martedì 28 ottobre 2025

CATTIVA FEDE

 


Ken Follett
CATTIVA FEDE
Edizioni Dehoniane
2017, brossurato
80 pagine, 7.50 euro

Non c’è bisogno di ricordare chi è il britannico Ken Follet (Cardiff, 1949), autore di best seller di fama internazionale. Però, suvvia, citiamo almeno “I pilastri della Terra”, il suo romanzo di maggior successo. C’è però bisogno di spiegare che cos’è questo libretto di poche decine di pagine, così poche rispetto alla mole dei volumi del resto della sua produzione. Il titolo della collana, “Lampi d’autore”, viene spiegato proprio dalla fulmineità dei testi presentati. Si tratta di un memoir pubblicato nell’autunno del 2016 sulla rivista inglese Granta, in un numero speciale di argomento religioso dedicato alla frammentazione settaria delle varie chiese protestanti. Ken Follett rievoca, non senza dolore, la sua infanzia trascorsa nella gabbia delle convinzioni della Plymouth Brethren, una fratellanza puritana per la quale il peccato poteva annidarsi letteralmente ovunque, confraternita di cui la famiglia dello scrittore faceva parte. Tutto nasce dall’istituzione della Chiesa anglicana da parte di Enrico VIII, nel 1534. Da questo scisma scaturirono decine di gruppi religiosi detti “non conformisti” in quanto, pur accettando la separazione dalla Chiesa cattolica, non si conformavano all’Atto di uniformità con cui nel 1662 si cercò di radunare il gregge disperso. Si creò una divisione tra “Chiesa alta” e “Chiesa bassa”, quest’ultima formata appunto dai dissidenti, frammentati fra loro in modo inverosimile. Presbiteriani, battisti, metodisti e calvinisti sono quelli più conosciuti. Tra le congregazioni più piccole c’è appunto la Plymouth Brethren, nata ai primi dell’Ottocento ma collegata alla tradizione dei Padri Pellegrini partiti per l’America a bordo della nave Mayflower nel 1620. A pochi anni dalla fondazione, già nel 1848 il gruppo si spacca in due: gli Open e gli Exclusive. Più aperti all’accoglienza i primi, rigidamente chiusi i secondi. Follett scrive di non essere a conoscenza di nessuna differenza fra i due rami a parte l’atteggiamento nell’ammettere chiunque alle proprie cerimonie o non ammettere nessuno che non facesse parte della comunità. La famiglia di Ken faceva parte degli Exclusive, per i quali una delle più temibili trasgressioni, fonte di perdizione, era entrare in una cappella degli Open. Guai poi soltanto a parlare con qualcuno dei rivali. La competizione fra le varie congregazioni anglicane è sempre stata feroce. Uno dei pezzi forti di “Cattiva fede” è il racconto che Follett fa di una barzelletta riguardante un gallese che dopo aver fatto naufragio su un’isola deserta costruisce due cappelle. Quando arrivano a salvarlo, gli chiedono a che serve la seconda e lui risponde: “E’ quella dove non vado”.  
Nessun dubbio che la Plymouth Brethren si possa definire una setta. Al piccolo Ken viene vietato l'andare al cinema, così come era esclusa ogni forma di divertimento, compreso l’ascolto della musica o la frequentazione di eventi sportivi. Nessuna possibilità di mettere in discussione l’autorità dei genitori e, in generale, quella degli anziani. Assillanti le letture della Bibbia e le funzioni religiose (tre durante la domenica), divieto di partecipare alla vita pubblica iscrivendosi a un partito o a un sindacato. Follett rimpiange soprattutto di non aver potuto diventare un boy scout. Non si poteva mangiare in compagnia di nessuno che non facesse parte del gruppo, né andare ai funerali di estranei. Insomma, il fanatismo più totale. Frequentando l’Università, dopo aver scelto filosofia nella speranza che gli studi potessero aiutarlo a superare i suoi dubbi sull’esistenza di Dio (“nessun dato di fede superò la prova dei criteri logici”), Follett diventa ateo, “un ateo arrabbiato”, perché non aveva potuto entrare nei boy scout”. Conclude lo scrittore: “Mi sono bastati tre anni per diventare ateo, ma ho speso il resto della vita per ritrovare una qualche forma di spiritualità”.  Dopo il testo tradotto da Alessandro Zaccuri (autore anche della prefazione), viene proposto il godibilissimo testo originale in inglese. 



lunedì 27 ottobre 2025

ZONA PROIBITA

 

 

Francis Bergese
Le avventure di Buck Danny
ZONA PROIBITA
fumetto - Alessandro Editore
Prima edizione 1998
cartonato - 50 pagine 

La cosa più interessante di questo albo è la quarta di copertina. Lì, finalmente, comprare la cronologia francese di Buck Danny confrontata con quella italiana e si può avere il quadro della situazione nel 1998. Che era la seguente: in Francia, Buck Danny ha avuto quattro team creativi, pubblicati in Italia da due diversi editori, la Cenisio e Alessandro. I team, fino alla collana di Alessandro Editore, erano stati: Hubinon & Charlier per i primi quaranta albi (la serie è stata creata da loro due con Georges Troisfontaines),  Bergese & Charlier dal 41 al 44, Bergese & De Douhet per il 45 e il solo Bergese per il 46 e il 47. “Zone Interdite” è appunto il quarantasettesimo. Attualmente i volumi sono arrivati a quota cinquantasette (e gli autori nel frattempo sono ancora cambiati). Jean-Michel Charlier, già creatore con Giraud di Blueberry, è stato il più prolifico sceneggiatore della collana, fin dalla prima avventura “Les Japs attaquent”, del 1948, pubblicata su “Spirou”. Dopo la sua scomparsa, il disegnatore Bergese, subentrato già nel 1979 dopo la precedente morte di Victor Hubinon, si scrive i testi da solo. In Italia, la Cenisio ha pubblicato i primi quaranta albi, quelli appunto di Hubinon, in ordine sparso e lasciandone ben dieci inediti. Alessandro Pastore ha rilevato i diritti del personaggio dalla gestione grafica di Bergese. In tempi più recenti la Panini ha dato alle stampe i volumi cartonati della collana "Buck Danny L'integrale", poi passati all'Editoriale Cosmo.
Buck Danny è un pilota di caccia dell’aviazione statunitense, eroe di guerra del Pacifico (le prime storie, con i giapponesi, le Tigri Volanti e le Midway son appunto “d’epoca”). A rigor di logica oggi dovrebbe essere in pensione, ma invece è sempre giovane e pimpante e continua a guidare i più sofisticati aerei in dotazione alle portaerei americane, peraltro in compagnia di un altro ben conservato personaggio, Sonny Tuckson, un piccoletto dai capelli rossi e dalla battuta facile, chiaramente ispirato a Mickey Rooney. La storia di “Zone Interdite” vede i nostri piloti inviati in missione uno stato centroamericano chiamato Managua, il cui governo è ritenuto amico degli USA. Le autorità, in cambio di aiuti economici e militari, si sono impegnati a combattere il traffico di droga che parte appunto dalle foreste del paese; però la droga managuense aumenta e sembra che esista un aeroporto ben attrezzato, con tanto di Mig pronti al decollo, al servizio dei trafficanti. Il governo nega che l’installazione faccia parte dei presidi dei loro militari, si tratta di controllare se stia mentendo o se i baroni della droga hanno un aeroporto privato; però non si possono mettere a rischio i rapporti fra i due Paesi. Per cui,  approfittando di un corso di istruzione che Buck e Sonny sono chiamati a fornire ai piloti locali, i nostri dovranno trovare il modo di sorvolare la zona dell’aeroporto. La zona però è proibita al volo perché, spiegano i managuensi, è in mano alla guerriglia. Buck Danny sorvola l’aeroporto con un piccolo aereo da turismo, e scopre che una organizzazione di trafficanti sta cercando di controllare i governi di tutti i piccoli stati dove si produce la droga e ha infiltrati ai vertici di parecchi Paesi, tra cui il Managua. L’avventura si interrompe e rimanda a un seguito, intitolato “Tuoni sulla Cordigliera”. I disegni di Bergese sono chiari, puliti, in linea perfetta con la tradizione, le scene in cui si vedono gli aerei sono le più curate. Certo, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta i ragazzini dovevano galvanizzarsi vedendo le scene con i velivoli militari in azione, oggi che i simulatori di volo sono in ogni computer il fascino è minore. Un po’ troppo tradizionali (senza violenza, senza sangue, senza sesso, senza pathos) le tavole scandite sulla rigida gabbia delle quattro strisce alla francese.


domenica 26 ottobre 2025

L'ASSASSINO


Georges Simenon
L’ASSASSINO
Adelphi
2011, brossurato
160 pagine, 16 euro

Ci sono voluti 76 anni prima che “L’assassino”, scritto da Georges Simenon nel 1935, venisse tradotto in italiano, nel 2011, grazie ad Adelphi. Ci sarebbe da chiedersi il perché, ma del resto la stessa sorte è toccata ad altre opere dello scrittore belga (1903-1989). In Francia, il romanzo è stato pubblicato da Gallimard nel 1937. Resta il fatto che si tratta di una delle più riuscite narrazioni del Simenon al di fuori della produzione dedicata al Commissario Maigret. Lo stesso autore, nel 1948, scrive del suo libro che “se non uno dei migliori, è uno dei più significativi, e ciascun oggetto è disperatamente al punto giusto”. Dato che il capolavoro di Simenon (capolavoro a mio avviso), “L’uomo che guardava passare i treni”, è del 1938, vien fatto di domandarsi se quest’ultimo romanzo non sia lo sviluppo, logico e conseguente, delle stesse tematiche del precedente: un uomo integerrimo che diventa un assassino, la volontà di fuga da una vita domestica intollerabile, il desiderio di rompere il cerchio della mediocrità quotidiana, la ribellione al giudizio della piccola gente, la disperata ricerca di un’autoaffermazione che sfugge di mano non appena la trappola della realtà e delle convenzioni sociali si richiude sulle dita protese di chi ha provato a raggiungerla e ad afferrarla. 
Le vicende si svolgono a Sneek, in Olanda (da notare che anche “L’uomo che passava i treni” ha un protagonista olandese), dove il metodico e abitudinario Hans Kuperus svolge l’attività di medico, conducendo una vita ordinaria. La sua unica ambizione è divenire presidente del circolo del biliardo. Da qui in poi, occhio allo spoiler, necessario per argomentare una conclusione. Un giorno una lettera anonima lo informa del tradimento di sua moglie Alice, che ha una relazione clandestina con il rivale regolarmente eletto alla presidenza del club al posto suo. Ci vuole un anno prima che Kuperus si decida. Poi, freddamente, meccanicamente, sorprende i due amanti e li uccide. Non ci sono testimoni. Non lascia prove. Si è costruito un alibi. Nessuno osa accusarlo, benché in molti sospettino. Kuperus si accorge, anzi, che molti lo temono. I soci del circolo del biliardo lo eleggono presidente senza che neppure si debba candidare. L’assassino si inebria, diventa spavaldo, gode nel rendere pubblica la relazione che instaura con la cameriera Neel, rompe le amicizie ipocrite, cioè quasi tutte. Sennonché, il duplice delitto commesso avrebbe potuto restare sottaciuto dalla comunità, ma non lo scandalo che egli dà. Viene isolato. Il medico comincia a precipitare nell’abisso allorché si accorge che comunque non può fuggire dalla gabbia, e si trova a scoprire quale piccolo, insignificante evento ci sia dietro la lettera anonima all’origine di tutto. E se quell’evento da nulla non si fosse verificato? Se la lettera non fosse stata spedita? Se tutto avesse continuato a scorrere nel tran tran di prima? Sarebbe stato meglio? La domanda resta senza risposta nella mente ormai obnubilata del medico di Sneek, giunto sul baratro dell’autodistruzione.




sabato 25 ottobre 2025

FRA TINO

 

Athos
FRA TINO
Sbam!
2021, brossurato
128 pagine, 12 euro

In occasione dei quaranta anni di Fra Tino sulle pagine del Giornalino prima e di Famiglia Cristiana poi (1982-2021), la benemerita Sbam! pubblica una raccolta di tavole autoconclusive (che nel corso del tempo hanno preso il posto delle prime strip) scelte dallo stesso autore, sia dei testi che dei disegni, Athos. Una appassionata introduzione di Roberto Orzetti spiega tutto ciò che c’è da sapere sul personaggio, il suo autore e sul perché di Fra Tino ci si debba innamorare. Io, che da parte mia ho parlato di Athos e del suo delicato fraticello recensendo “Il Natale di Fra Tino” (cliccate sul tutolo per leggere ciò che ho già detto), non posso che sottoscrivere il testo del prefatore e ripetere alcuni concetti già espressi e alcune notizie già date, cominciando da disegnatore, l’emiliano (ma milanese di adozione) Atos Careghi (classe 1939), in arte Athos, vignettista all’opera a partire dal 1951 anche su varie altre testate (da La Settimana Enigmistica alla Gazzetta dello Sport). Fra Tino è un personaggio a fumetti sui generis, perché le nuvolette che danno il nome, in Italia, al fumetto stesso, proprio non ci sono: le tavole, essenziali anche nel tratto, sono rigorosamente mute. Eppure ciò che raccontano, nella stessa maniera di un film senza sonoro o dello spettacolo di un mimo, è immediatamente comprensibile anche (e soprattutto) dai bambini a cui principalmente sembra rivolgersi il delicato autore. Sembra, perché poi la poesia delle immagini riesce a sorprendere e far sorridere anche i più grandi. Il protagonista è un candido fraticello pelato, che vive con un piccolo gruppo di confratelli in un convento in cui ognuno è dedito alle proprie mansioni ma dove uno dei divertimenti è giocarsi scherzi a vicenda e soprattutto giocarne a Fra Tino, forse il più giovane, che però riesce ogni volta a ribaltare la situazione. Il fraticello  colora i fiocchi di neve, vede il bello e il poetico in ogni cosa, ama ed è riamato dagli animali,come un novello San Francesco, però senza stigmate. Nonostante il saio indossato dai personaggi, non si nota un intento di propaganda religiosa o confessionale, ma è indubbio che le tavole di Athos, così solari e gioiose, solleticano la spiritualità e spingono a guardare con occhi incantati la realtà materiale. Una curiosità: in una postfazione di Fiorella Grandi si citano i nomi dei confratelli di Fra Tino, che sarebbero Fra Poco, Fra Tanto, Fra Inteso, Fra Stornato, Fra Cassone, Fra Gile e Fra Golino. Il dubbio è come si sappiano, questi appellativi, essendo le strisce di Athos del tutto mute. Azzardo un’ipotesi, che però nel volume non trova conferma: forse sono citati in qualche titolo dato a qualche tavola?



venerdì 24 ottobre 2025

RANGER E FUORILEGGE



 
Francangelo Scapolla
RANGER E FUORILEGGE
Il Melangolo
2023, brossura
144 pagine, 14.50 euro

“Le origini di Tex: 1948-49”, recita il sottotitolo, chiarendo l’identità del Ranger e del Fuorilegge evocati dal titolo e dalla sagoma nera sulla copertina gialla, colori del resto non scelti a caso. Tuttavia, la lettura del saggio di Francangelo Scapolla lascia francamente perplessi. Vediamo perché. Il minore dei problemi consiste nel fatto che da pagina 15 a pagina 129 viene semplicemente tracciato il riassunto in prosa delle avventure a fumetti contenute, come si legge, nei primi 59 albetti a striscia (definiti “fascicoli”) della saga di Aquila della Notte,  quelli pubblicati tra il 30 settembre 1948 e il 5 gennaio 1950. Tutto ciò è specificato nella “nota bibliografica” dove si dice che a mandarli in stampa fu la Sergio Bonelli Editore ma, in realtà, mi si perdoni la pedanteria, si trattò delle edizioni Audace. Tuttavia c’è un’altra inesattezza: si cita come “cinquantanovesimo” l’albetto conclusivo della storia con il Sindacato dell’Oppio. Ecco, “L’infernale battaglia” è il n° 5 della II Serie della “Collana del Tex”. La I Serie conta 60 “fascicoli” (da “Il totem misterioso” a “I sicari del drago”), quindi “L’infernale battaglia” è il sessantacinquesimo, e non il cinquantanovesimo. Ciliegina sulla torta, la nota bibliografica cita il Maxi Tex “Nueces Valley”, dell’ottobre 2017, e specifica: “Script: Gianluigi Bonelli; Art: Aurelio Galleppini”. Gli autori, in realtà, sono Mauro Boselli (testi) e Pasquale Del Vecchio (disegni). 
Annotando come 110 pagine su 135 del saggio di Scapolla contengono, in ultima analisi, soltanto un pur articolato e gradevole resumé della prima serie a striscia (più un pezzettino della seconda), intendo dire che soltanto in sei pagine, dalla 9 alla 14, si accenna en passant al contesto editoriale al momento storico e culturale in cui Tex mosse i primi passi, alle fonti di ispirazione cinematografiche, alla figura degli autori, con una sintetica disamina che non aggiunge nulla a quanto già si sa e viene spesso ripetuto. Nel riepilogo delle avventure si sottolineano brevemente frasi e circostanze che servono a descrivere il personaggio così com’era caratterizzato nelle primissime storie seguendolo nella sua iniziale evoluzione, mettendo in evidenza la tempra eccezionale dell’eroe, di cui si lodano a ogni passo la forza, il coraggio, l’abilità, l’intuizione: “le risorse di Tex sono infinite”. Stranamente, si citano le storie degli albetti a striscia senza riferire anche della serie gigante (in questo caso, l’avventura del Sindacato dell’Oppio si conclude a pagina 56 del n° 5, “Satania!”), come se l’autore volesse vestire i panni del purista, fedele custode della tradizione delle primissime origini, ostentando diffidenza verso tutto ciò che è venuto dopo. La sensazione viene confermata dalle affermazioni di Scapolla fa nei capitoli “Premessa”, “Conclusioni” e “Incongruenze”. 
Vale la pena di citare quanto scritto: “Questo saggio è rivolto soprattutto ai lettori di Tex del terzo millennio che hanno scarsa (o nulla) memoria del personaggio delle origini, quello coniato e sceneggiato da Gianluigi Bonelli nel 1948. La personalità di Tex si è modificata nei decenni, essenzialmente da quando i soggettisti successivi a Bonelli hanno iniziato a ideare le trame delle nuove avventure. E in questo percorso Tex ha subito modifiche anche sostanzialmente nell’atteggiamento, nella figura, nel modo di fare, di esprimersi, di rapportarsi col mondo esterno. E’ mutata anche la filosofia del ranger, che non si muove più come un lupo solitario, ma in sintonia con i suoi pards. Quello foggiato e modellato da Gianluigi Bonelli aveva un temperamento anarchico e libertario, che rispecchiava, in una certa misura, la personalità dello stesso Bonelli”. Sembra di capire che il Tex delle origini, il lupo solitario, abbia cambiato pelle, cessando di essere anarchico e libertario, per colpa degli sceneggiatori che hanno preso il posto di Gianluigi Bonelli (compreso, evidentemente, suo figlio Sergio). Si dimentica, forse, che fu lo stesso Gianluigi a creare il quartetto dei pards, facendo rinunciare Tex alla figura del ribelle solitario, facendolo addirittura sposare, diventare capotribù e accettare l’incarico di agente indiano. L’ultima storia scritta da Bonelli senior è data 1991: ha sceneggiato le avventure del suo eroe per oltre quarant’anni. Inevitabilmente c’è stata un’evoluzione “nell’atteggiamento, nella figura, nel modo di fare, di esprimersi, di rapportarsi col mondo esterno”, e anche la filosofia del ranger, ma ciò è avvenuto per mano del creatore del personaggio. Si potrebbe persino sostenere che ciò che gli autori dei testi dal 1991 in poi hanno modificato molto meno dei cambiamenti operati da Gianluigi Bonelli.
Scapolla aggiunge: “Esistono pure incongruenze temporali: i lettori del terzo millennio sono convinti, ad esempio, che Tex sia nato nel 1838, e di conseguenza alcuni eventi importanti hanno subito uno slittamento e uno sfasamento impropri in rapporto alla reale età di Tex, come ad esempio la guerra di secessione americana”. Altra ciliegina: “I fatti che Bonelli aveva descritto sconfessano quelle ipotesi”. Dunque si ritiene che in presenza di incongruenze temporali facciano testo le indicazioni di Gianluigi, e si rinnega come anatema la data del 1838 come anno di nascita di Tex stabilita da Mauro Boselli e tenuta come punto fermo alla base della documentatissima collana “Tex Willer” varata con grande successo nel 2018. 
Qual è, dunque, la datazione proposta da Scapolla? A pagina 140 troviamo la risposta: “dovrebbe essere nato nel 1813/1814”. Per giustificare questa convinzione, il saggista spiega: “Nell’albo ‘Nueces Valley’, pubblicato nel Maxi Tex il 16 ottobre 2017, apprendiamo che Tex sarebbe nato nel 1838, e questa data è inverosimile, in quanto all’inizio della guerra civile (1861) avrebbe 23 anni, mentre secondo la versione di Bonelli e Galep ha già un figlio dell’età di Kit, quindi dovrebbe averne poco più del doppio”.  Ora, chiediamoci: a quale età di Kit si riferisce il dotto saggista? Indubbiamente a quella che dimostra nella storia in cui figura il generale Quantrell, datata 1955 (identifichiamola con il titolo “La traccia di sangue”, quello dell’albo a striscia n° 7 della Serie Smeraldo), in cui compaiono sudisti e nordisti ed è chiaramente in corso la Guerra di Secessione (la si ritrova sul Tex Gigante n° 24). In quella circostanza, Kit Willer dimostra diciotto anni (ma ha poca importanza: effettivamente c’è e sa tenere la pistola in pugno). Scapolla sembra però dimenticare che esiste un’altra avventura, sempre firmata da Bonelli senior e Galleppini, più matura e meglio circostanziata, “Tra due bandiere” (Tex Gigante n° 113, marzo 1970), in cui Aquila della Notte narra ai pards le sue avventure nella guerra tra Nord e Sud, e non solo il figlio si meraviglia di non saperne niente, ma il padre racconta fatti avvenuti durante la propria gioventù, quando faceva ancora il mandriano e Kit non era nato. 
Dunque esistono due versioni date dallo stesso creatore del personaggio, e poiché la seconda giunge dopo a correggere la prima, si deve dar credito a quest’ultima. Scapolla non lo fa perché, evidentemente, ritiene fonte di verità e oro colato solo ciò che compare sui “fascicoli” a striscia. Riguardo all’anno di nascita di Tex stabilito da Boselli, il saggista aggiunge: “E’ più che comprensibile che l’avvicendarsi di nuovi soggettisti in un arco di tempo tanto ampio possa aver ‘annebbiato’ il ricordo di tanti elementi basilari, scelti e inseriti da Gianluigi Bonelli”. Ma allora pare dunque che il primo “annebbiato” sia lo stesso Bonelli, che nel 1970 non ricorda, secondo il saggista, quel che di basilare aveva scritto nel 1955. Lascio tuttavia rispondere a Luca Raffaelli, che affronta il problema nel suo articolo “Un Eroe contro la Guerra” che fa da introduzione al volume n° 52 della Collezione Storica a Colori di Repubblica, dove leggiamo che “si può pensare che Bonelli abbia potuto dimenticare gli accenni alla Guerra di Secessione scritti anni prima. Ma sembra più interessante immaginare che da quelli siano nate idee che era giusto sviluppare nel momento in cui il suo personaggio avesse raggiunto la più alta maturità”. Scapolla elenca alcune altre incongruenze temporali, sempre sostenendo la tesi che facciano fede le storie delle origini, scordando però i tanti anacronismi rintracciabili proprio nelle prime avventure, a partire dalle vignette in cui compare addirittura un’automobile, una Ford T, che è stata fabbricata soltanto nel 1908. Gli esempi potrebbero sprecarsi. Ritenere attendibili, precisi e soprattutto coerenti i riferimenti storici riscontrabili nelle strisce di Tex è come credere che la Bibbia riferisca nel libro della Genesi gli esatti avvenimenti che portarono alla creazione del mondo. In un articolo sul sito “Lo Spazio Bianco” leggiamo: “All’epoca si scriveva di getto e i lettori non si facevano troppe domande: era bello così. Oggi gli sceneggiatori non se lo possono più permettere: devono essere più cauti, e valutare bene quali fatti storici far vivere al ranger e ai suoi pards”. Gianluigi Bonelli, come tutti o quasi gli sceneggiatori di fumetti degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, davano priorità all’avventura piuttosto che alla documentazione, che di certo non era neppure così facile da reperire come oggi. Per risolvere le incongruenze e le contraddizioni in cui si inciampa nelle prime storie di Tex, Mauro Boselli ha fatto e sta facendo i salti mortali, ed è riuscito a sanare gran parte delle difficoltà e delle aporie, restituendo al personaggio con la serie “Tex Willer” (quella dedicata al Tex ventenne) non soltanto una coerenza logica e cronologica così come una aderenza ai fatti storici, ma anche (udite udite) il primitivo spirito anarchico e libertario, e la sua caratteristica di lupo solitario. 



giovedì 23 ottobre 2025

L’ORIZZONTE DELLA NOTTE

 
 
Gianrico Carofiglio
L'ORIZZONTE DELLA NOTTE 
Einaudi
2024, brossurato
284 pagine, 18.50 euro

Chissà se i gialli di Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) si possono definire “police procedural”, e chissà se l’autore sarebbe d’accordo. Con la competenza che gli deriva dall’essere un ex magistrato, Carofiglio racconta le indagini del suo personaggio più fortunato, l’avvocato Guido Guerrieri, spiegandone mosse in ambito giudiziario, nei corridoi e nelle aule dei palazzi di giustizia o nelle sale riservate ai colloqui con i detenuti nelle carceri, in modo dettagliato e ben documentato, a vantaggio del coinvolgimento del lettore nelle vicende. 
Di Carofiglio e di Guerrieri abbiamo parlato in altre occasioni, una delle quali è la recensione de "La regola dell'equilibrio", che potete trovare cliccando qui
Per giustificare l’etichetta di “procedural” serve, a questo punto, citare lo scrittore Ed McBain il quale, nel 1956, con un romanzo intitolato “L’assassino ha lasciato la firma” inaugurò la serie dell’87° Distretto, che avrebbe finito per contare una sessantina di titoli. Una serie che cominciò a dipanarsi dopo che l’autore ebbe visitato le sale-agenti dei Dipartimenti di polizia, i tribunali, i laboratori della scientifica, le stanze dei confronti all’americana, il carcere di S. Quintino: il lettore che ne segue gli episodi trova riprodotti sulle pagine addirittura i fac-simile dei moduli e degli stampati in uso presso le Centrali, i bloc-notes dei poliziotti, le fotografie degli schedari. E le indagini vengono seguite passo dopo passo lungo l’itinerario di ricerche e di interrogatori tipico degli investigatori delle grandi città americane. Prima di McBain c’erano stati anche (pochi) altri che avevano scritto “police procedural” ma soltanto con l’87° Distretto protagonista dei romanzi non è più solo un investigatore, ma un’intera squadra di poliziotti, ognuno con le proprie caratteristiche, i propri pregi e  difetti. 
Di uno di questi romanzi, “Allarme: arriva la madama” potete leggere la mia recensione cliccando sul titolo.
Le pagine di McBain sono popolate di personaggi vivi, problematici, coinvolgenti, dotati di un tale spessore psicologico da far sembrare fredde pedine di una scacchiera i protagonisti dei gialli di Agatha Christie nei suoi gialli. “Sono del parere che le uniche persone qualificate per trattare con i criminali sono i poliziotti”, dichiara McBain in una intervista. “Nella realtà, se un investigatore privato trova un cadavere chiama subito la polizia. Gli investigatori privati si occupano di mariti infedeli. Gli investigatori delle compagnie di assicurazione si trovano raramente coinvolti in omicidio. E sicuramente le vecchie signore che vivono in una casa di campagna in Inghilterra non ci si trovano mai coinvolte”. Ecco, mi pare che Carofiglio sia della stessa idea, dato che Guido Guerrieri non è un investigatore privato ma un avvocato (dunque un addetto ai lavori), e dato che lo scrittore ha al suo attivo un’altra serie gialla dedicata a Pietro Fenoglio, maresciallo dei carabinieri, che conta finora tre romanzi (tra cui “L’estate fredda”, recensito su questo blog).
Da notare che anche Ed McBain è autore di una serie con protagonista un avvocato, Matthew Hope, che conta tredici titoli. “L’orizzonte della notte” è invece il settimo romanzo con Guido Guerrieri, legale barese dalla vita tormentata e dalle troppe elucubrazioni esistenziali. Il personaggio, peraltro, va dallo psicanalista Carnelutti nel cui studio si lascia andare in divagazioni filosofiche e letterarie, è caduto in una depressione che neppure il lavoro e la sua sacca da pugilato riescono ad alleviare. E’ invecchiato, dice di aver paura della morte e giunto alla soglia dei sessant’anni, per di più,  viene lasciato dalla fidanzata Annapaola, mentre la sua storica ex, Margherita, muore in seguito a una grave malattia. Il caso di cui Guido è chiamato a occuparsi, coinvolto dal suo più caro amico, Ottavio, gestore dell'Osteria del Caffellatte, una libreria “notturna”, riguarda Elvira Castell, affascinante e inquietante al tempo stesso, accusata di aver ucciso l'ex cognato Giovanni Petacci, ritenuto dalla donna responsabile del suicidio della sorella gemella Elena, che dal marito era stalkerizzata. Elvira non nega di aver sparato, ma afferma che si è trattato di un omicidio accidentale avvenuto durante un litigio, per legittima difesa. Il punto da dirimere è appunto questo: la Castell ha premeditato o no il suo gesto? Ci sono altri interessi in ballo, come l’eredità dei beni di Elena, o davvero alla base del delitto si possono individuare soltanto i rapporti tesi fra Elvira e il Petacci, sicuramente un violento? I dubbi sono tanti, l’atteggiamento dell’imputata è ondivago e a tratti irrazionale, tuttavia Guerrieri svolge in modo impeccabile le indagini e la difesa. Il finale è amaro, coerentemente con il sottotono della narrazione, più malinconica e meno brillante del solito, in ragione delle inquietudini del protagonista che comincia a meditare di lasciare l’avvocatura. Dispiace un po’ questa evoluzione-involuzione di un personaggio in crisi per scelta dell’autore, il quale continua però a dare sfoggio di stile, con la sua scrittura limpida, e incantevolmente essenziale e profonda al tempo stesso.


mercoledì 22 ottobre 2025

LE COPERTINE PERDUTE DI ZAGOR




Alessandro Piccinelli
LE COPERTINE PERDUTE DI ZAGOR
Sergio Bonelli Editore
2025, brossura
100 pagine, 29.90
Tiratura limitata (999 copie)

Alessandro Piccinelli è un copertinista di straordinario talento ormai entrato nel cuore dei lettori e  sono felicissimo di averlo proposto come prosecutore dell’opera di Gallieno Ferri riguardo le cover. Partiamo dal presupposto che Ferri è stato autore di copertine memorabili, che hanno scandito e segnato per oltre cinquant’anni la vita di generazioni di lettori. Qualunque sostituto avessimo scelto non avrebbe potuto essere all’altezza del maestro, agli occhi di lettori che da sempre identificano Zagor con la versione grafica data dal grande e inarrivabile ligure. Nel 2016, con la scomparsa di Gallieno, è stato necessario però sodstituirlo. Tra i disegnatori dello staff zagoriano c’erano sicuramente dei validi papabili, da Marco Torricelli (quello attivo da più tempo) a Joevito Nuccio, da Michele Rubini a Marco Verni, da Raffaele Della Monica agli Esposito Bros (e qui mi fermo per non citarli tutti). Qualunque nome fosse stato scelto avrebbe avuto dei tifosi pro e dei tifosi contro (e si sa che in genere è più facile criticare che trovarsi d’accordo). Il nodo principale da sciogliere era: vogliamo un copertinista che “assomigli” a Ferri, o qualcuno che faccia proposte di tipo diverso? Si ripeteva il dilemma del sostituto di Galep alle copertine di Tex: in quel caso fu scelto un giovane, Claudio Villa, che sicuramente rappresentava una svolta innovativa. Però il pubblico texiano è molto più abituato di quello zagoriano ad accettare interpretazioni diverse del personaggio da parte di disegnatori dagli stili più disparati. Quando si trattò di riunirci in redazione (io, il direttore, l’editore, il caporedattore) per stabilire il sostituto di Ferri, espressi tutte queste considerazioni e proposi la mia soluzione. I miei argomenti furono questi: primo, scegliere un outsider e non un disegnatore dello staff, in modo da non creare dissapori e rivalità; secondo, optare per qualcuno in grado di offrire una versione di Zagor più moderna ma non troppo moderna, che sapesse rinfrescare e innovare ma nel rispetto della tradizione; terzo, selezionare comunque un autore che per indole, carattere, passione conoscesse bene Zagor e la bonellità e il fandom bonelliano; quarto, affidarci a qualcuno con un forte senso della copertina, in grado di indovinare pose e situazioni da raffigurare. Ciò detto, mostrai tutta una serie di illustrazioni zagoriane realizzate da Piccinelli negli anni precedenti, per commission, quali regali agli amici, per portfolio, per pubblicazioni amatoriali. I partecipanti alla riunione non ebbero il minimo dubbio, nessuno avanzò controproposte, Alessandro Piccinelli venne immediatamente scelto. Dal 2016 a tutto il 2025 ho seguito, come curatore dello Spirito con la Scure, l’elaborazione di tutte le (tante) copertine richieste ogni anno dalle (tante) testate legate al Re di Darkwood, parlando con lui dell’argomento dei singoli albi, inviandogli le storie in visione, a volte suggerendo qualche soluzione o qualche aggiustamento di tiro, ma sempre trovandomi poi di fronte a tre, quattro ma anche cinque bozzetti: le proposte di Alessandro. Bozzetti peraltro molto definiti, come si può vedere sfogliando il volume “Le copertine perdute di Zagor”, talora tutti così belli da mettere in difficoltà me e Michele Masiero (il direttore editoriale, a cui spetta l’ultima parola) nell’operare una scelta. Dieci anni dopo l’esordio come cover man, ecco raccolti in volumi un centinaio di bozzetti a malincuore scartati, che volevamo non tenere soltanto per noi ma far ammirare a tutti (parlo al plurale, ma in questa iniziativa ho solo il merito della proposta, poi il curatore del libro è Luca Crovi e c’è anche lo zampino di Luca Del Savio). Precede l’antologia una interessante intervista a Piccinelli che dimostra tutta la passione per Zagor e per il suo lavoro, e che mi ha commosso nella risposta alla domanda: “Come ti sei sentito quando Moreno Burattini ti ha dato la notizia che eri stato scelto come nuovo copertinista di Zagor?”. Ricordo la sua emozione, ma anche la mia. 



martedì 21 ottobre 2025

L’ISOLA DEGLI IDEALISTI

 
 

Giorgio Scerbanenco
L’ISOLA DEGLI IDEALISTI
La nave di Teseo
2018, brossurato
230 pagine, 17 euro

Di fronte a piccoli capolavori come “L’isola degli idealisti”, e l’aggettivo “piccolo” è soltanto prudenziale, vien fatto di chiedere quanti altri gioielli inediti di Giorgio Scerbanenco (1911-1969), nascondano gli archivi. Infatti, questo straordinario romanzo è riemerso dopo oltre settantacinque anni dalla sua stesura, avvenuta tra il 1942 e il 1943 all’albergo Toledo sul lago d’Iseo, dove lo scrittore si era ritirato per poter lavorare (collaborava con diverse testate) al riparo dai bombardamenti che bersagliavano Milano, poco prima di fuggire in Svizzera (come fece anche Giovanni Luigi Bonelli, un altro milanese macinatore di trame). Cecilia Scerbanenco, nella sua prefazione, commentando il ritrovamento dell’opera e le poche notizie che riguardano la sua mancata pubblicazione dopo l’effettiva consegna alla stampa, si dice convinta che fosse stata commissionata dal “Corriere della Sera” per la pubblicazione a puntate (trenta, secondo un appunto dell’autore). Alcuni titoli andarono dispersi, “smarriti nel caos scatenatosi in tutta Italia dopo l’8 settembre del 1943”, spiega la prefatrice.  “Una macchina per scrivere storie”, così Oreste del Buono definiva Scerbanenco, narratore “in grado di scrivere quattro o cinque novelle, di mandare avanti due puntate di romanzi, di tenere due o tre rubriche di corrispondenza e di buttar giù, sempre nella stessa, unica settimana, un numero imprecisato di pezzi e pezzetti necessari al completamento di questa o quella testata”. Il corpus di romanzi e racconti dello scrittore ucraino naturalizzato milanese è sterminato e comprende opere dei generi più diversi  (fantascienza, rosa, giallo, western), anche se la vera popolarità gli venne, un po’ tardiva, con il ciclo noir dedicato al personaggio, un medico radiato dall’Albo per aver praticato una eutanasia, Duca Lamberti. Di Scerbanenco e della sua vita avventurosa abbiamo già parlato recensendo “Venere privata” (potete cliccare sul titolo per saperne di più).
Lo spunto de “L’isola degli idealisti” è brillante e originale: sull’Isola della Ginestra, un piccolo scoglio in mezzo a un non precisato lago, vive placidamente, intorno agli anni Trenta, la famiglia (decisamente benestante) del bizzarro Celestino Reffi, medico non praticante con la passione per la matematica e per gli esperimenti insoliti (come riuscire a far contare il cane di casa), composta, oltre che da lui, da sua sorella Carla, scrittrice sena successo e dal loro padre Antonio, otorinolaringoiatra in pensione, dai cugini spiantati Vittorio Bras e da sua moglie Jole, dall’alano Pangloss e dalla servitù, tra cui spicca il custode Marengadi. La tranquillità della villa abbarbicata sullo scoglio è infranta, una sera, dall’irruzione di due ladri d’albergo, Guido e Beatrice, braccati dalle forze dell’ordine, che chiedono di venire nascosti per la notte e di poter riprendere la fuga il mattino successivo. Celestino accetta di dare loro asilo a patto che si trattengano sull’isola dove lui si occuperà di educarli all’onestà: se ne andranno solo se diventeranno persone per bene. Un altro dei singolari esperimenti del giovane Reffi, agli occhi degli altri famigliari, che ne prevedono l’inevitabile fallimento ma non si oppongono. Il susseguirsi degli avvenimenti non è però tanto facilmente immaginabile e i colpi di scena si susseguono. Magistrale Scerbanenco nel caratterizzare ciascuno dei personaggi e nel farli muovere in modo imprevedibile, fino a rovesciare i pronostici.


lunedì 20 ottobre 2025

TEX, LE ORIGINI DEL MITO

 


 

 

Massimo Capalbo
TEX, LE ORIGINI DEL MITO
VOLUME 1
Amazon
2025, brossurato
230 pagine, p.n.i.

 
Parlando di fumetti, ci sono appassionati più appassionati degli altri. No, detta così è l’affermazione è sbagliata, riproviamo: ci sono appassionati che manifestano la loro passione in modo più sorprendente di altri, che magari la coltivano in solitaria nel chiuso della propria cameretta. Ci sono quelli che animano forum e gruppi di discussione, quelli che fondano dei club, quelli che aprono canali YouTube, quelli che non mancano mai agli incontri con gli autori, quelli che gli autori li perseguitano. Poi ci sono quelli come Massimo Capalbo, specializzato nel compilare libri che sbalordiscono per la mole di lavoro  necessaria al recupero di tutti i dati necessari, dato che si tratta quasi sempre di puntuali schedature di storie, ambienti e personaggi di serie a fumetti di lungo corso (Tex, Zagor, Mister No), schedature che richiedono attente letture di migliaia di pagine, più approfondite ricerche per la documentazione di supporto. Chi ha sfogliato “The Dark Side of Tex”, l’ “Atlante di Mister No” o “Zagor Monsters” sa di che cosa parlo (chi non l’abbia fatto, dovrebbe farlo). Capalbo aggiunge alle sue fatiche il primo volume di "Tex, le origini del mito”, che ha per sottotitolo “Analisi delle storie contenute nei primi 53 albi di Aquila della Notte". Le 230 pagine del saggio, corredate da oltre cento illustrazioni, analizzano in maniera approfondita le 24 storie pubblicate nei primi 16 albi della collana Tex Gigante (seconda serie), quella tuttora in edicola e considera la serie regolare: da "Il totem misterioso" ad "Avventura nell'Utah", passando per "La Mano Rossa", "Uno contro venti", "Il mistero dell'idolo d'oro", "L'eroe del Messico", "Satania!", "Il patto di sangue", "Il tranello", "Il figlio di Tex" e altre ancora. L’autore non si limita a fare il riassunto di ogni episodio e a schedare autori e personaggi ma contestualizza, traccia collegamenti, individua citazioni, propone confronti con la realtà storica, mostra immagini d’epoca e fotogrammi di film, fornisce indicazioni ai collezionisti e un giudizio critico. I volumi sono in programma sono tre, e una volta usciti tutti avranno recensito i primi 53 albi, per un totale di 64 schede. Le origini, secondo Capalbo, si fermano qui, con il quartetto dei pards ormai stabilmente costituito a contrassegnare le definitive caratteristiche della serie dopo il lungo periodo di rodaggio e di assestamento. Attendiamo Massimo al varco. “Tex, le origini del mito” è in vendita esclusivamente su Amazon.



domenica 19 ottobre 2025

NELLA MENTE DEL SENSITIVO

 
 
 
 


Giulio Campaioli
NELLA MENTE DEL SENSITIVO
C1V Edizioni
2024, brossurato
170 pagine, 18.90 euro

Il sensitivo a cui allude il titolo è il piemontese Gustavo Rol (1903-1994). Si tratta di un personaggio circondato dal mistero, ritenuto possedere capacità paranormali da uno stuolo di ammiratori che frequentavano il suo appartamento in Via Silvio Pellico n° 31 a Torino, tra cui nomi illustri (quali Federico Fellini, Franco Zeffirelli, Cesare Romiti, membri della famiglia Agnelli e si dice ministri, cardinali e persino re e regine). Appartamento dove si entrava unicamente se invitati e si poteva assistere agli esperimenti del padrone di casa soltanto dopo essere stati disposti, in seguito a una attenta procedura, in punti precisi della stanza in cui questi avevano luogo. Già, perché Rol, personaggio sicuramente magnetico e carismatico, non si esibiva in pubblico davanti a chiunque, non chiedeva soldi per far sfoggio di sé, non si faceva filmare, non partecipava a programmi televisivi, e al di fuori delle sue serate private riservate ai suoi ospiti, solitamente tra i cinque e i dieci per volta,  conduceva una vita ritirata (gestiva un negozio di antiquariato e una galleria d’arte, dedicandosi lui stesso alla pittura). Il campionario fenomenologico delle sue pratiche era strabiliante: esperimenti con le carte, materializzazione di oggetti, apparizioni di scritte, chiaroveggenza, precognizioni, bilocazioni, viaggi nel passato, poteri diagnostici. Il carnet completo del paranormale. Le testimonianze di chi assisteva agli esperimenti di Rol (soprattutto di chi era già convinto dei poteri del sensitivo) riportano aneddoti straordinari. L’antiquario attribuiva le due capacità all’aiuto di quelli che chiamava “spiriti intelligenti” (non chiaramente identificabili entità evocate dal mondo dei defunti) e al suo riuscire a far parte, in determinate circostanze, di una non meglio precisata “coscienza sublime”. Cioè, non si dichiarava un illusionista, ma un paragnosta. Giulio Campaioli, classe 1999, studioso appassionato di pseudoscienze, ha dedicato a Rol la sua tesi di laurea, da cui trae origine “Nella mente del sensitivo”, saggio pubblicato nella collana “Scientia et Causa” delle Edizioni C1V, con la prefazione di Marco Ciardi, docente di Storia della Scienza presso l’Università di Firenze. Campaioli si propone di condurre un’indagine “imparziale”, differenziandosi dagli apologeti più entusiasti e acritici ma anche dagli scettici per partito preso (tra i quali annovero me stesso), inserendosi nell’ambito di una affollatissima bibliografia. Quel che lascia perplessi a lettura ultimata è il giudizio finale: lo studioso non sembra prendere una precisa posizione che sia frutto della sua pur dettagliata analisi, e scrive: “non riesco ad affermare con certezza se Rol sia stato un autentico sensitivo o un abile illusionista”. Purtroppo non è possibile, in scienza e coscienza, non giungere a un verdetto definitivo, perché o si crede che esistano gli “spiriti intelligenti” e la “coscienza sublime” e che qualcuno possa bilocarsi e viaggiare nel passato, o si ritengono queste narrazioni pura fantasia (non necessariamente degli imbrogli, ma parte di uno spettacolo). Peraltro Campaioli elenca una per una le tante ragioni degli scettici: il rifiuto di Rol di replicare i suoi “numeri” sotto il controllo di verificatori (come proposto da Piero Angela); l’attenta preparazione preventiva della stanza degli esperimenti; l’incoerenza e talvolta la non attendibilità delle testimonianze; lo svolgimento al buio e con luce controllata di alcuni “prodigi”, il sottrarsi del sensitivo a riprese fotografiche e video così come al confronto con dei prestigiatori (venne sfidato da James Randi e da Silvan); la ripetizione dei “fenomeni” da pare di numerosi illusionisti che si dicevano in grado di eseguire trucchi con risultati del tutto simili a quelli dell’antiquario di Via Pellico. Il saggista giunge fino a spiegare egli stesso le tecniche di illusionismo della maggior parte dei numeri eseguiti da Rol per i suoi ammiratori. Ora, se è chiara la natura di giochi di prestigio di molti di essi, non si può attribuire al soprannaturale l’eventuale casistica da approfondire. O si deve ritenere che gli “spiriti intelligenti” siano intervenuti in certi casi (quelli ritenuti da alcuni “inspiegabili”) e non in altri? Aggiungo una considerazione del tutto mia, basata su una riflessione personale scaturita dalla lettura: possibile che delle entità sublimi, quelle con cui Rol si diceva in contatto, accettassero di aiutarlo nei giochi con le carte? Insomma, avrebbero potuto manifestarsi con modalità più serie, invece di far comparire i due di picche nelle tasche degli spettatori. Che i fantasmi abbiano ancora voglia di una partita a briscola, nell’aldilà? Naturalmente gli “spiriti intelligenti” più intelligenti preferiranno lo scopone scientifico, ma non infieriamo. Cito le parole con cui Campaioli chiude il suo libro: “Al termine di questa indagine il lettore ha quindi due strade davanti a sé: astenersi dal giudizio sul caso, data l’impossibilità di darne una risposta certa, oppure sostenere una delle due teorie sulla natura dei poteri di Rol. Qualunque sia la scelta che compirà, essa dovrebbe essere il risultato di una riflessione scevra da ogni pregiudizio, non di un atto di fede”. Il punto è che la “risposta certa” è tutt’altro che impossibile, e che esistono prove del tutto convincenti sul fatto che i “poteri” di Rol fossero unicamente frutto di uno straordinario talento di illusionista, maturato grazie al sempre più forte desiderio di sbalordire gli astanti radunati a casa sua. Ambizione, questa, che motiva tutti gli illusionisti del mondo, da Houdini a Raul Cremona. Per stupire il suo pubblico, David Copperfield ha persino dovuto volare e spostare la Statua della Libertà. Gustavo Rol non ha mai neppure provato a smuovere la Mole, nonostante l’aiuto dei suoi amici spiriti.



sabato 18 ottobre 2025

STEREO AKTE NUDES NUS


 
 

 
Serge Nazarieff
STEREO AKTE NUDES NUS
1850-1930 
Taschen
Prima edizione tedesca -  1994
brossura - lire 19000

Lo stereoscopio è uno strumento ottico che, grazie a un apparato binocolare a lenti prismatiche, consente di fondere in una unica immagine due immagini distinte leggermente diverse l'una dall'altra. Oggi chiamiamo questo effetto semplicemente "3D". La conoscenza dell'effetto stereoscopico è di poco anteriore alla scoperta della fotografia da parte di Daguerre (1839). Stereoscopia e fotografia si combinarono dunque a vicenda nella realizzazione di un apparecchio che fu presto utilizzato per la visione di immagini erotiche. Il bel volume di Serge Nazarief, pubblicato inizialmente in Francia, è qui in edizione tedesca (con testo in tre lingue, dato che si aggiunge anche l'inglese). Viene fornito un pratico occhiale in cartone due "lenti" in plastica trasparente colorate diversamente, per ottenere l'effetto 3D. Le fotografie, che vanno dal 1850 al 1930, sono quasi tutte colorate a mano, come d'usanza. I soggetti vanno da quelli assolutamente casti (pastorelle neppure molto nude in pose oltremodo pudiche e in paesaggi agresti) da quelli inequivocabilmente pornografici (immortalate anche azioni hard). In genere le modelle corrispondono a canoni di bellezza non più attuali, e alcune provocano un senso di perplessità all'occhio del lettore di oggi. Resta il valore della testimonianza di epoche scomparse e dell'eterno voyeurismo (qui maschilista, dunque oggi etichettato come sessista) che da sempre caratterizza l'essere umano. In quarta di copertina, un sottoscrivibile commento di Jacques Cellard: "A voi, lettori e lettrici, giudicare se il potere di suggestione di queste fotografie è rimasto intatto attraverso oltre 100 anni. Io ne sono convinto".


venerdì 17 ottobre 2025

MAIGRET E LA STANGONA

 


Georges Simenon
MAIGRET E LA STANGONA
Adelphi
2003, brossurato
168 pagine, 11.40 euro

Maigret et la Grande Perche (questo il titolo originale), pubblicato anche come “Maigret e la Spilungona”, è datato 1951 e costituisce il trentottesimo romanzo dedicato da Georges Simenon (1903-1989) al commissario che lo ha reso celebre, anche se lo scrittore belga merita la notorietà anche per le sue opere non poliziesche, e mi meraviglio sempre, quando penso che non gli è stato attribuito il Nobel per la letteratura (lo penso anche riguardo Stephen King).  
Da “Maigret e la Stangona” è stato tratto un film nel 1956, diretto da Stany Cordier, con Maurice Manson nel ruolo del commissario parigino, intitolato “Maigret dirige l’inchiesta”.
 
Di Maigret e di Simenon abbiamo parlato moltissimo in questo blog, approfondendo la figura del personaggio e quella del suo autore. Se volete leggere quali romanzi sono stati recensiti, cercate il nome dello scrittore nell’indice di “Utili sputi di riflessione” e poi potete cliccare su ogni titolo raggiungendo così la singola scheda.

 
I romanzi con il burbero poliziotto del Quai des Orfèvres danno dipendenza, e una volta assuefatti non si riesce a smettere (per fortuna ci sono settantacinque dosi). Maigret finisce per apparirci un personaggio reale, di cui Simenon è il semplice biografo. In questo episodio, lo vediamo alle prese con un caso che sembra, inizialmente, di facile soluzione: c’è un sospettato molto sospetto, il dentista Guillaume Serre, molto scaltro nell’evitare di essere incastrato, ma a un certo punto il commissario si rende conto che le cose non sono andate come sembrano. Tra i personaggi, oltre a Serre e alla vecchia madre con cui vive,  spicca Ernestine, ex prostituta che scopriamo essere una vecchia conoscenza del poliziotto (è lei la “stangona”), venuta a chiedere a Maigret di indagare su un cadavere senza nome che suo marito Alfred (un topo d’appartamento) dice di aver visto in una casa dove era penetrato, ma di cui non c’è traccia. Come al solito, il commissario si dimostra abile psicologo e capace di instaurare empatia con l’umanità dei bassifondi. 



giovedì 16 ottobre 2025

CORTO COME UN ROMANZO

 


Gianni Brunoro
CORTO COME UN ROMANZO
Edizioni Dedalo
Prima edizione 1984
Brossurato  - 194 pagine con illustrazioni a colori - lire 25.000 

Gianni Brunoro, uno dei fumettologi attivo fin dai primordi della critica specializzata in Italia, esamina in questo suo interessante saggio tutti gli aspetti della figura di Corto Maltese, così come Hugo Pratt ce l'ha consegnata attraverso le sue opere. Nel 1984, quando uscì questo libro, erano 28 gli  episodi (lunghi e brevi) che ne componevano la saga. Da lì alla morte di Pratt, avvenuta nel 1995, ne sono usciti altri (che comunque non hanno aggiunto niente alla fama dell'autore). In ogni caso, l'opera di Brunoro ripercorre la magna pars della produzione prattiana relativa al marinaio con l'orecchino. Si comincia con una biografia di Corto Maltese, nato a La Valletta nel 1890 (forse) da una prostituta zingara e da un marinaio inglese, e divenuto ben presto lupo di mare amante dell'avventura e degli spazi sconfinati. Il Mediterraneo gli stava stretto, e Corto si mise a navigare per gli Oceani. In questo, rappresentando la controfigura dello stesso Hugo Pratt, veneziano e in quanto tale cosmopolita e giramondo. Accanto alla storia personale del character, esaminata come se Corto fosse un personaggio davvero esistito (e chi dice che non lo sia?) attraverso la sequenza delle sue avventure (riassunte una per una), Brunoro si dilunga (con la bella e gradevole prosa che lo contraddistingue) sulle figure dei suoi amici e nemici, sulle idee che lo animano, sui luoghi che frequenta, sulle donne che ha amato. Per finire, l'ultima parte del libro è dedicata  a Hugo Pratt.  

mercoledì 15 ottobre 2025

I MILANESI AMMAZZANO AL SABATO

 

 


 
Giorgio Scerbanenco
I MILANESI AMMAZZANO IL SABATO
Garzanti
2014, brossura
200 pagine, 8.90 euro


“Scerbanenco sapeva ricostruire i meccanismi imperfetti che portano una persona a compiere un crimine”, scrive Piero Colaprico (il cui giudizio è riportato in quarta di copertina). Non solo, aggiungo io: Giorgio Scerbanenco (1911-1969) era uno scrittore in grado di ricostruire qualunque tipo di meccanismo psicologico e di rappresentare le più diverse realtà con l’efficacia e il talento non soltanto del grande narratore, ma anche dell’affabulatore versatile capace di spaziare attraverso i generi più diversi, nobilitando da par suo quelli considerati di minor pregio. E’ sbagliato, infatti, considerarlo soltanto un autore di gialli, o meglio di polizieschi o di noir. Il lungo elenco dei suoi libri comprende anche romanzi sentimentali o addirittura western. Non c’è dubbio, tuttavia, che sia stato il personaggio di Duca Lamberti a dare a Scerbanenco una grande, seppur tardiva, popolarità. In tutto, le avventure del medico milanese radiato dall’Ordine per aver praticato una eutanasia e poi diventato un poliziotto, sono soltanto quattro. La morte prematura colse il suo creatore lo stesso anno, il 1969, in cui riuscì a dare alle stampe il quarto titolo, appunto “I milanesi ammazzano al sabato”. Il primo episodio della serie, “Venere privata”, era uscito soltanto tre anni prima, nel 1966. Avevano fatto seguito “Traditori di tutti” e “I ragazzi del massacro”. Di Scerbanenco e di Duca Lamberti abbiamo parlato a lungo in questo blog, perciò chi volesse approfondire l’argomento non ha che da cliccare sui titoli colorati, con il link alle singole recensioni. Probabilmente, dei quattro, è proprio “I milanesi ammazzano al sabato” il romanzo meno riuscito, e chissà se è soltanto una mia suggestione quella di leggere fra le righe l’ansia dello scrittore di riuscire a completare l’opera, lasciando qua e là perfino i segni di una mancata revisione. Tuttavia, Scerbanenco non delude neppure quando va di fretta e il livello resta alto. L’indagine di Duca Lamberti, che si svolge tra Milano e Lodi, riguarda la scomparsa di una giovane donna affetta da un ritardo mentale, Donatella Berzaghi, costretta alla prostituzione e poi trovata poi morta (uccisa in modo orrendo, bruciata viva all’interno di un covone di paglia). C’è però chi cerca di arrivare prima di lui a mettere le mani sugli assassini: il padre della ragazza. I quattro romanzi con protagonista Duca Lamberti portano avanti anche le vicende personali e sentimentali del problematico personaggio, come la sua storia d’amore con Livia Ussaro, del cui volto sfregiato si sente responsabile, o come l’eredità morale del padre poliziotto o le conseguenze della scelta del medico di aiutare una malata terminale a porre fine alle sue sofferenze. Nel finale de “I milanesi uccidono al sabato” giunge la riabilitazione dell’Ordine che lo aveva radiato, e resta il dubbio se Duca tornerà a indossare il camice bianco o se invece continuerà a fare il poliziotto.


martedì 14 ottobre 2025

SVENUTO AL MONDO


 

Maurizio Manco
SVENUTO AL MONDO
Edizioni Cenere
2024, brossurato
50 pagine, p.n.i.

“Svenuto al mondo” è una raccolta di aforismi originali, cioè non citati. A parte il fatto che gli aforismi più belli li ha scritti Anonimo, devo confessare la mia passione per questo genere letterario in cui si sono cimentati scrittori, poeti, scienziati, umoristi, pensatori di tutte le epoche. Tant’è vero che nel 1994, i Meridiani Mondadori hanno dato alle stampe una antologia in due volumi “Scrittori italiani di aforismi”, curata da Gino Ruozzi, comprendente cinquanta autori distribuiti su oltre seicento anni di storia, da Taddeo Alderotti (1223-1295) a Pietro Ellero (1833-1933). Fin da giovanissimo mi sono appuntato su un quaderno le frasi che più mi folgoravano, in cui mi imbattevo leggendo. Poi ho cominciato a collezionare raccolte di aforisti illustri, da La Rochefoucauld a Krauss passando per Roberto Gervaso. Ho tenuto per anni una rubrica su un giornaletto in cui segnalavo le sentenze o le battute migliori divise per argomento, intitolata “Cattivi pensieri”. Infine ho preso scriverne io, e più o meno duemila sono stati pubblicati in tre raccolte, “Utili sputi di riflessione”, “Sarò bre” e “Mi ritiro per delirare”. Ritenendomi un discreto cultore della materia, ho la pretesa di spiegare qualcosa che forse non tutti sanno e cioè che le parole “aforisma” e “orizzonte” hanno la medesima etimologia. Derivano infatti dal verbo greco horízo, “separo”. Apó e horízo significano “separo da” ma anche “circoscrivo” e dunque aphorismós  vale come “definizione”. L’orizzonte è ciò che lo sguardo circoscrive separandolo dal tutto, e l’aforisma è ciò che poche parole possono contenere in uno spazio limitato. 
Il primo a usare la parola “aforisma” fu Dante, che nel "Paradiso" scrive: “Chi dietro a iura e chi ad amforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio”. Vale a dire: c’è chi studia legge, chi medicina e chi si fa prete. Gli “amforismi” sono dunque precetti medici. Quelli di Ippocrate, senza dubbio, i cui detti e le cui sentenze venivano tramandate da secoli come base della scienza medica. Ma anche quelli di Taddeo Alderotti, contemporaneo dell’Alighieri, che abbiamo già citato: si tratta dell’autore di un “libello per conservare la sanità del corpo”, scritto in volgare. Per dare un esempio, ecco cosa raccomanda l’Alderotti: “quando ti levi la mattina de letto distenderai le tue membra, perché la natura ne prende conforto, e il naturale caldo se ne conforta e fortifica le membra”. Insomma, appena alzati bisogna fare stretching . Da questo tipo di aforismi, si passa gradatamente a quelli delle epoche successive che prima propongono massime religiose, poi morali. Dai consigli per la salute a quelli per lo spirito. In ogni caso, “medicina per l’uomo, questa è l’essenza dell’aforisma”, scrive Giuseppe Pontiggia. A partire dalla seconda metà del Seicento, per merito dei francesi, gli aforismi cominciano a diventare anche spiritosi. Meno male, perché tra il serio e il faceto, preferisco il faceto.  Gli aforismi sono una forma d’arte paragonabile alla poesia: ogni singola parola ha un peso enorme e il loro significato va incredibilmente al di là delle dimensioni del testo con cui lo si esprime. Gesualdo Bufalino, del resto, diceva: “un aforisma ben fatto sta in otto parole” (contate quelle usate: sono appunto otto). Si può fare di meglio: “un buon aforisma sta in sette parole” (contate quelle usate, sono appunto sette). Non ne servono molte di più per colpire immediatamente nel segno con più efficacia di qualunque lungo discorso. Del resto, “quando non si sa scrivere, un romanzo riesce più facile di un aforisma”, sosteneva Karl Kraus in "Detti e contraddetti", uno dei miei livres de chevet. E aggiungeva: “Ci sono certi scrittori che riescono a esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono due righe”. 
Ammetto che mi sono dilungato decisamente troppo per un elogio della brevità. Maurizio Manco, del resto è stato brevissimo: “Svenuto al mondo” conta solo centocinquanta aforismi distribuiti su trenta pagine. Le cinquanta complessive ospitano una postfazione, apprezzabilissima, di Simona Abis, l’indice e i frontespizi. Tanta stringatezza va tutta a vantaggio della qualità della produzione, distillata e non diluita. “Stento a credermi”, recita uno dei motti, buon esempio del talento dell’autore. Ma anche “E finsero tutti felici e contenti”. Ne cito altri tre e facciamo cinque: “Voglio tutto e dubito”; “Non voglio smettere di sfumare”; “Son cose che decapitano”. Gli altri centoquarantacinque li tengo per me nella mia collezione, ormai cospicui, di raccolte di aforismi. Naturalmente, se volete leggerli, potete cercare di procurarvi anche voi l’aureo libello.


lunedì 13 ottobre 2025

FIN DOVE ARRIVA IL MATTINO

 
 
 


Giancarlo Berardi
Ivo Milazzo
FIN DOVE ARRIVA IL MATTINO
Sergio Bonelli Editore
2025, cartonato
138 pagine, 25 euro

“Fin dove arriva il mattino” è il capitolo finale della saga di Ken Parker. Una saga
 che ha segnato la mia vita (e quella di moltissimi altri), iniziata nel 1977 e conclusasi nel 2015 con il cinquantesimo volume di una riedizione distribuita in edicola da Mondadori Comics, contenente l’unica avventura inedita  in una collana che aveva ristampato, nelle quarantanove uscite precedenti, tutti gli episodi di Lungo Fucile. A distanza di dieci anni, Sergio Bonelli Editore (in occasione di una nuova riproposta  dell’intera serie) dà alle stampe un volume cartonato e di pregio, destinato al circuito delle librerie, della storia conclusiva del lungo cammino del personaggio. Storia, secondo me, memorabile. Ma per arrivare a parlarne, ritengo necessario ricapitolare i punti fondamentali riguardanti qualsiasi discorso sull’anti eroe di Berardi & Milazzo.

L'albo d'esordio, intitolato “Lungo Fucile” uscì in tutta Italia nel giugno 1977, per i tipi della Cepim di Sergio Bonelli e dunque nel classico formato Tex (anche se con una grafica di copertina originale rispetto alla tradizione). Il personaggio risaliva però a tre anni prima: era nato infatti nel 1974 per essere proposto in un unico episodio autoconclusivo da inserirsi nella Collana Rodeo. Bonelli, tuttavia, aveva bisogno di materiale per riempire gli spazi vuoti tra una puntata e l'altra de "La Storia del West" di Gino D'Antonio; così, dopo aver letto il racconto, chiese allo sceneggiatore Giancarlo Berardi e al disegnatore Ivo Milazzo di realizzarne un secondo, e poi un terzo, finché si convinse che il protagonista di quelle storie aveva un notevole "spessore" e meritava una serie tutta sua. Milazzo, nato a Tortina nel 1947, e Berardi, genovese della classe 1949, si erano conosciuti perché frequentavano la stessa scuola e avevano esordito insieme nel 1970 nel mondo del fumetto (il primo come disegnatore, il secondo in qualità di sceneggiatore) sulla rivisto Horror, diretta da Pier Carpi e Alfredo Castelli. Sempre insieme avevano fatto esperienza lavorando per lo studio ligure Bierreci (che prendeva il nome da Luciano Bottaro, Giorgio Rebuffi e Carlo Chendi)e realizzando storie per Tarzan e Gatto Silvestro. Da lì erano passati  al Giornalino grazie alle avventure di Tiki, un giovane indio amazzonico; e a Lanciostory con la serie di racconti western  Welcome to Springville. Ma a quel punto già arrivava Ken Parker.

Chiunque si trovi oggi a fare i conti con il western deve necessariamente sottostare alla regola dell' Im Westen Nichts Neues: all'Ovest niente di nuovo. Migliaia di film, romanzi e fumetti hanno sfruttato ogni situazione in tutte le possibili salse. Giancarlo Berardi si deve essere reso subito conto dell'impossibilità di dire qualcosa di nuovo in un contesto in cui si è detto tutto. E allora? Come è stato possibile per Ken Parker, nonostante questo handicap di fondo, incidere profondamente nel mondo del fumetto italiano? Innanzitutto, l'approccio verso gli ingredienti più tradizionali del genere western (gli attacchi degli indiani, le rapine alle banche, i ladri di bestiame) è di sostanziale accettazione, peraltro giustificata dalla rappresentazione di una realtà storica. Se non si cerca di modificare le situazioni in quanto tali, si modifica però l'ottica attraverso la quale queste situazioni vengono presentate al lettore. Non più la tradizionale divisione in "buoni" e "cattivi", ma il tentativo di esporre le ragioni degli uni e degli altri; non più eroi a tutto tondo, ma personaggi problematici, spesso tormentati da dubbi, angosce e incertezze; non più un mondo di relazioni interpersonali semplificate (se non banalizzate) ma un'analisi spesso profonda della psicologia e dell'intimo dei protagonisti. Tutto ciò viene raggiunto con una cura certosina, in fase di sceneggiatura, della scansione cinematografica delle sequenze e del loro montaggio, della sottolineatura dei dettagli e degli sguardi, dei dialoghi dove niente viene lasciato al caso e ogni parola ha il suo giusto peso e un preciso ruolo da svolgere. Inotre le avventure di Ken Parker spaziano in una dimensione più ampia di quella del western tradizionale: lo vediamo perciò cacciatore di balene tra gli iceberg e investigatore tra i palazzi di città. Infine, le avventure di "Lungo Fucile" sono caratterizzate da una costante contaminazione tra più generi: dal cinema alla letteratura, dalla musica al fumetto. Ken Parker maneggia i versi di Walt Whitman, commenta "Il Capitale", recita l'Amleto, incontra Ambrose Bierce; ma si imbatte anche in Tex Willer e Totò, marcia con i lavoratori del quadro di Pellizza da Volpedo, prende a pugni Poirot, conversa amichevolmente con i suoi stessi autori, diviene amico del Dersu Uzala di Kurosawa (anche se qui si fa chiamare Nanuk) e di Pippi Calzelunghe (Pat O'Shane), bacia Marilyn Monroe/Norma Jean, si inventa scrittore di dime novels. 
Ma chi è Ken Parker? Ferruccio Giromini, introducendo sulla rivista Orient Express il breve episodio intitolato "Cuccioli", risponde: "un uomo che crede di poter fare qualcosa per cambiare la storia". Giancarlo Berardi, che ne sa ben qualcosa, così replica in una intervista su Popular Press: "Ken Parker non ha questa pretesa. Si sforza solo di essere coerente con le sue idee, con il suo bagaglio di uomo, con i suoi valori che ha pian piano riscoperto. Dato che nella società in cui viveva, e anche in quella in cui viviamo noi, di valori ce ne sono pochi, nasce la necessità di crearsene di propri e vivere coerentemente con essi". Ciò significa fare delle scelte, a volte faticose, altre volte addirittura drammatiche. 
Le avventure di Ken Parker, ex cercatore d'oro in California tornato fra le sue montagne a fare il cacciatore di pellicce, hanno inizio nel Montana il 29 dicembre 1868, quando suo fratello Bill viene ucciso, a scopo di rapina, da alcuni assassini, che, di lì a poco, si arruolano come scout dell'esercito. Ken, deciso a vendicare Bill, fa lo stesso e si trova così coinvolto nel drammatico inseguimento di una tribù di Cheyenne fuggita della riserva da parte di uno squadrone di Giacche Blu. Ken resta nell'esercito anche dopo aver fatto giustizia degli assassini di suo fratello. Nel suo ruolo di guida ed esploratore, ha modo di venire a contatto con la tragica realtà del problema indiano. 
Con il numero 59, “I ragazzi di Donovan”, datato maggio 1984, si chiude la prima serie di albi bonelliani in bianco e nero di Ken Parker. Il personaggio proseguiva però le sue avventure sempre su una testata della stessa casa editrice: appunto la prestigiosa rivista Orient Express, diretta da Luigi Bernardi, da poco entrata a far parte della scuderia Bonelli.  Berardi & Milazzo erano convinti che fosse impossibile continuare a sostenere il ritmo di una storia al mese senza perdere in qualità, parametro a cui gli autori non erano disposti a rinunciare. Per Ken Parker fu dunque decisa la chiusura della collana mensile in bianco e nero (da tutti rimpianta) e la prosecuzione con storie a colori pubblicate a puntate e poi raccolte in albo. L’esordio su rivista del nostro eroe avviene sul n° 20 di Orient Express, datato aprile 1984. Ma l’esperimento non funziona. Berardi & Milazzo si mettono in proprio e tornano alle storie in bianco e nero pubblicate su un magazine intitolato al loro personaggio, poi rilevato da Bonelli. 
Con l'episodio “Un soffio di libertà" (distribuito sui numero 30, 31 e 32 del magazine, datato 1995) le vicende umane di Lungo Fucile giungono a toccare un momento estremamente drammatico della sua vita. Ken Parker, accusato di aver ucciso un poliziotto durante uno sciopero a Boston, in uno scontro di piazza fra operai manifestanti e le forze dell’ordine (in realtà si è trattato di un gesto necessario, in un momento concitato, per salvare una vita in pericolo), è incarcerato nel penitenziario di Jackson County, gestito da un direttore "illuminato", Compton Scott, che però non ha il controllo sui suoi secondini, che si accaniscono sui detenuti a sua insaputa. Proprio mentre un gruppo di giornalisti visita la prigione per scrivere delle idee di Compton Scott, l'uccisione di un galeotto da parte degli aguzzini scatena una rivolta carceraria. Ken Parker si fa portavoce dell'ala moderata dei rivoltosi, quelli che non chiedono di evadere ma di vedere puniti i colpevoli. Intanto, i più facinorosi usano violenza alla moglie e alla figlia del direttore prese in ostaggio e nello stesso tempo il governatore decide di risolvere la questione con una dimostrazione di forza nonostante la trattativa condotta da Ken sia più che ragionevole e abbia ormai messo d'accordo tutti i negoziatori. Così, la rivolta si risolve in un bagno di sangue, da cui Ken Parker è uno dei pochi a uscire vivo. C'è, nello spunto iniziale, il ricordo del film "Braubaker", con Robert Redford (anche se non serve averlo visto).
Ma arriviamo a “Fin dove arriva il mattino”, l'episodio che di "Un soffio di libertà" rappresenta il sequel. Occhio allo spoiler. Ricordo che quando scoprii Ken Parker (in ritardo rispetto all'uscita originaria, e precisamente con l'albo intitolato "Il poeta"), decisi di raccogliere tutti i numeri arretrati che mi erano sfuggiti. Guardavo però la pila dei titoli da leggere con quel senso di angoscia di chi sa che, facendo qualcosa, poi dovrà soffrire. Infatti, quando trovavo il coraggio di affrontare la lettura, spesso la concludevo con il groppo alla gola ed emotivamente sconvolto. "Butch l'implacabile", "Cronaca", "Diritto e rovescio", "Lilly e il cacciatore"... tutti albi che mi hanno lasciato il segno, sui quali appunto ho sofferto per quanto erano coinvolgenti. Ricordo di aver pianto sul finale di "Alcune signore di piccola virtù". Qualcosa del genere mi è successo con l'ultima avventura di Ken Parker. Ho temporeggiato finché ho potuto, sapendo che leggere mi avrebbe oppresso il petto e fatto dormire male. Cosa che è regolarmente accaduta. Per quanto mi riguarda, si tratta di uno degli episodi più belli e più amari della saga, magistralmente raccontato da Berardi in una continua alternanza (piena di corrispondenze) fra il passato e il presente, e disegnato da Milazzo con lo sfoggio del suo stile inconfondibile in grado di comunicare brividi con pochi segni solo apparentemente scarabocchiati: il talento suo proprio che mi ha da sempre fatto innamorare delle sue tavole. La caratteristica principale delle storie di Lungo Fucile è sempre stata quella del realismo, della raffigurazione del dramma senza edulcorazioni: l'episodio finale porta questa connotazione fino alle estreme conseguenze. L'eroe dei fumetti, se è chiuso in prigione, riesce a evadere e a dimostrare la propria innocenza; e soprattutto non invecchia, le ferite su di lui non lasciano cicatrici. Ken invece sconta vent'anni di carcere e quando ne esce, per un indulto, è anziano e dolorante, oppresso dal mal di schiena, costretto ad appoggiarsi al fucile come un bastone. Non è neppure in grado di affrontare una banda di criminali a cui si unisce per cercare di salvare due donne, madre e figlia, che hanno presso in ostaggio, e soltanto alla fine riesce nell'impresa, quando i banditi sono rimasti soltanto in due. Della donna più anziana forse si innamora pure, contraccambiato, ma i guai nascono da quella più giovane che, vittima della sindrome di Stoccolma, reagisce in modo inaspettato alla sua liberazione. Alla fine Ken inevitabilmente muore, come muoiono le persone reali, vecchio e sofferente, senza più forze, aspettando l'alba. E io, di nuovo, piango.



domenica 12 ottobre 2025

L'ULTIMO SEGRETO

 



Dan Brown
L’ULTIMO SEGRETO
Rizzoli
2025, cartonato
800 pagine, 27 euro

Dopo “Il codice Da Vinci”, almeno per quanto mi riguarda , la pubblicazione di ogni nuovo romanzo di Dan Brown è un piccolo evento. E non mi hanno deluso i successivi “Inferno” e “Origin”, così come ho felicemente recuperato i precedenti con protagonista Robert Langdon, americano, storico dell’arte, insegnante ad Harvard, esperto di simbologia religioso. Un personaggio caratterizzato dalla claustrofobia, da un orologio con Topolino sul quadrante, dalle cinquanta vasche al giorno che lo tengono in allenamento, e da una prodigiosa memoria eidetica. Oltre che, naturalmente, da una accentuata propensione a venire coinvolto in indagini rocambolesche riguardanti casi e misteri di portata planetaria. Al cinema, lo si identifica con l’interpretazione di Tom Hanks, che mi pare azzeccata. Se fino a “L’ultimo segreto” non lo avevamo mai visto coinvolto in una vera e propria storia d’amore (a parte qualche bacio a significare una fuggevole relazione), qui lo ritroviamo decisamente innamorato di Katherine Solomon, studiosa di noetica (“detto in parole povere, è lo studio della coscienza umana”, spiega lei stessa all’inizio del romanzo). I due sono a Praga, dove lei è ospite dell’Università Carlo IV per una conferenza. Proprio Praga è lo scenario su cui si svolgono le avventure a rotta di collo, praticamente concentrate in un’unica giornata, dall’alba alla notte, che portano la coppia a fuggire a gambe levate per tutta la città. Come al solito, l’autore è documentatissimo e la capitale ceca viene disvelata davanti ai nostri occhi in un susseguirsi di luoghi misteriosi, magici, affascinanti, inquietanti che hanno la caratteristica, tranne (forse) la base segreta denominata “la Soglia”, di esistere davvero, per cui i lettori sono invogliati a prenotare un soggiorno nella città di Kafka e del Golem e ripercorre l’itinerario di Langdon e di Katherine Solomon. Il Golem, peraltro, è uno dei personaggi del romanzo e la scoperta di chi si nasconda sotto una maschera di creta e trami nell’ombra è appunto uno dei colpi di scena. Il fatto che ottocento pagine si lascino leggere in pochissimo tempo e che una volta presi dalla narrazione non la si molli più, testimonia come Dan Brown sia sempre Dan Brown, anzi, più facilmente abbordabile del solito nella sua evidente ricerca di un linguaggio basic fruibile da tutti, senza però scadere nella banalità e riuscendo a spiegare una quantità di concetti che collegano fra di loro elementi apparentemente distanti dello scibile umano. Storia, arte, filosofia, scienza, letteratura, leggende si intrecciano con il poliziesco, la politica internazionale, la spy-story, il thriller, il giallo, la fantascienza e il profumo del pot-pourri sicuramente inebria. Tuttavia, e qui cominciano le dolenti note, “L’ultimo segreto” non è il miglior romanzo di Brown (né si può pretendere che il buon Dan sforni sempre capolavori). Non mi hanno convinto neppure un po’ la teoria della coscienza non locale, la credibilità attribuita alle esperienze extracorporee di chi dice di compiere viaggi astrali e alle già abbondantemente debunkate casistiche di NDE (Near Death Experience), i riferimenti alla sindrome del savant acquisita (chiaramente una bufala che ha spiegazioni scientifiche nei pochi casi in cui le testimonianze siano veritiere), i rimandi alla parapsicologia (pseudoscienza che credevo archiviata con Massimo Inardi e Uri Geller). Per di più, alla base della trama (e non spoilero nulla), c’è il tentativo di impedire la pubblicazione di un libro che Katherine Solomon ha appena finito di scrivere e affidato all’editing della sua Casa editrice. Si pretende che degli hacker entrati nel computer dell’editor lo cancellino e che le poche stampate esistenti vengano distrutte. Questo perché la studiosa avrebbe illustrato nel suo saggio ancora inedito una clamorosa scoperta riguardante la mente umana, scoperta di cui qualcuno vuole evitare a ogni costo la rivelazione. Qui la suspension of  disbelief  va a farsi benedire: non è possibile credere né che l’autrice non abbia copie del suo testo salvate ovunque su hard disk, chiavette, cloud e che si possa con facilità cancellarle tutte; ma soprattutto è implausibile che una scienziata arrivi a elaborare una teoria rivoluzionaria lavorandoci da sola, senza uno staff di collaboratori, e che lo studio con cui la si presenta al mondo sia una sorta di saggio divulgativo distribuito in libreria e non venga invece prima pubblicato su una autorevole rivista scientifica che garantisca la peer review (o revisione paritaria), un processo di valutazione critica condotto da esperti indipendenti dello stesso campo. Per carità, si tratta di un romanzo ed è permesso tutto, però Dan Brown mi aveva abituato a una maggior plausibilità di fondo e a suggerire suggestioni illuminanti che stavolta mancano. Tranne il flash finale riguardante i social, che in effetti apre una finestra su inquietanti riflessioni.