NON DIRLO
di Sandro Veronesi
Bompiani
2015, brossurato,
260 pagine, 13 euro
Nello stesso anno in cui Emmanuel Carrère ha pubblicato "Il Regno" ricostruendo (da laico e da non credente) la vita dell'evangelista Luca e la predicazione di San Paolo, anche Sandro Veronesi si occupa, con questo libro, di San Marco e del suo Vangelo. Veronesi (Firenze, 1959) ha vinto il Premio Strega nel 2006 con "Caos calmo" (opera sicuramente consigliabile). Scrive l'autore nella sua Premessa: "Quanto alle ragioni per cui, pur non conoscendo né il greco né l'aramaico, pur non essendo né un biblista né un teologo, e nemmeno un credente, mi sono sentito spinto a mettere il becco su un testo come il Vangelo, dirò che sono sostanzialmente due. La prima ragione si chiama entusiasmo, dato che per me il Vangelo di Marco è un testo letteralmente entusiasmante: è l'invenzione stessa del Vangelo. La seconda ragione si chiama 'Dei Verbum', cioè il documento più autenticamente rivoluzionario prodotto dal Concilio Vaticano II, se, come l'ho inteso io, esso rappresenta l'apertura della tradizione cristiana a chiunque senta di avere qualcosa da aggiungervi, indipendentemente dai titoli che possiede, dal ruolo che ricopre e addirittura dal fatto che creda o no in Dio. Se l'avessi inteso male porgo le mie scuse, poiché non era mia intenzione trasgredire alcun dogma o mancare di rispetto a nessuno, ma non posso più rimangiarmi nulla di ciò che ho scritto". Come Carrére, Veronesi dimostra di essersi documentato bene, di aver letto un bel po' di quello che c'è da leggere, e di essere decisamente rimasto coinvolto nel suo approfondimento. Il punto di vista dal quale lo scrittore italiano esamina il Vangelo secondo Marco è letterario, in certi punti quasi cinematografico (immagina più volte come Tarantino o Leone avrebbero filmato certe scene) e lo scopo è dimostrare quanto sia efficace l'evangelista nelle sue scelte narrative, a partire dal potente incipit che salta a piè pari l'infanzia di Gesù, consegnandoci un Messia già adulto. Il Vangelo di Marco è il primo che, secondo gli studiosi, è stato scritto: è servito infatti come fonte anche a Matteo e Luca, che vi attingono a piene mani. E' il più breve dei quattro racconti evangelici e quello, soprattutto, in cui predomina l'azione a discapito delle parole. Non c'è la Madonna, non ci sono le Beatiudini né il Discorso della Montagna, non c'è il Padre Nostro. Cristo, più che parlare, opera. Marco, che secondo la tradizione fu discepolo di San Pietro (anche se lui non lo dice), scrive per i romani e non per gli ebrei: pertanto, fa scelte narrative in grado di folgorare il suo uditorio, che non avrebbe sopportato troppi riferimenti a concetti famigliari solo ai Giudei. Secondo Veronesi (io, personalmente, però non ne sono convinto) Marco conosceva la fonte Q (un Vangelo perduto da cui Luca e Matteo traggono le frasi di Gesù, le sue sentenze, i discorsi che gli mettono in bocca) ma volontariamente avrebbe soprasseduto su molte cose ritenendo che i suoi lettori avessero bisogno di altro, di fatti più che di prediche. E una delle scelte più interessanti è quella di far vedere come gli apostoli stessi non capissero quasi mai ciò che Gesù diceva loro, facendo persino delle brutte figure per la loro insipienza: Pierro e i compagni diventano insomma il punto di vista del lettore più duro di comprendonio, mentre quelli più scafati riescono a capire prima di loro e dunque si predispongono a credere. In questo senso Veronesi dice che il Vangelo di Marco è una perfetta macchina di conversione.
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