Elsa Morante
LA STORIA
Einaudi
1974
670 pagine in brossura
Ci sono libri che, nella vita, si devono rileggere più volte. “La Storia” di Elsa Morante, per quanto mi riguarda, è uno di questi. Dopo essermene innamorato negli anni del Liceo e averne conservato un vivido ricordo, l’ho ripreso in mano rinnovando le emozioni della prima lettura, aggiungendoci tutte le altre dovute all’esperienza e alla consapevolezza della maturità. Il romanzo risale al 1974 e uscì, per volontà dell’autrice, direttamente in edizione economica, nella collana in brossura “Gli struzzi” della Einaudi, così da raggiungere subito il pubblico più vasto possibile. Del resto, il racconto ha per protagonisti gli umili, i “piccoli” della citazione evangelica che apre il libro, la gente comune che fa la storia, perché, come canta anche De Gregori, “la Storia siamo noi”. Ambientato a Roma negli anni della Seconda Guerra Mondiale e nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione, il romanzo non narra quasi nulla delle battaglie e degli eventi bellici, ma descrive la vita delle borgate romane vista con gli occhi dei suoi abitanti, alle prese con i drammi della sopravvivenza quotidiana. Il quadro che ne viene fuori è drammatico ed emozionante. Del resto la Morante e suo marito Albero Moravia attraversarono davvero esperienze simili, e dunque la scrittrice attinge dal suo vissuto. “La Storia” segue principalmente le vicende di due protagonisti, la maestra elementare Ida Ramundo (vedova Mancuso) e di suo figlio Useppe (Giuseppe così come lo diceva lui), uno dei personaggi più belli in cui mi sia imbattuto nelle mie letture. Tuttavia, il racconto è anche corale perché popolato da decine di figure, dal primo figlio di Ida, Nino, all’anarchico ebreo Davide Segre, passando per tutta una serie di incontri ora significativi ora fuggevoli, compresi quelli con i tanti rappresentati della famiglia napoletana dei Mille (così soprannominati per il loro numero). Del coro fanno parte anche parecchi animali, dai due cani Blitz e Bella, al gatto Rossella, ai canarini Peppiniello e Peppiniella. Attraverso le vicende di Ida e Useppe, che subiscono il bombardamento della loro casa nel quartiere di San Lorenzo e vengono alloggiati in un ricovero di sfollati, abbiamo modo di scoprire il dramma della guerra visto dagli abitanti di Roma, sottoposti all’occupazione nazifascista, a rastrellamenti, a fucilazioni, a deportazioni, nell’attesa della liberazione da parte degli Americani che sembrano dover arrivare e non arrivano mai. Nino, cresciuto da Balilla, parte per la guerra ma, ribelle com’è, si dà alla macchia e passa nelle fila dei partigiani, e attraverso lui assistiamo anche alla ricostruzione della vita quotidiana dei combattenti nella Resistenza. Così come si era ribellato all’indottrinamento fascista, Nino si ribella anche a quello comunista impartitogli dai suoi compagni e rifiuta di sostituire l’icona del Duce con quella di Stalin, finendo, a guerra finita, a fare il contrabbandiere. Del tutto aliena a ogni discussione ideologica, Ida alle prime elezioni del Dopoguerra vota comunista perché glielo ha detto l’oste Remo, e perché non c’erano candidati anarchici (segretamente anarchico era stato suo padre), ma sul piano pratico la donna cerca soltanto di condurre la sua esistenza senza furori politici di nessun tipo, avendo come unico scopo quello di allevare il gracile Useppe, nato da una violenza sessuale usatale da un soldato tedesco nel 1941. Soldato inconsapevole di ciò che faceva e destinato a morire di lì a poco del tutto ignaro di aver donato i suoi occhi azzurri a un bambino che sarebbe nato nove mesi dopo. Ida è figlia di una madre ebrea, ma riesce a tenere nascosta la sua linea di sangue, vivendo però nel terrore di essere scoperta (e i suoi figli con lei) dopo la promulgazione delle leggi razziali. Uno dei passi più drammatici è quando la maestra si trova a passare accanto ai vagoni stipati di ebrei, vittime del rastrellamento del ghetto: assiste alla scena di una donna che, sfuggita per caso ai nazisti, va a cercare i suoi parenti chiusi sul treno che sta per partire per Auschwitz e, rintracciatili, vuole salire sul convoglio anche lei, mentre tutti i prigionieri la implorano di andarsene prima che tornino i tedeschi. Ma ogni capitolo presenta momenti drammatici e commoventi, sia che si racconti della lotta contro la fame, sia che si narri la sorte di un certo Giovanni morto congelato durante la ritirata di Russia, ricercato per anni dalla famiglia dopo essere stato per disperso, sia che si mostri il sangue scorso nelle lotte partigiane. Tragico lo scollamento sociale tra i reduci che tornano dopo aver combattuto credendo nel fascismo, partiti per la guerra certi della vittoria, e quelli che, disillusi già da tempo, non hanno pietà per gli arti mutilati di costoro e i dolori da loro patiti sul fronte. Annichilendosi progressivamente, Ida nutre con la propria vita il piccolo Useppe, mentre Nino, per fortuna, energico e volitivo, se la cava benissimo da solo. Infinite le pene da superare, fino alla fine della Guerra. Giungono gli anni della pace, e della scoperta dei campi di sterminio, delle stragi di civili e di partigiani, e anche questo periodo viene raccontato nella sua quotidianità, escludendo quasi del tutto il fronte della politica, gli accordi fra le Grandi Potenze, il processo di Norimberga. Vi si accenna, magari l’eco giunge per sentito dire dalla lettura di un giornale o dall’ascolto della radio o dai commenti al mercato. Si capisce che la Storia la si vive al piano terra, al livello delle strade, ed è fatta dalle vite delle persone comuni, anche se i libri si riempiono con i nomi dei capi di stato, e dei loro generali. E ci sono più chiari gli anni vissuti dai nostri nonni, quelli da cui è nata l’Italia Repubblicana. A pace tornata, non c’è il lieto fine. Non per Ida Ramundo, non per Nino, non per Useppe. Si piange sul finale. Elsa Morante usa una lingua tutta sua, che infarcisce con ninna nanne e cantilene per bambini, di canzoni cantate e suonate dal grammofono, e perfino con la trascrizione dei pensieri degli animali (la Storia è anche loro). Ci si fa l’orecchio anche quando congiuntivi e condizionali suonano strani. Stupisce, oggi, il ricordo delle polemiche che accompagnarono l’uscita del romanzo, polemiche frutto del perverso furore delle ideologie degli anni Settanta: da sinistra si contestò la mancata aderenza ai dogmi del leninismo (si pretendeva, e era accaduto anche con Vittorini, che gli intellettuali fossero inquadrati in una fede politica), mentre il quadro illustrato dalla Morante raccontava la vita com’era senza alcuna aderenza a un manifesto ideologico. Ecco perché rileggere adesso può essere utile.
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