L'ISOLA DI ARTURO
Einaudi
brossurato
398 pagine, 13 euro
Se "La Storia", il capolavoro di Elsa Morante di cui ci siamo già occupati, datato 1974 e ambientato durante gli anni della Guerra, mostra come i grandi eventi scorrano come macine da mulino sulla pelle dei più umili e dei più deboli, e la Storia occorra raccontarla dal livello della strada, nell'altro grande romanzo della scrittrice romana (1912-1985), "L'isola di Arturo", collocato idealmente negli anni Trenta, le vicende internazionali sono assenti, e tutto si svolge in un microcosmo, non soltanto quello di un'isola minuscola, Procida, quanto piuttosto quello interiore di un singolo personaggio, a cui ogni accadimento è riferito. Pubblicato nel 1957, vinse il Premio Strega, fu un grande successo destinato a durare nel tempo fino ai giorni nostri, e ne venne tratto un film nel 1962. Sicuramente si tratta di un romanzo fondamentale, la cui lettura ipnotizza e commuove, raccontato in prima persona dal protagonista, Arturo Gerace, a distanza di anni, quando, già maturo, e senza che quasi nulla ci dica della sua situazione da adulto, rievoca i ricordi della propria infanzia e della propria progressiva crescita, dalla nascita fino ai sedici anni. Il linguaggio del narratore, consapevole ed elaborato, è quello di chi sembri parlare di un altro, senza indulgenze né autoassoluzioni: si tratta di un racconto che mostra un unico punto di vista, quasi solipsistico. Si potrebbe parlare di romanzo di formazione, visto che segue il percorso di maturazione di un ragazzo, ma in realtà è una specie di ricostruzione a ritroso della propria storia. Arturo è figlio dell'enigmatico Wilhelm Gerace, figlio di un procidano e di una donna tedesca, vissuto in Germania con la madre fino all'adolescenza e poi, riconosciuto dal padre e accolto nella sua casa di Procida, dove nel frattempo ha raggiunto un certo benessere economico. Alla morte del genitore, Wilhelm, diverso da tutti gli abitanti dell'isola perché biondo e teutonico nei lineamenti, non solo eredita certi suoi possedimenti, che gli permettono di vivere di rendita, ma riceve un'altra eredità, la grande casa, un ex monastero addirittura, di proprietà di un ricco e bizzarro misogino, Romeo, detto l'Amalfitano. Costui disprezza le donne e accoglie nella sua dimora, organizzando feste e ritrovi, soltanto ragazzi e giovani, al punto che l'abitazione viene soprannominata "la casa dei guaglioni". Il fatto che Romeo la lasci a Wilhelm, divenuto il suo prediletto, indica (la cosa appare chiara senza che mai la si espliciti) il tipo di relazione che l'amalfitano stringeva con i guaglioni che frequentavano la sua casa. Divenuto proprietario del vecchio convento, il biondino lo lascia tuttavia andare in malora, limitandosi a occuparne poche stanze abbandonando il resto al degrado e alla sporcizia. Sposa comunque una ragazza giovanissima (sedici anni, all'epoca, era la normale età perché una donna si maritasse) che, condotta nella Casa dei Guaglioni, muore di parto mettendo al mondo Arturo. Il bambino ha per balia un giovane, Silvestro, chiamato dal padre, misogino al pari di Romeo, ad allevare il figlio, di cui praticamente si disinteressa. Wilhelm, infatti, lascia l'isola per settimane, a volte per mesi, andandosene non si sa dove, e facendo ritorno senza preavviso, mai dando notizie di sé. I suoi soggiorni a Procida sono sempre brevi, una smania interiore lo spinge a ripartire. Silvestro si prende cura di Arturo per qualche anno, insegnandogli a camminare, a parlare, a scrivere e a leggere. Poi, chiamato a fare il servizio militare, si trasferisce sul continente e il bambino impara a cavarsela da solo. Wilhelm si preoccupa solo di prendere accordi perché un contadino, Costante, porti da mangiare al ragazzino durante le sue frequenti assenze, dopodiché Arturo vive in perfetta solitudine. Non viene neppure mandato a scuola. Per fortuna, si istruisce da solo leggendo e rileggendo i libri della piccola biblioteca dell'amalfitano. Poiché il padre disprezza i procidani, anche lui se ne tiene lontano e conduce giochi solitari fra gli scogli, sulla spiaggia, a bordo di una piccola barca con cui affronta il mare da solo. E' una sorta di Pippi Calzelunghe, con il padre il viaggio per mare, senza però neppure l'amicizia di Annika e Tommy. Al posto della scimmietta, la cagna Immacolatella, che lo segue dovunque. Se i protagonisti de "La Storia", Ida Ramundo e suo figlio Useppe, sono molto credibili, calati appunto nella realtà, la solitudine di Arturo è più difficile da concepire: viene da pensare che un bambino non possa crescere in quello stato di abbandono, e che, al di là del romanzo, un Arturo in carne e ossa avrebbe fatalmente cercato la compagnia dei suoi coetanei e ricevuto qualche cura dagli abitanti dell'isola. Tuttavia, alla Morante serve un ragazzino che, come la statua di Condillac, impari tutto da solo, sia autoreferenziale. Così come nulla ci dice dell'omosessualità di Romeo, la scrittrice sorvola anche sulla maturazione sessuale di Arturo, il quale non scrivemniente delle proprie pulsioni adolescenziali: a un certo punto lo vediamo, quindicenne, diventare amante di una giovane vedova che gli fa da nave scuola, senza che ci sia stato un avvicinamento al gran passo. Anche in questo caso, l'autrice trascura questo aspetto perché gli preme puntare le sue attenzioni sul turbamento di Arturo di fronte a un'altra donna, Nunziata, la seconda moglie che Wilhelm di punto in bianco porta a Procida di ritorno da uno dei suoi viaggi. Anche in questi caso, una ragazzina: una giovanissima napoletana di povere condizioni. E' lei, il vero grande personaggio del romanzo. Ricca di sfumature, devota, saggia, paziente, erotica oltre ogni dire nonostante la sua castigatezza, è la quintessenza della donna: irrompe nella vita di Arturo, sconvolgendola perché il ragazzo cresciuto senza una madre e senza figure femminili attorno, si trova di fronte il mistero della femminilità. Non sa gestirlo, si ammala di gelosia perché viene a spezzare l'equilibrio fra lui e suo padre, prima; poi, quando la matrigna mette al mondo Carmine, un fratellino, vede quante attenzioni una madre è in grado di dare a un figlio, e c he lui non ha mai avuto. Traumi come cannonate. Di come trattare le donne, Arturo ha il solo esempio di Wilhelm, che le disprezza e le maltratta, e che non gli ha mai dato nessuna educazione sentimentale. Anche il ragazzo, perciò, tratta Nunzia in malo modo, nonostante ne sia irresistibilmente attratto, al punto da finire per innamorarsene. Per quanto il padre sia, agli occhi del lettore, una figura ambigua, detestabile, perfino odiosa, agli occhi di Arturo lui è un eroe, un idolo, una divinità. Il ragazzo si immagina che viaggi per il mondo compiendo imprese favolose e sogna il giorno in cui potrà partire con lui. Se c'è una cosa che il padre, invece, non intende fare, è proprio occuparsi del figlio, nonostante questi viva in costante attesa del piroscafo che lo riporti a Procida. Ma dove va, Wilhelm Gerace, quando sta per mesi lontano? Cosa fa? Alla fine lo si capisce, e lo capisce anche Arturo, allorché sente il soprannome con cui lo chiama Tonino Stella, un giovane amante: Parodia. Secondo Stella, il padre di Arturo non è mai andato più lontano di Napoli, limitandosi a girare intorno al Vesuvio in cerca di compagnie maschili. La maturazione del protagonista, che segna la fine del romanzo, è segnata dalla fine dell'epoca dei sogni e dell'idealizzazione dalla figura pantera, dall'abbandono dell'infanzia, l'isola, verso la vita reale, rappresentata dal continente.