Tonino Guerra
Luigi Malerba
STORIE DELL'ANNO MILLE
Bompiani
1972, 224 pagine
Peccato che questo capolavoro, scritto nel 1972 da due mostri sacri della letteratura e del cinema, Tonino Guerra e Luigi Malerba, sia stato dimenticato (perlomeno, non se ne sente più parlare): quando lo lessi per la prima volta, appunto ai tempi della scuola - nell'edizione scolastica che adesso ho recuperato e letto di nuovo - "Storie dell'Anno Mille" veniva almeno consigliato ai ragazzi delle Medie inferiori; oggi non saprei se venga ancora fatto leggere - nel caso, dovrebbe. Mi chiedo anche (e non lo so) se nelle intenzioni dei due autori, che scrivono un libro leggero e profondo al tempo stesso, il pubblico a cui rivolgersi fosse proprio quello dei più giovani (a me pare che possano fruire più consapevolmente gli adulti). In ogni caso si tratta tanti racconti cuciti insieme, che narrano le disavventure di una sgangherata combriccola di morti di fame: Millemosche, Pannocchia e Carestia.
Siamo nel più buio Medio Evo. I tre si incontrano dopo essere scampati a una battaglia. Millemosche, che sostiene di essere un cavaliere, aiuta gli altri due a uscire da un pozzo, e quelli si mettono a fare la sua stessa strada. L'imperativo principale è trovare qualcosa da mangiare, e con la fame dovranno fare i conti tutti e tre per tutta la durata del racconto. All'inizio pensando di vendere lo sterco per fare soldi. Poi incontrano tre frati e rubano loro i vestiti. Incontrano il Papa che li scambia per frati veri e pretende di essere confessato da Millemosche (indimenticabile la sequenza in cui Millemosca ascolta la confessione del Papa e capisce solo "us, um, ibus, orum"). Riparano in un convento, celebre per vendere come reliquia i peli della barba di un famoso santo (peli miracolosamente inesauribili, mentre altrettanto muracolosamente ai frati del monastero non cresceva mai la barba). Costretti a lasciare il convento dopo un fallito tentativo di mangiarsi il maiale dei monaci, si arruolano in un esercito di mercenari impegnato nell'assedio di un castello. Millemosche diventa il "braccio destro" del generale, in senso reale: avendo perso l'arto in battaglia, il comandente vuole qualcuno che gli cammini legato alle spalle e usi il braccio al posto suo: ma quando Millemosche schiaffeggia incautamente il feudatario che finanzia l'assedio, è costretto alla fuga con Pannocchia e Carestia. I tre vanno a caccia di mucche e i contadini vogliono bruciarli sul rogo. Arriva un temporale che spenge il rogo, e una donna offre loro ospitalità. Si accorgono che è lebbrosa e scappono a rotta di collo. Un fiume li porta fino al mare, dove si imbattono nei pirati saraceni, e fuggono inseguiti anche da quelli. Non c'è un vero e proprio finale: ma esiste un seguito intitolato "Nuove Storie dell'Anno Mille". E' un romanzo che si legge d'un fiato, con grande divertimento. Mancano le risate più grasse, ma il sorriso largo sulle labbra è costante. Gli episodi sono brevi, cuciti insieme con grande senso del ritmo. Al di là dell'umorismo leggero e spesso surreale, è evidente l'intento degli autori di smitizzare la Storia con la S maiuscola, e farsi beffa delle Grandi Vicende del Grande Medioevo, quelle che hanno per protagonisti i Grandi Re, i Grandi Guerrieri, i Grandi Papi. Qui la storia è terra terra, fatta di fame, di povertà, di miseria, di lotte per una noce marcia e di roghi e di lebbra e di peste. Il linguaggio scelto da Guerra e Malerba è apparentemente semplice, in realtà innovativo e sperimentale, ma ricco di efficacia. Frizzanti e vivacissimi i dialoghi. "Certo che i piedi sono un disastro. Sarebbe meglio non averceli. - Giusto. Se uno non ha i piedi non ha nemmeno il mal di piedi. - A me piacerebbe di non avere la pancia, così non avrei più fame. - E la schiena? A che cosa serve? Solo per avere il mal di schiena. Anche quella sarebbe meglio non avercela - A me sono i pensieri che mi disturbano. Penso troppo e poi mi viene il mal di testa. Mi piacerebbe non averci la testa".
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