mercoledì 31 luglio 2024

DI AMORE E DI GUERRA

 


Mino Milani
DI AMORE E DI GUERRA
Interlinea
2018, brossurato
164 pagine, 15 euro

All’anagrafe era Guglielmo, ma tutti lo hanno sempre chiamato Mino. Nato a Pavia nel 1928 e morto nella sua città nel 2022 a 94 anni, Mino Milani è autore di una lista infinita di romanzi e di racconti, per ragazzi e per adulti, e per adulti ragazzi e ragazzi adulti, e di una serie di fumetti ancora più infinita (so che non può esserci un infinito più infinito di un altro, ma per Milani valgono le eccezioni alle regole), per non parlare della divulgazione storica e biografica e della saggistica dedicata alla sua terra e all’Italia intera, medievale come risorgimentale. 
Giornalista e direttore di giornali, collaboratore prolifico del “Corriere dei Piccoli” e del “Corriere dei Ragazzi”, sceneggiatore per fumettisti illustri (tra i quali Pratt, Manara, Battaglia, Toppi e Micheluzzi), maestro di Alfredo Castelli e Tiziano Sclavi, creatore di personaggi memorabili (come Tommy River, Efrem, Melchiorre Ferrari, Selina), Mino Milani è soprattutto uno straordinario affabulatore, in grado di narrare qualunque storia, vera o inventata, facendo restare tutti incantati, trascinati nel suo racconto. Lo dimostra “Di amore e di guerra”, un coinvolgente diario, personale e generazionale, locale e universale, degli anni della Guerra da lui vissuti durante gli anni dell’adolescenza e  del liceo (frequentò il Classico “Ugo Foscolo” di Pavia). “Fu certo una stagione difficile. Per i ragazzi richiamati alle armi; per gli altri, che riuscivano a nascondersi, per altri ancora che per convinzione o per caso o per convenienza si mettevano dall’una o dall’altra parte, chi con i fascisti, cioè, chi con i partigiani”, scrive l’autore. L’autobiografia è limitata agli anni tra il 1940 e il 1945 ma sono anni fondamentali, per Milani e per l’Italia: il titolo ben suggerisce l’idea di un percorso di crescita e di presa di coscienza lungo un percorso da “romanzo di formazione” grazie al quale il giovane Milo scopre il sesso e si confronta con la morte sempre dietro l’angolo. La narrazione è ricca di aneddoti coinvolgenti, a volte divertenti, più spesso drammatici, con l’attenzione sempre puntata sulla vita quotidiana della gente pavese, presa a paradigma dell’intera società, chiamata a una prova suprema. Milani descrive le cose com’erano e come stavano, senza livore ideologico, comprese le difficoltà del decidere che fare di fronte a scelte terribili. Si arriva al momento in cui schierarsi diventa obbligatorio e benché molto giovane (sedici anni) Mino collabora come interprete e corriere con la Resistenza. Non si vanta di imprese gloriose, non si atteggia a eroe, piange anche la morte di ragazzi come lui caduti dalla parte sbagliata. Il racconto è sempre misurato, poche parole bastano a tratteggiare scenari ed emozioni. Un gran bel libro.



martedì 30 luglio 2024

LE FINESTRE DI FRONTE

 
 


Georges Simenon
LE FINESTRE DI FRONTE
Adelphi
2022, brossurato
184 pagine, 12 euro

La prima cosa che mi sono chiesto a lettura terminata è se Georges Simenon avesse davvero visitato le coste sovietiche del Mar Nero. Mi sono risposto di sì prima ancora di averne conferma da una breve ricerca nella biografia dello scrittore, che effettivamente nella primavera del 1933 compì un viaggio a Odessa e in altre città  dell’Unione Sovietica spingendosi fino in Georgia, e testimoniò in un celebre reportage su “Le Jour” le conseguenze sulla popolazione della tragica carestia nota come Holodomor. “Le finestre di fronte”, pubblicato nell’autunno di quell’anno, evidentemente sull’onda emotiva che lo spinse a dare al più presto anche la forma di romanzo alle sue esperienze di viaggiatore, è ambientato a Batum, città portuale sul Mar Nero, georgiana ma in territorio sovietico, negli secondi anni Venti. Le vestigia di un passato vivace e mercantile si stanno sfaldando in un lugubre abbandono, stritolato dal regime stalinista (Stalin peraltro era nato in Georgia), dovunque regnano sporcizia, miseria, burocrazia, oppressione, disperazione. Quella di Simenon è una delle prime voci ad aprire uno squarcio sulla realtà dell’URSS, descrivendone in modo incisivo le storture kafkiane.  Commenta Goffredo Parise: “Scritto da un genio, questo breve capolavoro è il romanzo del controllo e dell’annullamento totale dell’uomo sotto la più potente, importante e demiurgica dittatura poliziesca che l’umanità moderna abbia mai conosciuto”. Protagonista sono il giovane console turco Adil bey, appena giunto a Batum dopo la morte (misteriosa) del suo predecessore, e Sonia, la sua interprete e segretaria georgiana che si ostina a dichiarare che tutto va nel migliore dei modi, quando è evidente che non è così: si attendono documenti da Mosca che non arrivano mai, i dischi di musica occidentale vengono sequestrati, ci sono arresti arbitrari e si fucila chiunque solo per il sospetto che si voglia fuggire all’estero. Adil bey cerca personale per il suo consolato e non lo trova nonostante il gran numero di affamati per le strade, perché anche i domestici devono essere selezionati dalle autorità sovietiche tra le spie al proprio servizio, e le finestre della casa di fronte non sono aperture da cui sbirciare la vita dei vicini ma, come il giovane turco capisce troppo tardi, perché chi ci alloggia possa spiare lui. Adil si innamora di Sonia e vorrebbe portarla con sé a Istanbul, scappando dall’URSS prima di fare una brutta fine: ma come? Sembra che l’unico modo sia farla imbarcare clandestinamente su una nave in partenza verso l’Occidente, ma venendo scoperti si rischia l’immediata fucilazione. Le ultime pagine del romanzo sono degne dei migliori thriller.



domenica 28 luglio 2024

FRANKENSTEIN

 



Mary  Shelley
FRANKENSTEIN
Newton & Compton Editori
2003, brossurato
150 pagine

L’edizione di “Frankenstein o il moderno Prometeo” che ho letto è contenuta in una antologia (pregevole in tutto tranne che nel titolo, “Mostri & Co”) insieme ad altri classici ottocenteschi della letteratura horror, praticamente quelli fondativi del genere, come “Dracula” di Bram Stoker, “Il Golem” di Gustav Meyrink, “Il dottor Jekyll e mister Hyde” di Robert Louis Stevenson, “Il signore dei lupi” di Alexandre Dumas, “La mummia” di Theophile Gautier”, “Il vampiro” di John William Polidori. Ciascun romanzo è preceduto da una approfondita introduzione critica. Nel caso di “Frankenstein” c’è anche la nota dell’autrice, Mary Shelley, che fu premessa all’edizione del 1831, la terza e definitiva, dopo quelle del 1818 e del 1823. “Ho accolto con piacere la richiesta dell’editore affinché fornissi qualche informazione su com’è nata la storia”, scrive la Shelley, “perché così potrò dare una volta per tutte risposta a un quesito che mi viene posto con tanta frequenza: come ho potuto io, allora una ragazzina, concepire e sviluppare un’idea così orrenda”. Quando l’idea di “Frankenstein” prese corpo si era nel 1816 e l’autrice aveva soltanto diciannove anni (essendo nata nel 1797). La vicenda è nota: si trovava con il marito, Percy Bysshe Shelley, ospite di lord Byron a villa Diodati, sul lago di Ginevra, in Svizzera, e con loro c’era anche John William Polidori, che di Byron era il medico personale. Il 1816 fu “the year without summer”, l’anno senza estate, per le conseguenze che ebbe sul clima europeo l’eruzione di un vulcano asiatico. I quattro amici furono costretti a restare in casa per giorni e giorni a causa della pioggia incessante, e la forzata clausura li portò a concepire una sorta di sfida: “ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi”, propose lord Byron. E la storia di fantasmi di Mary Shelley fu quel “Frankenstein” che le avrebbe portato fama imperitura. Nella sua versione definitiva, quella del 1831, il romanzo della Shelley è un vero gioiello di scrittura. L’analisi delle fonti, delle implicazioni filosofiche, delle influenze sulla letteratura, della fortuna multimediale, dell’iconografia collegata ai due protagonisti (lo scienziato Frankenstein e la creatura da lui portata alla vita) ha riempito centinaia di saggi e di disamine (ne citerò una in grado di compendiarne la maggior parte “Frankenstein, il mito tra scienza e immaginario”, di Marco Ciardi e Pier Luigi Gaspa, edito da Carocci). Certo di non potere aggiungere niente di originale (neppure rimandando ai robot di Asimov, o alla versione di Dean R. Koontz, piuttosto che al Molok zagoriano), mi limiterò a qualche brevissimo appunto. 
Innanzitutto, se qualcuno si chiede se valga la pena di leggere un romanzo scritto nel 1818, temendo una lettura resa faticosa dalla polvere del tempo, la risposta è “assolutamente sì”. Vale la pena. Certo, non è un romanzo di Stephen King (che non sarebbe stato Stephen King senza Mary Shelley), ma si legge con facilità e piacevolezza. Non è neppure troppo horror, nel senso che l’autrice non calca la mano e le emozioni derivano non da scene splatter e violente, ma dal turbinare di inquietudine e disperazione che agita le menti dei due protagonisti, Frankenstein e la sua creatura, che si giudicano entrambi maledetti dall’esperimento che il primo ha condotto e alla seconda data una vita non richiesta e diversa da quella degli altri. Un po’ invecchiata è la struttura, divisa in tre parti (la prima pubblicazione avvenne del resto in tre volumi), con una prima sezione marinaresca-avventurosa narrata dal capitano di una nave che scrive alla sorella raccontando la sua missione esplorativa tra i ghiacci artici, poi una seconda occupata dal resoconto di Frankenstein, qui una terza in cui è la creatura a raccontare le cose dal proprio punto di vista. Mi ha colpito la scoperta del mondo attraverso i sensi, che insegnano al mostro attraverso l’esperienza (mi ha ricordato il “Trattato delle Sensazioni” di Condillac). Mi sono stupito anche del fatto che lo scienziato avesse l’intenzione di dar vita a una creatura di bell’aspetto (intenzione poi fallita) e ho trovato la spiegazione del perché il mostro fosse così gigantesco: lavorare sul formato grande era più facile. Mancano gli approfondimenti scientifici (non si accenna a come Frankenstein possa aver fatto quel che ha fatto), mancano riferimenti al divino (la creatura ha un’anima?), non c’è nessun castello isolato colpito da un fulmine. In ogni caso, ben fatto Mary.

 

venerdì 12 luglio 2024

UNA STORIA SEMPLICE



 
 
 
Leonardo Sciascia
UNA STORIA SEMPLICE
Adelphi
2023, brossurato
80 pagine, 10 euro

Leonardo Sciascia (1921-1989) è sempre un autore straordinario, anche nelle opere meno note. Non saprei dire se “Una storia semplice” (1989) sia un’opera meno nota de “Il giorno della civetta”, sicuramente è più breve. Si tratta dell’ultimo romanzo dello scrittore di Racalmuto, da cui nel 1991 è stato tratto un film con Gian Maria Volonté, che a sua volta recitò per l’ultima volta in una pellicola italiana (era stato tra gli interpreti anche delle versioni cinematografiche di “A ciascuno il suo” e di “Todo modo”). “Una storia semplice”, il cui spunto iniziale venne fornito a Sciascia da un fatto di cronaca (il furto della Natività del Caravaggio, tela rubata a Palermo nel 1969 e mai più ritrovata), è in realtà una storia complicata e, com’è regola nei racconti dell’autore, senza lieto fine. Siamo in una località siciliana, Monterosso, dove il 18 marzo 1989 (la data è citata) viene ucciso, in casa propria, l’ex diplomatico Giorgio Roccella, tornato, senza preavviso e dopo una lunga assenza, nella casa di origine, una masseria in campagna, lasciata in custodia al parroco del luogo, padre Cricco. L’assassino, persona nota alla vittima, inscena un suicidio, commettendo però qualche piccolo errore. Inizialmente, proprio come un caso di suicidio si pensa di archiviare le pratica: una storia semplice, appunto. Una storia che si legge, ammirandone la scrittura puntuale ed essenziale, come se fosse un giallo, e in effetti di un giallo si tratta, con indizi disseminati e particolari rivelatori, dalle tinte noir e persino thriller (drammatica e tesissima la scena del commissario che pulisce la pistola puntandola contro il brigadiere), ma i canoni del genere vengono contraddetti allorché si racconta dell’inefficienza degli esperti della scientifica, della rivalità tra poliziotti e carabinieri, della presunzione dei graduati incaricati delle indagini che si rifiutano di ascoltare il parere degli inferiori di grado che però l’hanno vista giusta, della preferenza degli investigatori verso la pista facile, degli arresti senza senso, degli aggiustamenti della realtà da parte delle istituzioni in favore di versioni di comodo che mettano le magagne a tacere, della connivenza con la malavita delle autorità. Si diceva della scrittura puntuale ed essenziale: l’autore parla della propria, allorché descrive il brigadiere (così definito, senza un nome, per tutto il romanzo) che prende appunti sulla scena del delitto. Leggiamo, infatti: “il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie”. Non manca l’ironia, mutuata da Pirandello, e basta vedere, come esempio, ciò che si dice degli “esperti scientifici” della questura, che erano, secondo il brigadiere, soltanto dei “privilegiati, non avendo fino ad allora esperienza di un solo caso in cui costoro avessero dato un contributo risolutivo, di confusione piuttosto”. Un piccolo gioiello, di poco spessore soltanto quanto a numero di pagine.

 

lunedì 8 luglio 2024

LA BANDA DI JOHN COFFIN

 

 
Mauro Boselli
Bruno Brindisi
LA BANDA DI JOHN COFFIN
Sergio Bonelli Editore
2022, cartonato
320 pagine, 26 euro

Da quando, nel 2018, venne varata la seconda collana mensile di avventure inedite di Tex, denominata “Tex Willer” per distinguerla dalla testata madre, le storie pubblicate in edicola in prima uscita hanno cominciato a venire raccolte in cartonati destinati alla distribuzione libraria. “La banda di John Coffin” è il quinto volume della serie  (in questo spazio ci siamo già occupati di alcuni altri), ma si rivela particolarmente importante per la ricostruzione della biografia del giovane cowboy divenuto fuorilegge suo malgrado ma destinato a venire arruolato tra i Rangers del Texas e a dar vita a una saga western a fumetti che non ha uguali nel mondo per durata, successo e qualità di testi e disegni. La collana “Tex Willer” nasce infatti, nell’anno del settantennale del personaggio (in edicola ininterrottamente dal 1948), per raccontare la gioventù dell’eroe, ricapitolando ciò che già sapevamo grazie ad alcuni racconti di Giovanni Luigi Bonelli e coordinando le informazioni fornite da certe storie di Mauro Boselli con avventure del tutto inedite. Proprio Boselli confeziona dunque il racconto di cui ci stiamo occupando, che mette insieme quanto narrato nel classico bonelliano “Il passato di Tex”, disegnato nel 1966 da Aurelio Galleppini, collegandolo con il proprio “Nueces Valley” (un Maxi Tex del 2017), in cui si stabilisce nel 1838 l’anno di nascita del futuro Aquila della Notte, ma anche con “Il totem misterioso”, la leggendaria prima striscia di Bonelli & Galep, oltre con “Vivo o morto” l’albo di esordio della nuova testata.  Spiega Boselli nella sua introduzione, intitolata “Ritorno al passato”: “Nella sua prima avventura Tex ha a che fare con un generico bandito del West, John Coffin, che, a parte il nome funereo (‘coffin’ significa ‘bara’) si distingue solo per odiosità e tenacia. Ecco che però, molti anni dopo, scrivendo appunto ‘Il passato di Tex’ sulle origini dell’eroe, Bonelli decise di recuperare  proprio quel primo avverrsario, facendone uno degli sgherri più subdoli e infidi della banda di Rebo e inserendlo nello snodo fondamentale della vita di Tex, la sua vendetta. Coffin assume, alla luce di questa nuova storia, una diversa statura”. Alla fine di “Vivo o morto”, in effetti, del bandito non si vede il cadavere, ma solo la sua casa in fiamme. Scopriamo dunque che il pendaglio da forca si è salvato e Tex se lo ritrova di fronte. Altrettanto in effetti, è vero che all’inizio de “Il totem misterioso” il nostro eroe conosce già il bieco avversario: "Che il diavolo mi porti se quello non è quel dannato di Coffin!", esclama scrutando dall'alto di una collina il polverone di una masnada di ceffi a cavallo. E poiché gli scagnozzi stanno inseguendo una graziosa squaw, il nostro eroe non esita a correrle in soccorso. Coffin e i suoi tirapiedi vengono bloccati all'imbocco di una gola: possiamo così vedere in faccia il losco figuro. Sguardo torvo, barba non rasata, cappellaccio in testa e fazzoletto al collo, Coffin non si distingue in nulla dagli altri pendagli da forca che lo accompagnano. Come ben dice Boselli, scopriremo in seguito, ne "Il passato di Tex" che Coffin apparteneva alla cricca di Tom Rebo, l'assassino di Sam Willer, fratello minore del nostro. Rebo aveva sul suo libro paga anche Steve Mallory,  lo sceriffo di Culver City,  il paese che fa da scenario a parte dello scontro con Coffin. Quando Tex consuma la sua vendetta contro Rebo, è proprio Mallory a imporre una taglia sulla sua testa, trasformandolo in un fuorilegge. Non a caso, nella prima striscia del "Totem misterioso", il futuro Aquila della Notte è braccato dalla giustizia. Boselli è bravissimo a serrare le fila di trame e sottotrame, aggiungendoci del suo, e Bruno Brindisi sembra nato per disegnare racconti western.