simenon non volle mai deludere giungendo a dare alle stampe settantacinque romanzi  con protagonista Maigret. Parallelamente, però, firmò con regolarità anche quelli che lui definiva i romans durs: pur ritenendoli la sua produzione migliore, non rinnegò mai, giustamente, i suoi polizieschi. Insomma, ecco uno scrittore di genere che avrebbe meritato il Nobel per la Letteratura, che non ebbe forse proprio per la spocchia degli accademici svedesi messi di fronte a un autore (anche) di  gialli.  
Alcuni dei “romanzi duri” sono autentici capolavori: de “L’uomo che guardava passare i treni” (1938) abbiamo parlato in questo stesso spazio (come di molti altri). Cito questo titolo perché, in qualche modo, “La fuga del signor Monde” (1932) si può collegare alla fuga di Kees Popinga. C’è un altro paragone possibile, quello con “Il fu Mattia Pascal” (1904) di Luigi Pirandello, tolti i risvolti da commedia. In tutti questi casi un uomo improvvisamente scompare, fuggendo dalla gabbia della propria vita precedente, da una famiglia, da un trantran intollerabile. Norbert Monde è il più ricco dei tre, e si allontana da Parigi, a bordo di un treno, dopo aver cambiato aspetto, con trecentomila franchi appena ritirati in contanti dal proprio conto in banca. Un gesto improvviso, ma non inaspettato per lui che lo mette in atto: «Probabilmente lo aveva sognato spesso, o ci aveva pensato così tanto che adesso aveva l’impressione di compiere gesti già compiuti». A differenza di quella di Kees Popinga, l’uomo che guardava passare i treni, il signor Monde non va incontro a esperienze drammatiche, a parte il furto del denaro che subisce quasi subito ma che non lo turba più di tanto vista l’ansia di libertà che lo pervade. L’affascinante scrittura di Simenon, coinvolgente e musicale, ci incanta descrivendo non solo i moti dell’animo del protagonista ma i tanti ambienti che si trova ad attraversare (in particolare di Marsiglia e di Nizza) e la variegata umanità con cui entra in contatto, mentre a Parigi moglie e figli lo cercano. Da ricordare la figura dell’entraineuse Julie, con cui Monde instaura una relazione libera e senza vincoli. La fuga di Norbert si rivela un percorso di crescita interiore che gli fa raggiungere una piena consapevolezza di se stesso, e che giustifica il finale decisamente sorprendente. Un romanzo senza alcun elemento poliziesco (se non per la denuncia di scomparsa presentata alla Polizia dalla moglie del protagonista), non il migliore di Simenon, ma consigliabile come ogni romanzo dello scrittore belga.






lunedì 4 agosto 2025

LA SARDEGNA PREISTORICA

 
 
 

 
Paolo Melis
LA SARDEGNA PREISTORICA
Carlo Delfino Editore
2022, brossura
96 pagine, 10 euro

Durante una vacanza sulle spiagge nei pressi di Oristano, vicino ai resti della città di Tharros (fondata dai Cartaginesi nel VII secolo avanti Cristo), subito dopo una visita al Museo Archeologico di Cagliari, leggo tutto d'un fiato un breve libro sulla Sardegna preistorica, saggio ricco di illustrazioni che ha però l’unico difetto di finire prima di trattare della civiltà nuragica (del resto il titolo non lo prometteva). Quel che ho letto, mi conferma nella convinzione che la Sardegna sia la regione italiana cui più di ogni altra si dovrebbe scavare e indagare archeologicamente, essendo la terra con più misteri e con le più antiche civiltà. Paolo Melis consegna ai suoi lettori un compendio sintetico e divulgativo decisamente ben fatto, nonostante il breve spazio a disposizione. Non manca però una ricca bibliografia per chi volesse approfondire gli argomenti, così come molto utile si rivela il glossario  (da “Absidato” a “Ziggurath”) collocato in appendice. Leggendo apprendiamo come la Sardegna cominci a essere abitata dall’uomo a partire da circa mezzo milione di anni fa, probabilmente da gruppi di Homo Erectus, giunti attraversando il Tirreno grazie a una regressione marina  causata da una glaciazione del Pleistocene Medio, che portò a unire la parte più orientale della Corsica a quelle che adesso sono isole dell’Arcipelago Toscano, all’epoca unite al continente. Una seconda ondata di arrivi avvenne, sempre per un abbassamento del livello del mare, intorno a 165.000 anni fa, e una terza e ultima immigrazione via terra portò gli Homo Sapiens e i Neanderthaliani circa 70.000 anni avanti Cristo. Da quel momento in poi le acque smisero di abbassarsi e rialzarsi, la Sardegna restò circondata dal Mediterraneo e i successivi visitatori vi arrivarono in barca, dato che gli uomini dei Neolitico avevano scoperto la navigazione. Il più antico ritrovamento di resti umani sull’isola risale a 20.000 anni fa, ma numerosi sono i reperti litici o i segni di manipolazione dell’uomo di ossa di animali risalenti a epoche precedenti. La “Venere di Macomer”, raffigurazione della dea madre, è l’unica attestazione di arte paleolitica finora rinvenuta (12.000 anni fa). Paolo Melis elenca tutta una serie di Culture (quella di Bonuighinu, 5000 anni avanti Cristo; quella di Ozieri , 4000 anni, quella di Monte Claro, 3000 anni) caratterizzate dalla produzioni di vasi, punte di frecce, attrezzi, e da un progressivo aumentare delle decorazioni artistiche. Si parla poi delle caratteristiche degli insediamenti, con la forma delle capanne ricostruita grazie alle riproduzioni nelle tombe ipogee (le “domus de janas”), si accenna ai dolmen, ai menhir, alle mura ciclopiche, allo ziggurath di Monte d’Accorddi, chiaramente un luogo sacro, agli scavi di ossidiana, oggetto di commercio con altri popoli. Con l’età del rame si conclude il saggio di Melis, per proseguire la scoperta della storia sarda non resta che cercare notizie su un altro libro che riprenda dove si interrompe questo. Per esempio, potrebbe essere utile un saggio di cui abbiamo già parlato su questo stesso blog: "Sardegna nuragica", di Giovanni Lilliu



lunedì 28 luglio 2025

OTTO MONDI

 


Marco Tonarelli
OTTO MONDI
Melchisedek
2024, brossura
420 pagine, 24 euro

Pratese, classe 1972, Marco Tonarelli è un avvocato con la passione per la scrittura e “Otto mondi” è la sua opera prima. Cultore di filosofia, mitologia, esoterismo e delle tematiche misteriose in generale, ha riversato nel suo romanzo l’intero campo dei propri interessi e in ogni capitolo si fanno riferimenti a fatti storici, leggende e credenze, luoghi esistenti e continenti perduti, antichi ermetismi e scuole filosofiche, personaggi reali e sorprendenti incarnazioni di minacciose entità immaginarie - ameno, si spera che immaginarie lo siano, visto che il confine mito e realtà viene inteso come molto sottile. Confine che l’autore probabilmente sposta più indietro di quanto potremmo essere disposti a fare noi, ma non è necessario credere agli antichi astronauti o alle teorie (in verità molto affascinanti) di Graham Hancock per leggere un romanzo d’avventura alla Dan Brown. Tonarelli propone  più piani di interpretazione e ogni lettore può scegliere quello che gli è più congeniale. Volendo usare la chiave  di lettura dell’evoluzione spirituale, “Otto mondi” esplora temi profondi come la contrapposizione tra il trascendente e la realtà materiale, l'evoluzione della coscienza umana, il controllo occulto della società e la ricerca della verità nascosta dietro ai miti. La narrazione intreccia elementi di thriller, fantascienza e storia alternativa, suggerendo che molti monumenti antichi e tradizioni spirituali celino conoscenze tecnologiche e cosmologiche avanzate ereditate da civiltà extraterrestri. Il tutto mescolando archeologia megalitica e fantarcheologia, fantascienza e mitologia, new age ed esoterismo, la leggenda della linea di San Michele e la credenza nei flussi energetici sotterranei che attraversano la Terra,  l'alchimia e la numerologia (soprattutto legata al significato esoterico del numero otto), ma anche non banali riferimenti alla fisica quantistica. Un prezioso glossario finale fa da guida alla lettura. 
I punti di riferimento sono i già citati Dan Brown e Graham Hancock, ma se ne ritrovano altri in Martin Mystére (un personaggio a fumetti molto caro a Tonarelli), James Redfield (“La profezia di Celestino”) e Indiana Jones. “Otto mondi”, insomma, può essere inteso come romanzo iniziatico così come racconto d’avventura pieno di colpi di scena, lo è stile accessibile e scorrevole, adatto sia al lettore in cerca di evasione sia a quello più attento ai simbolismi, c’è una buona coerenza interna e una lodevole chiarezza nell’esposizione delle dottrine esoteriche. Alcuni passaggi esplicativi risultano didascalici, ma sono funzionali all’obiettivo divulgativo, l’intreccio ha un efficace equilibrio tra fiction e concetti sapienziali. L’autore dimostra passione e competenza, e trasmette al lettore il fascino della ricerca interiore e della conoscenza perduta. 
Il romanzo inizia con  il protagonista, il giovane avvocato Andrea Tusco, che ricorda l'infanzia legata al nonno Riccardo, il quale gli raccontava storie affascinanti su Ermete Trismegisto, il "Tre volte Grande”, introducendolo al principio ermetico "come in alto, così in basso". Questo ricordo diventa fondamentale quando, al compimento dei trent'anni, Andrea riceve una convocazione da un notaio che gli consegna un lascito del nonno: una lettera sigillata con ceralacca e un cofanetto di legno contenente una moneta d'oricalco. La lettera rivela verità sconvolgenti sulla famiglia Tusco e sulla Confraternita dei Figli di Thoth, un'organizzazione segreta nata ad Atlantide per preservare le antiche conoscenze e opporsi a una minacciosa razza che da millenni domina segretamente l'umanità. Da qui inizia una sarabanda di avventure che portano Andrea Tusco da Lucca a Torino, dal Cairo al Castel del Monte, castello non per caso di forma ottagonale, scelto come luogo simbolico carico di significato esoterico e geometrico. Al viaggio geografico, nello spazio, si alternano flashback, viaggi nel tempo, in cui si narrano avvenimenti avvenuti millenni o secoli prima del nostro presente. Infine, nel romanzo è presente un riferimento diretto a Gavinana, descritto come un luogo simbolico della memoria e delle radici legato alla storia familiare del protagonista. Si dà il caso che il piccolo borgo sulla Montagna Pistoiese sia anche il luogo dove sono nato anch’io e a pagina 58 mi si cita come buon amico di Andrea Tusco e si descrive la mia casa. Tuttavia, giuro, non è per questo che parlo bene del romanzo di Marco.


domenica 27 luglio 2025

LA LUNA DI CARTA



 
Andrea Camilleri
LA LUNA DI CARTA
Sellerio
2005, brossurato
280 pagine, 11 euro

“La luna di carta”, pubblicato nel 2005, è il nono romanzo della serie (che ne conta una trentina) dedicata dallo scrittore siciliano Andrea Camilleri (1925-2019) al suo fortunato personaggio del commissario Salvo Montalbano. Fortunato per il grande successo di pubblico in libreria, per le tante traduzioni in mezzo mondo, per i dati di ascolto della serie televisiva, perfino per l’omaggio fatto all’autore dalla Disney con la creazione del personaggio di Topalbano (Camilleri, peraltro, è stato anche sceneggiatore di fumetti, oltre che autore teatrale e televisivo). Fortunato, però, anche per l’invenzione del particolare linguaggio con cui vengono narrate le sue storie, una sorta di grammelot (come quello usato da Dario Fo) in versione sicula, in cui contano i suoni che comunicano il significato anche in mancanza di una corrispondenza lessicale sul dizionario, o come l’esperanto, una lingua inventata a tavolino partendo da parole esistenti forgiate e utilizzate in funzione della comprensione. Il gioco letterario di Camilleri funziona talmente bene che il lettore non siciliano si chiede se il narratore de “La luna di carta” stia effettivamente parlando la lingua che si sente a Palermo o a Catania, che miracolosamente risulta intellegibile al primo sguardo anche dai non nativi dell’isola, mentre poi, approfondendo la questione, si scopre che si tratta di “vigatese”, l’idioma di Vigata, la cittadina immaginaria (nell’altrettanto immaginaria provincia di Montelusa) inventata dallo scrittore per fare da sfondo alle inchieste di Montalbano (si dice che corrisponda a Porto Empedocle, di dove Camilleri è nativo). Una lingua, dunque, che non esiste, in cui la struttura della lingua italiana si mescola con termini di vari dialetti siciliani. L’autore spiega così la faccenda: “Si tratta di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c'è dietro”. Nel primo romanzo con protagonista Montalbano, “La forma dell’acqua” (1994) il “vigatese” si limitava a poche frasi e parole, ne “La luna di carta”, undici anni dopo, invece imperversa. Di primo acchito la lettura può sembrare ostica, poi ci si abitua e la si apprezza. Cito come esempio il brano in cui Camilleri giustifica, tramite i ricordi del commissario, il titolo del romanzo: “Quann'era picciliddro, una volta sò patre, per babbiarlo gli aveva contato che la luna 'n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto.”
Undici anni sembrano passati anche per Salvo, che durante questa inchiesta comincia a essere turbato dall’idea di invecchiare, segno che Camilleri intende far avvertire i segni del tempo al suo personaggio, come Simenon con Maigret (che a un certo punto va in pensione). Il paragone con Maigret sembra estendibile anche ad altre caratteristiche della serie. Innanzitutto il “metodo” investigativo, non deduttivo ma psicologico, attento alle sensazioni a pelle e agli ambienti sociali. Poi, lo svelamento del privato del protagonista, seguito a mangiare e bere con gusto, sotto la doccia e sul letto. Quindi, il teatrino di comprimari ricorrenti e ben caratterizzati (Agatino Catarella, centralinista del commissariato, è una autentica macchietta). Lo scontroso dottor Pasquano, che esegue le autopsie, sembra corrispondere al dottor Moers del romanzi di Simenon, e lo stesso si può dire del magistrato Tommaseo paragonabile al giudice Ernest Coméliau. Va ricordato, a questo proposito, come Camilleri sia stato il delegato di produzione RAI dell’adattamento televisivo delle inchieste del commissario Maigret (1964-1972), interpretato da Gino Cervi.
Ci sono alcune similitudini fra il primo romanzo di Montalbano, “La forma dell’acqua”, e questo “La luna di carta”. Innanzitutto, la trama alquanto (eufemismo per parecchio) torbida: addirittura, i due cadaveri su cui si indaga vengono ritrovati entrambi con i pantaloni abbassati e i genitali esposti agli sguardi. Poi (e qui si perdoni il piccolo spoiler) i colpevoli degli omicidi non finiscono in prigione ma muoiono prima di essere arrestati, e Montalbano avalla versioni addomesticate nei sui rapporti ufficiali. Quindi, colpisce la quantità di donne seducenti e disinibite sulle cui caratteristiche Camilleri si compiace di indugiare, con apprezzamenti che oggi potrebbero sembrare sessisti, mettendo di continuo Salvo in condizione di sudare freddo e deglutire di frequente, cercando di non cedere alla tentazione in quanto ritiene di dover essere fedele alla sua compagna lontana (vive a Genova), Livia Burlando, di cui si parla poco. Le due donne principali de “La luna di carta” sono Elena e Michela, rispettivamente l’amante e la sorella di Angelo Pardo, informatore farmaceutico ed ex medico radiato dall’Ordine per aver praticato un aborto clandestino (peraltro su una ragazza da lui stesso messa incinta, e sottoposta all’intervento dopo essere stata sedata a tradimento). Pardo viene trovato ucciso a casa sua con un colpo di pistola in fronte e con una mutandina femminile in bocca. L’indagine di Montalbano si intreccia con quella dei suoi colleghi che si occupano di un traffico di droga, peraltro tagliata male al punto da causare vittime illustri tra i notabili locali. La soluzione del giallo è sorprendente quanto basta, la lettura stimolante e divertente per il susseguirsi di situazioni, i dialoghi interessanti e brillanti. Mi sono dispiaciuto, però, per le reiterate riflessioni giustizialiste (eufemismo per forcaiole) del protagonista, che probabilmente esprime le opinioni dell’autore, mentre dovrebbero valere la presunzione di innocenza e il dubbio pro reo.


mercoledì 23 luglio 2025

TATA'



Valérie Perrin
TATA’
Edizioni e/o
2024, brossura
608 pagine, 21 euro

Non tutte le ciambelle riescono col buco, e questo quarto romanzo della scrittrice francese Valérie Perrin (1967) è probabilmente quello che le è venuto un po’ più stortignaccolo. Il precedente, “Tre”, invece era decisamente bello: ne avevamo parlato in questo stesso blog.
Dicendo che “Tatà” delude le aspettative comunque va da sé che le aspettative erano alte, visto il talento dell’autrice e la sua abilità di costruire intrecci intriganti di pari passo alla caratterizzazione e all’approfondimento psicologico dei personaggi. La Perrin riesce, insomma, a dar vita a trame avvincenti con misteri da chiarire e ingegnosi colpi di scena senza che le si possa attribuire una etichetta di genere, raccontando di personaggi calati nella realtà della vita quotidiana e nei loro legami famigliari e amicali. Un equilibrio delicato che, però, con “Tatà” si è sbilanciato. Il desiderio di costruire un meccanismo in grado di sorprendere il lettore con impreviste rivelazioni che si susseguono la porta a dar vita a una architettura inutilmente complicata e difficile da credere. Lo stesso difetto di Joël Dicker ne “La verità sul caso Harry Quebert”,anche se, dal punto di vista della qualità della scrittura, la francese surclassa lo svizzero. 
Eppure l’inizio di “Tatà” è promettente:  Agnès, una regista cinematografica di successo che vive il personale dramma di una crisi coniugale, riceve la notizia della morte della zia Colette Septembre. Il fatto è che Colette era già stata dichiarata morta tre anni prima. Agnès si reca nel suo paese natale, a Gueugnon, una cittadina della Borgogna a nord della Francia, per indagare: dopo aver riconosciuto il cadavere della zia, defunta per cause naturali, serve scoprire chi è sepolto, dunque, al posto suo, nella tomba che reca il suo nome e perché la vecchietta abbia deciso di fingersi morta nascondendosi da tutti nei suoi ultimi anni di vita. Le indagini di Agnès ricostruiscono pezzo per pezzo la vita di Tatà Colette e, con la sua, quella dell’intera loro famiglia, dagli anni dell’occupazione nazista della Francia ai giorni nostri, ovvero quelli del romanzo, ambientato nel 2010 nella sua parte principale. Tutto ciò che la regista credeva di sapere sui genitori e i parenti viene rimesso in discussione, e la Perrin esplora la complessità dei legami famigliari, che vanno al di là dei vincoli biologici. Nell’intreccio trovano posto anche le figure di un gruppo di amici d’infanzia che Colette ritrova a Gueugnon, e che la aiutano nella ricerca della verità. L’indagine alterna vari piani temporali saltando di decennio in decennio e tornando indietro, e la narrazione viene affidata a voci diverse, perché attraverso alcune decine di audiocassette la stessa Tatà racconta (ma con una lentezza esasperante) gran parte di ciò che Agnès vuol sapere (se la regista le avesse ascoltate tutte di fila o se la zia, come sembrerebbe più logico, avesse spiegato tutto in una cassetta sola, facendola breve, la faccenda sarebbe stata più credibile. Oppure sarebbe bastata una lettera. Invece, Agnés si fa durare l’ascolto per tutto il romanzo arrivando all’ultima registrazione giusto in fondo al libro. Alla verità, che nella vita reale tutti vorrebbero sapere subito, si giunge in modo frammentato. Ed è poco convincente che la protagonista, di fronte alle cassette audio che potrebbero rivelargli tutto, pensi: “Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio”. La sospensione dell’incredulità nel lettore vacilla e viene messa a dura prova. 
Le perplessità aumentano quando ci viene presentatala figura di Blanche, che personalmente ho trovato indigesta e poco credibile. Come poco credibile sono i rapporti fra Blanche e suo padre e quelli fra Colette e sua madre, genitori degeneri decisamente sopra le righe. Soprattutto il papà di Blanche è davvero fuori registro, al punto da assomigliare allo Zalachenko padre di Lisbeth Salander nella saga di “Millennium” (lui sì, però, in grado di creare la suspension of disbelief). Il lettore apprende del perché Blanche debba nascondersi da un vecchietto novantenne e resta di stucco riflettendo sul fatto che sarebbe bastato rivolgersi alla polizia per risolvere ogni problema. Ma accadimenti tirati per i capelli si susseguono per tutto il romanzo e riguardano ogni personaggio: tra quelli più incredibili, l’improbabile storia d’amore fra un diciottenne campione di calcio e la già matura Colette, umile calzolaia – ma anche il matrimonio improvviso, interreligioso, tra un amico di Agnès e una ragazza conosciuta poche settimane prima, nel corso delle indagini. I buoni sentimenti e la correttezza politica imperversano, il potere salvifico dell’amicizia è la panacea di ogni male, il racconto è pieno di morali della favola e il guaio è che non si traggono, ci vengono spiegati.



lunedì 21 luglio 2025

IVANHOE

 
 


Walter Scott
IVANHOE
Rizzoli
1988, brossurato
544 pagine, 10.500 lire

Si dice che Walter Scott (1771-1832) sia stato il primo autore di bestseller appositamente costruiti per raggiungere il più vasto pubblico possibile. Benedetto Croce addirittura scrive che “nel trattare dello Scott conviene, in primo luogo, aver l’occhio all’ufficio sociale che egli ha adempiuto: ufficio che fu semplicemente quello di un produttore industriale, intento a fornire il mercato di oggetti dei quali era altrettanto viva la richiesta quanto legittimo il bisogno. Egli ebbe il genio dell’intrapresa industriale a ciò corrispondente”. “Intrapresa” che fu coronata da una straordinaria fortuna. Personalmente, nel giudizio crociano non ci vedo niente che svilisca l’autore, anzi, viva gli autori che scrivono per il loro pubblico. Si dice anche che Walter Scott abbia inventato, o perlomeno portato in auge, il romanzo storico, che, come nota il Carducci, “non ha nulla a che fare col romanzo cavalleresco e col poema romanzesco”. “Ivanhoe” (1819), la sua opera di maggior successo (ma si potrebbe citare anche “Rob Roy”) non ha per ambientazione un medioevo fantastico, ma si cala nella realtà dell’Inghilterra attorno al 1194, avendo per sfondo luoghi riconoscibili e per protagonisti alcuni personaggi storici (come Riccardo Cuor di Leone e suo fratello Giovanni). Non solo: Scott sceglie di affrontare un argomento spinoso come l’invasione dell’Inghilterra da parte dei Normanni che sottomettono i Sassoni. Lo fa, peraltro, cercando di documentare minuziosamente la sua ricostruzione delle usanze, degli abiti, degli stati d’animo dell’epoca, occupandosi anche di mettere a confronto le rivendicazioni degli sconfitti e le strategie politiche dei colonizzatori, ma anche gli scontri politici attorno alla rivendicazione della corona, rendendo parte del racconto anche le crociate. Prima di “Ivanhoe” lo scrittore, nato a Edimburgo, aveva scritto soltanto di cose scozzesi, e forti furono i suoi dubbi e i suoi timori allargandosi anche a quelle inglesi, al punto he inizialmente pubblicò la sua opera sotto lo pseudonimo di Laurence Templeton. Un’altra cosa ripetuta è che Alessandro Manzoni trasse proprio da Walter Scott la determinazione di scrivere anche lui un romanzo calato nella realtà storica, quella lombarda dei Seicento, “I promessi sposi”. Il Manzoni lo fa in modo diverso, più sofisticato e con intenti pedagogici, ma di certo dello scrittore scozzese dice: “il mondo aspettava ansiosamente e divorava avidamente i romanzi di Scott”, riconoscendogli anch’egli una valenza letteraria e culturale di primo piano, quella che si deve inevitabilmente a ogni autore che abbia la fortuna di essere ascoltato e avere influenza sui suoi lettori.  Tre cose che mi hanno colpito: la prima, rappresentazione (che non pare condivisa dal narratore) di un odioso antisemitismo, che si ritrova, per fare un esempio, anche nelle pagine di Dickens, ambientate nella Londra della prima metà dell’Ottocento, segno che il pregiudizio cristiano contro gli ebrei ha attraversato i secoli. La seconda: la presenza, fondamentale e tutt’altro che accessoria, di Robin Hood e della sua banda (Frate Tuc compreso), anche se all’arciere viene cambiato il nome in Locksley. Infine: “Ivanhoe” viene a torto considerato come un romanzo per ragazzi, forse per la componente avventurosa, le scene di battaglia, gli assalti al castello, i tornei cavallereschi, il mistero che circonda la figura il Cavaliere Nero che alla fine (spoiler) si rivela essere Riccardo Cuor di Leone tornato dalla Crociata. Tuttavia molti aspetti e contenuti del romanzo sono tutt’altro che destinati a lettori particolarmente giovani: i riferimenti storici e politici, la discriminazione verso gli ebrei e soprattutto verso la sfortunata Rebecca, l’odio fra Sassoni e Normanni che vede alla fine una possibilità di fusione tra i due popoli con il matrimonio (spoiler) fra Ivanhoe e Rowena e via dicendo. Il linguaggio di Walter Scott, anche nella versione integrale, resta piacevole da leggere nonostante certe prolissità dovute soprattutto alla minuzia delle descrizioni. Indimenticabili e ottimamente caratterizzati certi personaggi come il buffone Wamba, il servo Gurth, il castellano Cedric, lo sbruffone principe Giovanni, l’Eremita (Frate Tuc), l’usuraio Isaac, la vecchia e folle Urfrida, e i cattivi De Bracy, Bois-Guilbert e Front-de-Boeuf. “Ivanhoe” non sarà “I promessi sposi” ma ci si diverte a leggerlo.



sabato 19 luglio 2025

SHANGRI-LA



Alberto Becattini
Marco Ciardi
SHANGRI-LA
Carocci Editore
2025, brossura
142 pagine, 17 euro


“Il mito fra storia, arte e letteratura”, aggiunge il sottotitolo, inquadrando meglio l’argomento. Ma qualcosa in proposito ci dice anche il nome di uno dei due autori, quel Marco Ciardi (professore di Storia della Scienza presso l’Università di Firenze), che fra i tanti libri pubblicati ne annovera alcuni dedicati alla sterminata letteratura sulla mitologia atlantidea e altri sulla nascita di leggende quali quelle degli antichi astronauti e sulla vasta letteratura pseudoscientifica legata alla fantarcheologia, sempre tracciando precise ricostruzioni su come certe credenze siano nate e abbiano poi lasciato il segno nell’immaginario collettivo attraverso la letteratura, il cinema, i fumetti. Se nel caso di Atlantide il mito trae origine da racconti narrati fin dalla notte dei tempi e finiti negli scritti di Platone, lasciando il dubbio in qualcuno che qualche cosa di vero potesse esserci alla base, esaminando la vicenda di Shangri-La, invece, tutto dovrebbe essere molto chiaro: la città nascosta tra le montagne dell’Himalaya è stata immaginata da uno scrittore inglese James Hilton (1900-1954) in un romanzo del 1933 intitolato “Orizzonte perduto”. L’origine del mito potrebbe insomma essere paragonata a quella, altrettanto letteraria, della creatura di Frankenstein, dovuta alla penna di Mary Shelley nel 1818, argomento affrontato sempre da Marco Ciardi, con Pierluigi Gaspa, in un saggio intitolato “Frankenstein, il mito tra scienza e immaginario” (2018). Però, mentre del mostro della Shelley nessuno ha seriamente ipotizzato la reale esistenza, qualcuno ha invece sostenuto che Hilton abbia attinto a fonti reali e che Shangri-La potrebbe sorgere davvero là dove lo scrittore, documentatosi su libri di viaggiatori che hanno visitato il Tibet, ha indicato che si trovi. “Lost Horizon” è un romanzo che si inserisce nel fortunato filone dei “mondi perduti”, genere che vede tra i capostipiti il “Viaggio al centro della Terra” di Jules Verne (1864), “Le miniere di Re Salomone” di Henry Rider Haggard (1885) e “The Lost Word” di Arthur Conan Doyle (1912). Hilton immagina Shangri-La come una cittadella costruita, in una valle sconosciuta alle mappe ufficiali, attorno a un monastero tibetano, una vera e propria comunità utopica i cui abitanti sono dediti all’arte e alla filosofia e si sono dati il compito di preservare e tramandare le opere della cultura e della conoscenza della civiltà. Ci sono biblioteche, strumenti musicali, archivi di ogni tipo. Inoltre, a Shangri-La (il “La” significa “valico” e dunque segnala un passaggio tra il mondo reale e un universo parallelo) il tempo scorre più lentamente e non si invecchia, ma uscendone gli anni trascorsi fra nella valle incantata si recuperano tutti immediatamente. Il romanzo è ambientato nel 1931, e ha per protagonista un diplomatico inglese di nome Hugh Conway, il quale, insieme ad altri passeggeri di un aereo che sorvola l’Himalaya, viene coinvolto in un atterraggio di fortuna tra le nevi del Tibet, il cui impatto è abbastanza violento da provocare la morte del pilota. I naufraghi dell’aria, dopo aver disperato di salvarsi per le bufere e la temperatura estrema delle montagne tra cui sono finiti (privi anche di coordinate geografiche così come della possibilità di chiedere aiuto), vengono soccorsi dagli abitanti di Shangri-La che li accolgono nella loro città dotata di riscaldamento centralizzato e di tutti i comfort moderni, così come di terre fertili coltivate. Il romanzo, che risponde al desiderio universale di pace e alla speranza di progresso in anni difficili, ottiene un grande successo (non immediato ma a partire dall’edizione americana del 1934). Ciardi e Becattini raccontano poi con dovizia di particolari le traversie e le disavventure di Frank Capra nel realizzare il film “Orizzonte perduto”, uscito in una prima versione nel 1937, poi in una rielaborata nel 1942 e quindi in una più beve nel 1952. In ogni caso, l’adattamento cinematografico di Capra è solo il primo di una incredibile e lunghissima serie di film, radiodrammi, riduzioni teatrali e televisive, versioni a fumetti, composizioni musicali. Di ogni influenza lasciata nella cultura di massa da “Lost Horizon” nell’arte e nella fiction, Alberto Becattini (straordinario compilatore di bibliografie) dà conto da par suo, affiancando la disamina storico-letteraria fornita da Marco Ciardi (anche se è facile immaginare una sovrapposizione di ruoli tra i due). A me ha colpito molto scoprire come la residenza vacanziera del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, tra i boschi del Maryland, fosse stata da lui battezzata proprio “Shangri-La”, e soltanto in seguito (e un po’ ci dispiace) abbia cambiato nome in “Camp David”.




venerdì 13 giugno 2025

LE CONFESSIONI DI UN PECCATORE ELETTO

 

 
James Hogg
LE CONFESSIONI DI UN PECCATORE ELETTO
Alcatraz
2025, brossurato
326 pagine, 18 euro

Faccio subito mie le parole con cui Steve Sylvester inizia la sua postfazione: “Il primo a parlarmi di James Hogg fu… James Hogg. No, non il fantasma dello scrittore scozzese del Settecento, ma il suo omonimo discendente, un artista, mio caro amico. Oltre a condividere la passione per i fumetti e la musica rock, io e James abbiamo più volte collaborato nella stesura di testi di canzoni e fu proprio durante una di queste sessioni che mi parlò del suo avo.  La cosa intrigante è che i due non solo condividono lo stesso nome, ma confrontando i pochi ritratti esistenti del celebre antenato si assomigliano anche moltissimo. Ci sono tutti gli elementi per elaborare una trama da gothic novel sulla reincarnazione”. 
Lo stesso è accaduto a me: James Hogg, quello di oggi, è mio sodale da molti anni nella realizzazione di vignette umoristiche (tra cui quattro serie da portare avanti mensilmente per altrettante diverse pubblicazioni) di cui io scrivo i testi che lui illustra dimostrando un portentoso talento umoristico. Frequentandoci, mi ha invitato a consultare Wikipedia e scoprire cosa viene fuori digitando il suo nome. Detto fatto. Scopro così che James Hogg (1770-1835) è stato un poeta e scrittore scozzese. Non frequentò scuole e visse la sua giovinezza in povertà facendo il pastore (proprionel senso di guardiano di pecore), finché il suo datore di lavoro, notando gli sforzi di James per migliorare la propria condizione, lo aiutò a procurarsi dei libri e dopo che lo ebbe visto, da perfetto autodidatta, comporre poesie, lo presentò a Walter Scott, il celebre autore di “Ivanhoe”, che diventò suo amico e mentore. Nel 1801 Hogg pubblica la sua prima raccolta di versi, “Scottish Pastoral”. Dieci anni dopo, lo troviamo trasferito a Edimburgo: fonda riviste e diventa una presenza fissa nei circoli letterari della capitale scozzese, dove comunque le sue origini sono spesso oggetto di derisione.  Lo studioso James Barcus spiega: “Quel pastore era visto come un uomo dal talento potente e originale, ritenuto un genio, ma taluni pensavano che la carenza di una vera e propria educazione formale influisse in maniera negativa sul suo lavoro, ritenuto povero di tatto, cosa che lo aveva portato a parlare, nei suoi scritti, di argomenti ben poco accettabili nella buona società, come ad esempio la prostituzione”. La propensione del James Hogg settecentesco per i temi scabrosi, l’iconoclastia, la satira sociale pare giunta, per ereditarietà genetica, al pronipote novecentesco, che invece di scrivere poesie compone testi di canzoni e anziché pubblicare romanzi satireggia e anticlericaleggia attraverso le sue vignette, molte delle quali ospitate sul “Vernacoliere”. 
Il romanzo più celebre dell’Hogg scozzese è “Le confessioni di un peccatore eletto”, pubblicato nel 1824. Un recensore dell’epoca commenta: “L’impressione che questo libro ha lasciato nelle nostre menti è così spiacevole che vorremmo tanto non averlo letto”.  In anticipo sui tempi com’era, dell’opera di Hogg non si coglieva, da parte dei contemporanei, la valenza satirica e la denuncia degli estremi a cui può portare il fanatismo religioso e settario. Non solo: lo scrittore affrontava temi che altri, anni dopo, avrebbero cavalcato con successo, come quello del Doppelgänger, o del “doppio”. E’ facile riconoscere, con i nostri occhi di lettori di molto tempo dopo, l’anticipazione de “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde” (1886). Si può parlare de “Le confessioni di un peccatore eletto” anche come di uno dei primi romanzi gotici, un genere iniziato nel 1764 da Horace Walpole con “Il castello di Otranto” e che prevede storie in cui si mescolano pulsioni romantiche, soprannaturale e orrore. Tutti elementi che in effetti si ritrovano in Hogg e nel suo racconto di un giovane uomo, Robert Wringhim, educato da un padre fanatico religioso, a cui appare una figura diabolica, ingannatrice e mutaforma, nota come Gil-Martin, che vede soltanto lui. L’incontro avviene dopo che Robert si è convinto che egli è uno degli Eletti, un gruppo di persone predestinato per la salvezza (si noti il riferimento al calvinismo). Salvezza che otterrà accettando la guida di Gil-Martin, il quale, in una spirale di delirio e di follia, lo spinge a compiere omicidi per liberare il mondo dai peccatori, primi fra tutti il proprio padre e suo fratello. Il romanzo, edito da Alcatraz, reca una interessante prefazione di Max Baroni e si fregia di alcune illustrazioni di, indovinate un po’, James Hogg. Quello di oggi, beninteso.


giovedì 12 giugno 2025

BIBBIA RIDENS

 
 
 

 
 
Roberto Beretta
Elisabetta Broli
BIBBIA RIDENS
Piemme
2005, brossurato
152 pagine, 10 euro

Ho sempre sostenuto che il proverbio “scherza sui fanti e lascia stare i santi” non sia del tutto fondato, perché, secondo me, la maggior parte dei santi sono (in quanto saggi e illuminati) più spiritosi della maggior parte dei loro devoti. I martiri, poi, figuriamoci se non sanno accettare una battuta dopo aver sopportato il martirio. E poi, la verità è che l’umorismo è la cura e non la malattia. Non di rado la burla rivela la verità, o una delle tante, e infatti, come si sa, Arlecchino si confessò burlando. E per finire, a mettere paletti su ciò su cui si può scherzare si comincia dai santi e non si sa dove si finisce. La censura è sempre una sconfitta. Senza dubbio ci sono suscettibilità diverse, ma quella dei faceti dovrebbe valere quanto quella dei seriosi. Altrimenti i permalosi fanno le stragi nelle redazioni dei giornali umoristici, e invece di rispondere a una vignetta satirica con impugnando anche loro i pennarelli lo fanno imbracciando il mitra. Mi rendo conto di averla fatta troppo lunga, soprattutto per arrivare a parlare di un libro assolutamente innocuo come “Bibbia ridens”. Però, come autore dei testi di una serie pubblicata ogni mese sul “Vernacoliere” intitolata “La Bibbia secondo Burattini & Jogg” mi sento di parlare come Cicero pro domo mea. Per carità, assicuro che io e James Hogg siamo, o cerchiamo di essere, tutto fuorché blasfemi e ci concediamo solo spiritosaggini del tipo che Gesù bambino si allena ai miracoli moltiplicando i pesci rossi nella boccia di vetro o che Eva si fa una borsetta di pelle di serpente non resistendo alla tentazione. “Bibbia ridens” (da cui per il “Vernacoliere” non ho copiato nessuna battuta, almeno che mi sia accorto) propone contenuti eterogenei tutto sommato piuttosto annacquati, tant’è vero che l’editore è Piemme e i due autori sono uno un giornalista di “Avvenire” e l’altra una studiosa di teologia. Roberto Beretta e Elisabetta Broli raccolgono aforismi, battute e barzellette (testi scritti) alternandoli con alcune vignette (disegnate) di Emanuele Fucecchi, anch’egli diplomato in scienze religiose. Si comincia con il livello alto di Marcello Marchesi che chiede: “Dio, dammi un assegno della tua presenza!”, per poi adagiarsi su arguzie quali “Cosa dice Adamo quando vuol fare l’amore con Eva? Sfogliati!”. Ma anche: Noè vede che sull’arca c’è un pesce da solo senza la compagna, è il pesce sega (divertente, ma ci si chiede se sull’arca ci fossero anche i pesci, forse solo quelli di acqua salata). Aforismi di autori illustri e battute folgoranti di autori ignoti sono la parte migliore del libro, meno brillanti le barzellette, alcune delle quali forzatamente adattate ai riferimenti biblici. Una fra le cose migliori, i tre motivi per sostenere che Gesù fosse in realtà un portoricano: 1) si chiamava Jesus; 2) aveva guai con la legge; 3) sua madre non era sicura di chi fosse suo padre. La migliore barzelletta in assoluto, è quella iniziale sui due amici al bar: “Ieri sera ho visto in TV un bellissimo film: ‘La Bibbia’”, dice uno, e aggiunge: “Non sai se per caso è già uscito il libro?”.



 

martedì 10 giugno 2025

SOLO BAGAGLIO A MANO

 

 
Gabriele Romagnoli
SOLO BAGAGLIO A MANO
Feltrinelli
2017, brossurato
90 pagine, 9 euro

Più che leggere il libro (peraltro molto breve) sembra di ascoltare una conferenza, quella di un viaggiatore che ha viaggiato in 75 paesi di quattro continenti e vissuto in otto diverse città del mondo. Una conferenza sicuramente affascinante ma certamente non un saggio di psicologia basato su studi clinici o un manuale strutturato lungo un percorso compiuto. Il giornalista Gabriele Romagnoli (1960) salta di palo in frasca incuriosendo i suoi lettori raccontando aneddoti, ricordando avvenimenti, citando letture. L’intento, esposto nel primo capitolo, è questo: “trarrò qui alcune conclusioni dai miei viaggi e traslochi dandone per certa una e basta: cercate di portare soltanto il bagaglio a mano”. Del resto, viene citato un proverbio napoletano secondo il quale “l’ultimo vestito è senza tasche”. Viaggiare leggeri è una scelta di vita che impone di decidere quali sono le cose davvero importanti, e quali inutili zavorra. Il grande viaggiatore è quello con il piccolo bagaglio. Il consiglio è quello di sfrondare e ridurre all’essenziale persino la rubrica dei numeri salvati sul telefonino. Un esempio del vantaggio del resettare, liberare spazio, non accumulare il superfluo è dato dall’incubo che rappresenta per tutti l’esperienza di un trasloco: “il peggior trauma dopo un lutto”. Un trauma liberatorio, perché fa scoprire la quantità di cose inutili da cui siamo appesantiti. Possedere significa in realtà essere posseduti. Accumulare, secondo l’autore, è una malattia socialmente pericolosa. Persino riguardo ai ricordi: ricordare tutto fa male. A un certo punto Romagnoli arriva a paragonare il vantaggio dell’essere “maneggevole e veloce” alla necessità di rappresentare un bersaglio mobile sotto il tiro dei cecchini. Chi è più lento viene ucciso. Conta che nessuno e niente ci ancori. “Perché accettare situazioni o rapporti che ti impongono di essere ciò che non sei? Di un oggetto di valore, facile da reimmettere sul mercato, si dice: è un assegno circolare. Circolare, muoversi, scambiare, cambiare. Ne hai il diritto. Oggi se questo, sei qui. Domani potresti voler provare a essere un altro e altrove. Portando con te chi conta e quel che conta. O facendoti portare da loro, giacché tu per primo non devi essere una zavorra”. Del bagaglio a mano, però, deve far parte quello che Romagnoli chiama “Piano B”. Qualcosa che prevede una via d’uscita in caso di necessità. Fin qui, ho cercato di riferire il senso di “Solo bagaglio a mano” riducendo la valigia rappresentata dalla dissertazione a un borsellino per gli spiccioli, però credo che potrei scrivere un pamphlet lungo, ovviamente, il doppio in difesa della consolazione rappresentata dagli oggetti, dalle abitudini, dalle persone, dai libri che ci somigliano e di cui perciò tanti di noi si circondano. E’ vero che l’ultimo vestito è senza tasche, ma che bello averne tante in tutti quelli precedenti, da riempire di sassi e legnetti, figurine e spaghi.


martedì 20 maggio 2025

NERO: OSCURATO IL SOLE E SPENTE LE STELLE

 


Emiliano Mammucari
Matteo Mammucari
Alessio Avallone
NERO: OSCURATO IL SOLE E SPENTE LE STELLE
Sergio Bonelli Editore
2022, cartonato
80 pagine, 17 euro


“Una fortezza chiamata Tell Bashir esiste davvero e si trova a sud-ovest di Edessa. Era un nome troppo bello per abbandonarlo alle sabbie del tempo”. Così concludono la loro postfazione Emiliano e Matteo Mammucari, creatori della saga di Nero e sceneggiatori di questo secondo episodio, come del primo. Primo che era stato disegnato dal solo Emiliano, mentre il volume di cui vedete in alto la copertina porta la firma, per la parte grafica, del bravo Alessio Avallone, perfetto nell’inserirsi senza attriti di sorta in una narrazione già iniziata da altri. Della puntata precedente, intitolata “Così in terra” ci siamo già occupati in questo spazio: cliccate sul titolo per leggere la recensione che commenta l’inizio della saga.
Tell Bashir, dicevamo: un nome che soltanto a pronunciarlo evoca ciò che i disegni ci mostrano fin dalla seconda tavola, una fortezza araba nel deserto siriano, assediata dai franchi durante la terza Crociata e, apparentemente, destinata a cadere. Giova ribadire quel che avevamo segnalato in precedenza: la grande importanza della colorazione in supporto e valorizzazione dei disegni, proprio come strumento della narrazione (questo secondo episodio è colorato da Luca Saponti, già colorista del primo volume, e da Adele Matera); al contrario, la non importanza dell’aspetto religioso nella caratterizzazione degli eserciti in campo e degli eroi, tutti rivali fra loro o disposti ad allearsi, nonostante la fede, mossi da interessi e scopi personali, sulla scorta di avvenimenti del passato che continuano a guidare le loro scelte e le loro azioni. Il fatto che si parli di crociati e di musulmani non ha grande rilevanza, potrebbe trattarsi della guerra fra Sassoni e Normanni, o fra Mongoli e Cinesi, o fra Russi e Teutonici. “Oscurato il sole e spente le stelle” chiarisce meglio le caratteristiche dei personaggi. Nero, guerriero arabo ma cane sciolto, reca sulla fronte una cicatrice che ricorda un rito a cui fu sottoposto da bambino dal suo stesso padre che voleva immolarlo a un Djinn, un demone nascosto nella misteriosa Grotta del Sangue, rito che non finì bene e che l’indisciplinato eroe vorrebbe non si ripetesse mai più; lo Straniero, combattente cristiano disertore, segnato sul corpo a sua volta dagli artigli dello stesso demone, vuole invece che questi venga nuovamente evocato perché si metta al suo servizio; il Qadi, signore di Tell Bashir e zio di Nero, ritiene l’aiuto del Djinn l’unica speranza per salvare la sua fortezza; la Nizarita, una sorta di ninja musulmana, ha un conto aperto con Nero e lo vuole uccidere approfittando del trambusto. Tutti costoro si ritrovano alla Grotta del Sangue a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, e sembra che uno di loro abbia iniziato il rito...

domenica 18 maggio 2025

SCRIVERE LA STORIA



 
Simon Sebag Montefiore
SCRIVERE LA STORIA
Mondadori
2024, brossura
296 pagine


“Lettere che hanno cambiato il mondo”, promette il sottotitolo. E, in buona parte, il contenuto mantiene. Emozionante, per esempio, poter leggere la lettera scritta dal reverendo John Stevens Henslow a Charles Darwin, il 24 agosto 1831, con la quale il giovane naturalista viene informato di un posto libero a bordo del brigantino “Beagle” che di lì a poco sarebbe partito per un lungo viaggio di esplorazione attorno al mondo. Posto lasciato libero, per la cronaca, da Marmaduke Ramsay, designato in un primo momento ma inopinatamente morto durante i preparativi della spedizione. Henslow scrive: “Non accampate dubbi o timori dovuti a modestia riguardo le vostre qualifiche, mio caro Darwin, perché vi assicuro che vi considero proprio l’uomo che il capitano FitzRoy sta cercando”. Simon Sebag Montefiore (1965), scrittore e saggista britannico,  raccoglie una settantina di lettere private, rintracciate scartabellando libri e archivi di tutto il mondo e di tutte le epoche, scritte da personaggi quali, solo per citarne alcuni, Bolivar, Churchill, De Sade, Gandhi, Che Guevara, Flaubert, Kafka, Lenin, Lincoln, Machiavelli, Mao, Mozart, Michelangelo, Ramses, Solimano il Magnifico, Stalin, Truman, Wilde. Lettere private, cioè non destinate, quando vennero scritte, alla pubblicazione, dunque non documenti ufficiali ma messaggi che mettono a nudo le personalità, i sentimenti, i vizi, i gusti, il coraggio, la bontà, la saggezza ma anche la spietatezza o perfino la stupidità di figure storiche di cui ci è concesso scoprire aspetti sconosciuti e talvolta insospettabili. Tra i documenti raccolti da Montefiore, commentati uno per uno e inquadrati nel loro contesto, ce ne sono alcuni scritti originariamente in caratteri cuneiformi (come la lettera del re siriano Annurapi al sovrano di Cipro, risalente al 1190 avanti Cristo), altri vergati su papiro o su pergamena, infine su carta, in latino, inglese, arabo, russo, francese, tedesco, e altre lingue ancora. Di alcune lettere, come quella a Darwin citata in apertura, è chiaro il perché Montefiore ritenga che abbiano cambiato la Storia, al pari di quella di Lincoln a Grant scritta il 13 luglio 1863 o quella di Rosa Parks a Jessica Milford datata 26 febbraio 1956, in altri casi si fatica a capirlo ma tutto rientra nella logica secondo la quale lo scritto confidenziale trapelato e giunto fino a noi illumina di nuova o maggior luce l’intimo di un personaggio che nella Storia ha rivestito una qualche importanza. Molto curiose sono le missive, piuttosto numerose, in cui si parla di sesso, mentre altre ci meravigliano per come palpitano d’amore, etero o omosessuale (colpisce quella di Giacomo I al Duca di Buckingham, del 17 maggio 1620). Alcune lettere sono strazianti, scritte in punto di morte (Alan Turing a Norman Routledge, 1952; Franz Kafka a Max Brod, 1924;  Leonard Cohen a Marianne Ihlen, 2016), altre buffe e imbarazzanti (Mozart che racconta la sua gara di peti). Insomma, ogni lettera suscita sorpresa e interesse. Potrei citarle tutte, mi limiterò ad altre due scritte da personaggi che non conoscevo. La prima, quella di Manuela Sàez al marito James Thorne, datata 1823, in cui la coraggiosa donna ecuadoriana che fu amante (la più amata, forse, fra le tante) di Simon Bolivar, dice addio al consorte inglese che era stata costretta a sposare: “Ah! Io non vivo seguendo le convenzioni sociali inventate dagli uomini per recarsi mutuo tormento”. Ma soprattutto colpiscono le parole rivolte ai figli nel 961 da Abd al-Rahman III, governante arabo di al-Andalus, regno musulmano di Spagna: “Ho ormai regnato per più di cinquant’anni. Ricchezze e onori, potere e piaceri, tutto ho avuto di ciò che desideravo, e in apparenza nessuna fortuna terrena mi è mancata. In questa situazione, ho diligentemente conteggiato i giorni di pura e vera felicità di cui ho potuto godere: ammontano a quattordici!”.

 

martedì 13 maggio 2025

NERO: COSI’ IN TERRA

 
 

 
Emiliano Mammucari
Matteo Mammucari
NERO: COSI’ IN TERRA
Sergio Bonelli Editore
2021, cartonato
80 pagine, 17 euro

«“Nero” non parla di religione, non parla di guerre e non parla di culture contrapposte. “Nero” parla di demoni». Così concludono la loro introduzione al volume Emiliano e Matteo Mammucari, autori a quattro mani di soggetto e sceneggiatura. Il solo Emiliano, invece, si è occupato degli efficaci disegni, affidati alla colorazione di Luca Saponti. Un nome, quello di Saponti, che va assolutamente citato perché i colori, in questo racconto a fumetti, sono non soltanto spettacolari, ma parte integrante della storia. Colori che, finalmente, valorizzano ed esaltano le chine sottostanti, aggiungendo significato ed emozioni, oltre che atmosfera, sfondo e completamento. Così come merita una segnalazione l’originale lettering di Marina Sanfelice, studiato appositamente per “Nero”. Ma torniamo al fatto che Emiliano e Matteo Mammucari non intendono narrarci precisi eventi storici del 1173 accaduti fra la prima e la seconda crociata nella regione compresa fra Antiochia e Gerusalemme, e non vogliono, dunque schierarsi in favore degli infedeli rispetto a una fede piuttosto che a un’altra. Vogliono narrarci una fabula che usa uno sfondo bellico feroce e insanguinato per introdurci magia, avventura, mistero, personaggi ben caratterizzati che celano segreti legati a un passato i cui segni sono ben visibili sui loro corpi e nelle loro menti. Vogliono sorprenderci e intrigarci, insomma, e mi pare il migliore dei propositi. Peraltro, sembrano intenzionati a farlo usando un linguaggio chiaro, nei testi e nei disegni, senza aggiungere la difficoltà di decfrazione del narrato al mistero che aleggia sulle vicende. “Così in terra” è il primo volume di una serie Bonelli (ma inserita nella produzione Audace) che si preannuncia articolata, e presenta lo scenario: la Siria dell’anno dell’Egira 551. Siccome l’esodo da La Mecca verso Medina di Maometto e dei suoi seguaci avvenne nel 622 del calendario cristiano, siamo appunto nel 1173. I protagonisti sono principalmente due, un arabo chiamato Nero e un cristiano per il momento noto solo come lo Straniero. Il primo reca una cicatrice sulla fronte raffigurante uno strano simbolo, di cui il secondo sembra conoscere il significato. Lo Straniero è appunto in cerca di Nero, che riconosce per i segni sul volto, e che cattura per farsi condurre da lui nella misteriosa e arcana Grotta del Sangue. Fu là dentro che il padre di Nero incise con una lama la pelle del figlio. Si ignora lo scopo del rituale, perché lo Straniero conosca quei fatti, che cosa (di magico) si nasconde nella caverna, per quale motivo il cristiano la voglia raggiungere. L’irrompere sulla scena di una guerriera musulmana, Nizarita, rovescia la situazione: lo Straniero viene fatto prigioniero e condotto nella fortezza di Tell Bashir, che sta per cadere in mano crociata.



lunedì 12 maggio 2025

LA CORSA DEL LUPO

 
 
Gigi Simeoni
LA CORSA DEL LUPO
Sergio Bonelli Editore
2024, cartonato
340 pagine, 28 euro
 
Mi sono imbattuto in Gigi Simeoni, autore dal multiforme ingegno, agli inizi degli anni Novanta, ai tempi della Acme, quando (non ricordo più se su “Splatter” o su “Mostri”) pubblicava, testi e disegni suoi, le avventure umoristiche dello Zompi, una parodia straordinariamente comica (e straordinariamente horror) dei morti viventi di Romero. Siccome a mia volta ho cominciato con la Acme, si può dire che abbiamo mosso i primi passi insieme, professionalmente parlando. Solo che io, pur autodefinendomi “umorista” per un po’ di cosette fatte per il teatro, il “Vernacoliere”, Cico e qualcos’altro ancora, non so disegnare. Simeoni, invece, sì. E’ un eccellente sceneggiatore e un bravissimo illustratore. Ed è spassosissimo, nella vita reale e quando si cimenta su carta, come gagman, così come si dimostra talentuoso scrivendo testi avventurosi o drammatici, che è in grado di disegnarsi da solo così come di affidarli ad altri. La sintesi si compie su episodi di Dylan Dog come “Quel che resta di Barry”, scritto e disegnato dallo stesso Sime (così lo chiamano gli aficionados), in cui orrore e umorismo nero si fondono in maniera perfetta e Groucho è in forma come non mai. Tuttavia c’è anche un Gigi autore completo di graphic novel memorabili, come “Gli occhi e il buio” (2007) o come “Stria” (2011), in cui sono chiari il grande lavoro di documentazione e il livello colto della narrazione, ma anche il desiderio di offrire una fruizione alla portata di tutti o, come si diceva una volta, nel solco del “popolare d’autore”. Tutte caratteristiche che si ritrovano ne “La corsa del lupo”, una storia uscita originariamente nel 2019 sui numeri 76, 77 e 78 della collana bonelliana “Le Storie” (distribuita in edicola) e cinque anni dopo raccolta in unico volume cartonato. Il raccontoè  inserito nella realtà storica dell’occupazione nazista dell’Italia, della guerra di liberazione e della Resistenza, ma anche degli anni di poco successivi, arrivando a comprendere le attività dell’organizzazione Odessa e gli esordi della Mille Miglia. Protagonista in negativo un ufficiale tedesco, Hans Weissmann, soprannominato “Il Lupo”, incaricato dalle SS di dare la caccia a un cimelio storico, la corona di Re Erode, ritrovata a Gerusalemme nel 1931, ritenuta maledetta, finita nelle mani di trafficanti e naturalmente desiderata da Adolf Hitler, nel quadro del “nazismo magico” alla base anche del primo film di Indiana Jones. Protagonisti in positivo, un piccolo gruppo di partigiani che a loro volta cercano di vendicare le vittime dello spietato Weissmann. Se non fosse riduttivo, verrebbe da dire che il fumetto si gode come un film, perciò diciamo che ci sono film appartenenti allo stesso genere che non emozionano come “La corsa del lupo”. E le emozioni non nascono soltanto dalle scene adrenaliniche di combattimenti, corse in automobile, fughe e inseguimenti, ma anche dalla consapevolezza che molti elementi (le impiccagioni, le fucilazioni, i rastrellamenti, i tradimenti) sono parte della Storia con la “S” maiuscola”.

 

domenica 11 maggio 2025

LA NEVE ERA SPORCA

 
 

Georges Simenon
LA NEVE ERA SPORCA
Adelphi
2023, brossurato
270 pagine, 12 euro

Dove si svolge “La neve era sporca”? E in quali anni? A prima vista, siamo durante la Seconda Guerra Mondiale in una città occupata dai nazisti, forse in Francia o forse in Belgio, dato che l’autore, Georges Simenon (1903-1989), è nato a Liegi ma si è trasferito a Parigi poco più che ventenne (vivendo comunque in giro per il mondo per gran parte della sua vita). Quasi tutti a Parigi sono ambientati i romanzi del suo personaggio più famoso, il commissario Maigret. Qualcuno ipotizza che siamo in Olanda. Tuttavia, lo scrittore dichiara: “L’importante è che l’esercito di occupazione non sia riconoscibile, di modo che l’opera abbia un carattere universale. Anche se, a essere sincero, nella mia mente l’azione si svolge nell’Europa centrale, e precisamente durante l’occupazione russa. Ambienti e nomi sono quelli di una città austriaca o ceca.” Commentando un altro straordinario romanzo di Simenon, “Le finestre di fronte” (si può cliccare sul titolo per leggere la recensione), scritto negli anni Trenta, avevo segnalato come quella di Simenon fosse stata una delle prime voci ad aprire uno squarcio sulla realtà dell’URSS, descrivendone in modo incisivo le storture kafkiane. “La neige état sale” è del 1948, l’ordine mondiale è diverso, ma le storture sovietiche evidentemente, agli occhi dell’autore, restano le stesse. Kafkiana è del resto la detenzione del protagonista, il diciannovenne Frank Friedmaier, in un istituto scolastico trasformato dall’esercito occupante in un luogo di prigionia, di tortura e di esecuzione. 
Tuttavia non sono né la guerra, né l’occupazione nemica l’argomento principale della narrazione, a cui si limitano a dare un contesto, a giustificare il clima di alienazione e di povertà degli inquilini del casamento dove vive Frank e del contesto urbano circostante. Alla base dello straordinario romanzo di Simenon c’è il disagio pressoché psicotico del giovane Friedmaier, figlio senza padre della tenutaria di una casa di appuntamenti celata dietro l’apparenza di una attività di manicure, convinto che diventare adulto significhi superare prove di iniziazione che egli stesso si impone, soprattutto non provare empatia verso nessuno, giudicando ogni legame e ogni sentimento quali segni di debolezza. Il tipo di prove che lo illudono di essere un uomo sono uccidere senza motivo, per esempio, o attirare una ragazza innamorata di lui in una trappola per farla stuprare da un altro. Ma anche ostentare rotoli di banconote ricavate smerciando refurtiva, sfidando la sorte contro ogni prudenza, o maltrattare le donne che lavorano per la madre e la madre stessa, Lotte. Soprattutto, giudicare tutto senza importanza, provocare chiunque, desiderare che qualcosa succeda per poterla affrontare. Finché, gli occupanti lo imprigionano: Frank è convinto di potersela cavare sopportando qualunque tortura, beffandosi dei suoi carcerieri. Qualcosa però gli fa cambiare idea e rimpiangere una vita che avrebbe potuto avere se avesse capito prima. Simenon, con la sua scrittura priva di ogni magniloquenza, fatta di frasi brevi, “entra nella testa di questo personaggio al limite fra l’abiezione e una paradossale innocenza” (come si legge in quarta di copertina) e ci consegna una delle sue opere migliori.



venerdì 9 maggio 2025

LE VOCI DELL’ACQUA

 

 
 
Tiziano Sclavi
Werther Dell’Edera
LE VOCI DELL’ACQUA
Feltrinelli Comics
2019, brossurato
100 pagine, 16 euro

“La prima graphic novel firmata da Tiziano Sclavi”, recita la scritta in quarta di copertina. Non so se altri fumetti di Sclavi come “Là, nel selvaggio West” o “Roy Mann” possano essere considerati “graphic novel” precedenti, ma certamente “Le voci dell’acqua” lo è di più, perlomeno nell’accezione del termine che va per la maggiore. Allo stesso tempo, il volume illustrato da Werther Dell’Edera rispecchia, in ogni singola sequenza, la personale e disperata poetica, intrisa di umorismo nero, dello sceneggiatore pavese così come si è sempre manifestata dalla creazione di Dylan Dog in poi, ma con prodromi anche precedenti. Stravos, “perché è così che si chiama il nostro personaggio”, è l’unico senza ombrello in una città su cui piove sempre, e si muove fra gli altri che invece l’ombrello ce l’hanno e sembrano non accorgersi di niente, neppure dell’arrivo degli alieni. Lui invece sente le voci, ma “solo quando scorre l’acqua”. “Si chiama schizofrenia”, gli dice un amico neurologo. E aggiunge: “Non esistono veri farmaci per la schizofrenia, si usano gli antipsicotici, anche se con scarsi risultati”. Stravos getta la ricetta appena uscito dallo studio del medico, ma il mondo attorno a lui, quello che non sente le voci, non sembra meno psicotico di lui. Lungo il suo vagare senza un motivo (“continua ad andare in un ufficio nella compagnia di assicurazioni di cui è un impiegato, ma non sa perché lo fa”) incrocia personaggi anonimi che vanno incontro a destini assurdi, e sogna di sorvolarli osservando dall’alto “questo oscuro mondo d’angoscia, questo nero universo di dolore”. Stravos è evidentemente (in un racconto in cui però niente è evidente) vittima di un difetto dell’evoluzione: “sapere di dover morire è un tragico errore biologico che porterà inevitabilmente all’estinzione dell’umanità”. C’è chi si ripara sotto l’ombrello delle illusioni e crede alle promesse fatte per sempre, e chi disilluso capisce che “anche sempre ha una fine”. E’ questo che dicono le voci dell’acqua, forse.

 

mercoledì 7 maggio 2025

IL CUORE DI LOMBROSO

 


 
Davide Barzi
Francesco De Stena
IL CUORE DI LOMBROSO
Sergio Bonelli Editore
2021, cartonato
130 pagine, 20 euro

Impossibile, per parlare di questo libro, non partire da Umberto Eco e dal memorabile “Elogio di Franti”, contenuto nel suo “Diario Minimo” (1963), in cui il semiologo piemontese si diverte, ma con assoluta serietà, a esaminare le figure di alcuni personaggi del “Cuore” (1886) di De Amicis, ipotizzando cosa sarebbero diventati crescendo e rivalutando quella dell’ “infame” Franti. Secondo Eco, Derossi muore in guerra, coperto di medaglie, dopo essersi arruolato volontario; Votini spia per l’OVRA; Garrone fa il macchinista dei treni; Enrico è Senatore del Regno; Nobis è divenuto federale, e via dicendo.  Davide Barzi, nella sua postfazione, racconta di aver conosciuto i personaggi deamicisiani prima grazie alla versione a cartoni animati della Nippon Animation trasmessa in TV, in Italia, nei primi anni Ottanta, poi nel quasi contemporaneo adattamento televisivo di Luigi Comencini. Anche lui, come Eco, ci propone un flashforward sul futuro dei ragazzi di “Cuore”, che è ambientato nel 1882, e li immagina adulti una decina di anni dopo. Protagonista del racconto a fumetti, però, non è il maestro Perboni, il primo personaggio a entrare in scena, né Enrico Bottini, né Ernesto Derossi, né tutti gli altri, ma Cesare Lombroso (1835-1909) famoso (e forse anche un po’ famigerato) medico, antropologo e criminologo, noto soprattutto per certe teorie che non riuscì mai a dimostrare riguardo le comuni e determinanti caratteristiche anatomiche dei delinquenti, e purtroppo non altrettanto conosciuto (almeno dal grande pubblico) per altri studi che pure compì. Barzi non manca di mettere benevolmente alla berlina Lombroso per le sue convinzioni sulla fisiognomica ma, nel contempo, lo propone come animato da un profondo desiderio di conoscenza, non privo di una bonaria umanità, mosso da ideali di giustizia e, soprattutto, disposto a rischiare la pelle per risolvere un caso di omicidio. La vittima è Enrico, l’io narrante di “Cuore”. Le circostanze della morte lasciano intendere che qualcuno stia minacciando l’intera classe che fu del maestro Giulio Perboni, e dunque nel corso dell’indagini il professor Lombroso, che si è scelto come assistente e guardia del corpo il robusto Garrone, incontra quasi tutti gli ex alunni della Sezione Baretti, e perfino la “maestrina dalla penna rossa”, la Delcati, rivelando qual è stato il loro destino. Il tutto, ben inserito in una Torino di fine Ottocento ricostruita in maniera documentata e convincente dall’ottimo Francesco De Stena, abile anche nella recitazione dei personaggi e nei costumi che vengono loro messi addosso. Il racconto a fumetti venne pubblicato originariamente nel dicembre 2017 sul n° 63 della collana “Le Storie”, destinata alle edicole. Esiste un sequel molto ben riuscito, realizzato dagli stessi autori, e intitolato “Il naso di Lombroso”: ne abbiamo parlato anche in questo spazio(basta cliccare sul titolo per leggere la recensione). Ci siamo occupati pure di Edmondo De Amicis, e non a proposito di “Cuore” ma del suo “Amore e ginnastica” (anche in questo caso, c’è un link).