sabato 31 marzo 2018

L'ANATOMISTA



Federico Andahazi
L'ANATOMISTA
Frassinelli
1998, cartonato,
220 pagine
Matteo Realdo Colombo fu un anatomista e fisiologo cremonese, ma operante a soprattutto Padova nella prima metà del Cinquecento. Fu autore di un fondamentale trattato medico chiamato "De Re Anatomica", uscito postumo nel 1559, anno della sua morte. Scoprì il funzionamento della circolazione del sangue, smentendo teorie aristoteliche e descrivendo per la prima volta in modo corretto il meccanismo dell'ossigenazione. Il suo maestro fu Andrea Vesalio, medico belga, che insegnò a Pisa, Pavia e Bologna, medico di corte di Carlo V e Filippo II, considerato il fondatore della moderna Anatomia. Anche se pochi lo sanno, fu proprio Matteo Colombo a studiare il clitoride e a descriverlo come "l'organo che governa l'amore delle donne". Nel "De Re Anatomica" lo chiama "Amor Veneris". Clitoride (termine che si può usare sia al maschile che al femminile) è un nome che deriva dal greco, e significa "punto del solletico". Colombo ne descrisse la struttura e le funzioni, stabilendone la finalità non riproduttive. Ciò gli valse l'arresto da parte dell'Inquisizione, che lo sottopose a un processo in cui rischiò seriamente di venire condannato al rogo. Le autorità ecclesiastiche non potevano permettere che si divulgasse la notizia che le donne hanno un organo creato da Dio solo per provare piacere e non finalizzato alla procreazione. Realdo Colombo, essendo medico personale di Paolo III (Alessandro Farnese), a cui aveva salvato la vita, se la cavò con la promessa di non divulgare le sue ricerche (ma provvide affinché la divulgazione avvenisse postuma immediatamente dopo la sua morte). "L'anatomista" è un libro di Federico Andahazi, psicanalista argentino, che racconta in modo romanzesco il processo padovano a Realdo Colombo (stranamente chiamato "Renaldo"), offrendo ai lettori una credibile ricostruzione delle tesi dell'accusa e dell'autodifesa dello scienziato. Dal punto di vista narrativo, Andahazi non brilla come romanziere; tuttavia è estremamente intetessante l'argomento. Dalla documentazione proposta ho tratto spunto per il soggetto di una mia storia a fumetti (illustrata da Davide Perconti e in via di pubblicazione) intitolata "Fra le labbra".

venerdì 30 marzo 2018

QUANDO I SOCIAL NON ESISTEVANO



Gianluca Zaccarelli
QUANDO I SOCIAL NON ESISTEVANO
Storia della "Postaaa!" di Zagor
ZTN
brossura, 2018

330 pagine, 28 euro


Le associazioni di appassionati di fumetti regalano spesso delle chicche inaspettate. Gianluca Zaccarelli, in arte "Zacca", confeziona sotto l'egida del forum ZTN un libro assolutamente originale dedicato alla rubrica "Postaaa!" pubblicata sugli albi di Zagor tra il giugno del 1987 e l'ottobre del 2011, firmata di mese in mese per ventiquattro anni da Sergio Bonelli. Di ogni singola puntata il curatore fornisce la puntuale scansione, con il corredo della copertina dell'albo corrispondente. C'è una introduzione del sottoscritto, e non mancano altri brevi testi a corredo e a commento. Soltanto apparentemente l'iniziativa è riservata ai super-appassionati, perché Sergio Bonelli, nelle sue rubriche, parlava di fumetti, di libri, di film (quelli che gli piacevano) ma anche narrava aneddoti della sua vita. In altre parole, raccontava di sé. In qualche misura, "Quando i social non esistevano" è una sorta di autobiografia mai scritta, ricca non solo di notizie ma anche di immagini: spesso Sergio corredava la rubrica con illustrazioni inedite o comunque pescava nel suo archivio disegni o foto in grado di suscitare la curiosità del lettore. A volte sceneggiava persino gag e vignette scritte di suo pugno. "Postaaa!" non fu la prima rubrica di corrispondenza dedicata a Zagor, perché prima venne inaugurata “Darkwood Fermo Posta” apparsa su "Tutto Zagor" l'anno precedente. Con il numero 263 (Zenith 314) del giugno 1987, anche la testata madre inaugura uno spazio simile. In realtà, non è che Sergio Bonelli rispondesse in queste rubriche a tutte le lettere e che in ogni puntata ne fossero ospitate quante più possibili. E’ facile constatare come spesso un piccolo passaggio di una missiva offrisse a Sergio il pretesto per trattare un argomento che all’editore piaceva affrontare o che riteneva potessero interessare il pubblico. Le lettere, erano, insomma, comunque un pretesto e non venivano riportate per esteso. Quando c’era da segnalare una iniziativa editoriale legata allo Spirito con la Scure lo faceva: per esempio, diede molto spazio allo Speciale Zagor della fanzine “Collezionare” confezionato dal sottoscritto con Francesco Manetti e Alessandro Monti (1990). Nel novembre del 2011, con lo Zenith n° 607, la rubrica "Postaaa!" è stata sostituita da "I tamburi di Darkwood". Nuova intestazione, nuova grafica, nuovo estensore. Il sottoscritto, chiamato da Mauro Marcheselli a prendere il posto, nella cura dei testi di pagina 4 della collana Zenith, di Sergio Bonelli. Il quale era purtroppo scomparso, come si sa, nel settembre precedente.

domenica 18 marzo 2018

IL SENSO DEL DOLORE



Maurizio De Giovanni
IL SENSO DEL DOLORE
Einaudi
2012, brossurato
216 pagine, € 12,00


Questo primo romanzo con protagonista il commissario Ricciardi venne pubblicato nel 2006 con il titolo "Le lacrime del pagliaccio" da Graus Editore, per poi venire di nuovo proposto l'anno successivo da Fandango con il titolo attuale. In seguito, visto il riscontro di pubblico le edizioni si sono succedute con il passaggio alla Einaudi fino alla versione a fumetti del 2017 realizzata dalla Bonelli. Sia la qualifica di commissario, sia l'ambientazione negli anni Trenta, sia il metodo di indagine "psicologico", sia il carattere burbero fanno di Ricciardi una sorta di Maigret in salsa napoletana, anche se sono evidenti gli elementi originali: la convivenza forzata e non indolore con il fascismo, i riferimenti a una realtà partenopea particolarmente documentata, ma soprattutto la caratteristica tutta ricciardiana dei fantasmi dei morti ammazzati che il poliziotto di De Giovanni ha il dono (o, per meglio dire, la maledizione) di vedere. Proprio il fantasma della vittima di turno sulla cui morte Ricciardi indaga ne "Il senso del dolore", quello del tenore Arnaldo Vezzi (ucciso nel uo camerino all'interno del teatro San Carlo prima di una rappresentazione de "I pagliacci"), fornisce al commissario uno degli indizi che lo portano a risolvere il caso. Il cantante, benché dotato di straordinario talento, si rivela un fetente di prima categoria e vien fatto di tifare per chiunque l'abbia ammazzato. Alla fine, infatti, lo stesso Ricciardi cerca di proteggere, per quanto possibile, il reo confesso - dimostrando una dose di umanità che gli fa onore (anche in questo c'è una somiglianza con Maigret). Del resto il commissario di De Giovanni ha appunto quel "senso del dolore" a cui allude il titolo: proprio la condanna della continua visione dei fantasmi lo porta a sentire su di sé il peso della sofferenza altrui, e lo incupisce trasformando il suo volto in una maschera impassibile dietro la quale cerca di difendersi, a costo di sembrare antipatico a tutti (a volte anche al lettore) trame che al fedele brigadiere Maione. Anche se per vie traverse, le indagini conducono  alla scoperta della verità e alla fine i perché e i percome sono convincenti e drammatici. Si uccide per fame o per amore, dice Ricciardi più volte nel corso del romanzo, e risulta aver ragione.

giovedì 15 marzo 2018

IL NEGROMANTE E ALTRI INCUBI


Si intitola "Il negromante e altri incubi". L'editore è Cut-Up. Gli autori sono Stefano Andreucci e il sottoscritto. Cartonato, 56 pagine, in bianco e nero, formato 21x30 cm, 14.00 euro. Si tratta del mio terzo libro con Cut-Up dopo "Dall'altra parte" e "Facezie", ma è il primo a fumetti. Raccoglie cinque storie di horror medievale pubblicate tra il 1990 e il 1991 sulla rivista "Mostri", che rappresentano i primi passi della mia carriera di sceneggiatore. Insieme a me compiva i suoi anche Stefano Andreucci, destinato a diventare uno dei migliori disegnatori del mondo (lo dico senza timore di venire smentito). Se siete curiosi di scoprire com'eravamo ai blocchi di partenza, non avete che da procurarvi il volume. Sono abbastanza certo che anche i cinque racconti siano divertenti, perché questo è il parere che continua a venirmi riferito, a distanza di quasi trent'anni, da tanti che li hanno letti. Il volume è preceduto da una (breve) prefazione di Paolo Di Orazio, protagonista della stagione di "Splatter" e delle pubblicazioni di quella gioiosa macchina da guerra che fu l'Acme di Francesco Coniglio e Silver, e da una (lunga) introduzione mia.  Da quattro delle cinque storie illustrate da Andreucci ho tratto altrettanti racconti in prosa contenuti nell’antologia horror “Dall’altra parte”, una quinta è stata pubblicata negli Stati Uniti dalla rivista Brian Yuzna's Horrorama.


Nel 1990, mentre cercavo di entrare nel mondo del fumetto come sceneggiatore dopo aver coltivato fin dall'infanzia una grande passione verso gli eroi di carta nel ruolo di lettore, attendevo speranzoso gli esiti di un tentativo in corso con lo Spirito con la Scure.  Ero però tutt’altro che certo di riuscire a portare a termine l’impresa con un risultato soddisfacente e niente garantiva che dopo il primo Zagor che Ferri stava disegnando avrei potuto scriverne altri. Incoraggiato dal riscontro positivo in casa Bonelli, decisi di tentare qualche altro colpo. A uno come me, abituato a recarsi tutti i giorni in edicola e non uscire prima di aver passato ai raggi X tutti gli scaffali, non era certo sfuggita la nascita di una nuova casa editrice chiamata ACME che aveva cominciato a mandare in edicola due testate horror in formato comic book, “Splatter” e “Mostri”, che non si limitavano a cavalcare l’onda del successo di Dylan Dog ma proponevano giovani autori di ottimo livello quali Stefano Andreucci, Bruno Brindisi, Roberto De Angelis, Luigi Siniscalchi e tanti altri. Perciò inviai all’indirizzo romano della redazione alcuni miei soggetti, incrociando le dita. 

Non passò una settimana che ricevetti una telefonata. “Sono Francesco Coniglio”, disse il mio interlocutore. Non avevo mai visto Francesco di persona, ma il suo nome era una sorta di mito presso i fanzinari, dato che era stato, con Luca Raffaelli, uno degli artefici di una fanzine storica del comicdom italiano, “L’Urlo”, passata alla storia per certe contestazioni durante l’edizione di Lucca Comics del 1978. Che io conoscessi Coniglio di fama, dunque, era nell’ordine naturale delle cose. Che lui conoscesse me, invece, no. Eppure era così: Francesco disse di essere un fedele lettore di “Collezionare”, la rivista amatoriale che io dirigevo, e di essere sobbalzato nel leggere il mio nome quale autore delle proposte che gli avevo inviato, dato che apprezzava il mio lavoro ed era proprio in cerca di gente come me.  Mi  spiegò che l'ACME era sua e di Silver (il celebre autore di Lupo Alberto), che mi conosceva di fama per Collezionare, che sapeva tutto di me perché anche all'epoca era un personaggio attentissimo, con le mani in pasta dappertutto. Mi invitò a raggiungerlo a Roma nel più breve tempo possibile. Nel giro di pochi giorni, saltai sul treno e feci la sua conoscenza nella redazione dell’Acme. Mi trovai di fronte una persona straordinaria, sulla mia stessa lunghezza d’onda: grande appassionato di Zagor, pieno d’entusiasmo e di idee, rapidissimo nel prendere decisioni e nel mettere in campo progetti. Scoprii che non si era improvvisato editore con “Mostri” e “Splatter” ma che da tempo si occupava di fumetti erotici con la sigla EPP , curando comunque numerosissime altre iniziative editoriali. Mi disse che i soggetti che avevo inviato gli erano piaciuti e mi rimandò al responsabile delle sceneggiature che le avrebbe valutate nel concreto e che era Roberto Dal Prà: per me anche lui era un mito, lo sceneggiatore de "L'uomo di Mosca", di Jan Karta e di Anastasia Brown, di cui leggevo le storie sulla rivista Comic Art. Andammo a pranzo insieme io, lui e Roberto Dal Prà. Roberto mi approvò un soggetto, che io sceneggiai. Si trattava del primo di cinque racconti che poi furono disegnati da Stefano Andreucci e che uscirono sulla rivista Mostri. Racconti apparsi su numeri molto ravvicinati tra di loro: nel giro di sette-otto mesi uscirono tutti, come fosse una miniserie. Di Stefano all’epoca non sapevo nulla, scoprii solo a cose fatte chi aveva illustrato le mie storie. Anche lui, come me, era alle prime esperienze: si tratta dei nostri primi lavori. Si vedeva già però qualcosa in controluce.


Tornai molte altre volte a Roma, incontrando personaggi incredibili come Greg (della coppia Greg & Lillo) che all’epoca lavorava come redattore della Acme e disegnava un esilarante fumetto dal titolo “I sottotitolati”. Ogni volta che vedevo Coniglio, tornavo a casa carico di cose su cui lavorare, avendo respirato l’aria effervescente di una redazione in cui si inventavano testate che erano proprio come quelle che io avrei voluto trovare in edicola: Torpedo, Cattivik, Lupo Alberto, Hard Comic Album, Animal Comic, Hey Rock, Ciacci, Zio Tibia. Alcuni progetti non arrivarono mai in porto, ma ci lavorammo. Qualche mese dopo, quando il nostro rapporto di collaborazione si fu consolidato, Francesco mi propose di trasferirmi a Roma a lavorare da lui. Lo ascoltai incredulo: si trattava di una vera e propria offerta di assunzione per fare il redattore della Acme. Fu in pratica il primo a convincersi che avevo la stoffa per essere utile in una Casa editrice. Era il lavoro che avevo sempre sognato. Chiesi quanto fosse lo stipendio. Era il normale stipendio per quel lavoro, né più né meno. Io però, a Firenze, avevo già un impiego e guadagnavo un po' meglio. Inoltre, trasferendomi a Roma avrei dovuto trovare un appartamento in affitto. Facendo due calcoli, capii che togliendo le spese per l’alloggio non mi sarebbe avanzato molto. Così rifiutai. Però sono sempre stato grato a Coniglio per quella dimostrazione di stima. Quando poi anni dopo mi proposero l'assunzione in Bonelli dissi di sì, e lasciai la Società Autostrade, ma questa è un'altra storia (che vi ho già raccontato). Però evidentemente era ormai nell'aria il fatto che io dovessi lavorare nel fumetto sul serio e Francesco aveva già intuito che sarei diventato un animale da redazione. Purtroppo, troppo presto, l'ACME chiuse, come varie altre Case editrici fatte e disfatte dal loro inventore, in un incredibile ottovolante di successi e fallimenti. C'erano trionfi, come quello  mensili di Lupo Alberto o dei Simpson, poi tracolli come quelli di Torpedo. Sergio Bonelli divenne socio di Coniglio e Silver dado vita al marchio Macchia Nera, che sostituì quello dell'Acme e che aveva sede a Milano in Via Ferruccio 15, la vecchia sede dell’Audace. Coniglio mi chiedeva prefazioni per certe sue pubblicazioni, oppure di curarne alcune (come il volume della collana Acme Comics dedicato alle Sturmtruppen o la raccolta delle comiche di Cico & Trampy di Nolitta & Ferri). Fu lui a chiedermi di curare la Posta e le rubriche umoristiche di Cattivik, cosa che feci per lungo tempo con lo pseudonimo di Gustavo La Fogna.  Poi io Francesco abbiamo preso strade diverse, ma siamo sempre rimasti in contatto. 

Mentre presentavo i racconti per Mostri, provai anche a presentare dei soggetti per Splatter, che furono tutti bocciati. L’ACME però pubblicava anche Cattivik e chiesi se potevo proporre qualcosa anche per quel personaggio. Risposero subito “Eccome!”. Erano ben contenti, perché gli serviva gente spiritosa in grado di scrivere storie per il Genio del Male. Presentai primi soggetti, e in quel caso fu Vincenzo Perrone l’editor che mi guidò inizialmente. In breve cominciai a scrivere storie di Cattivik a tambur battente. A un certo punto Silver in persona mi chiese perché non cominciassi a scrivere anche qualche storia di Lupo Alberto. Non avevo osato chiederlo. Alla fine ho fatto 40 storie di Cattivik e poi ne ho fatte 40 di Lupo Alberto. Poi a un certo punto io stesso smisi, perché, dovevo occuparmi di Zagor. Io avevo da fare, loro avevano anche altri collaboratori e a un certo punto, in modo naturale, la cosa si è esaurita. Dopo tanti anni, il volume con Cut-Up mi ha permesso di recuperare le emozioni di quei giorni. Spero che capiti anche a voi.

domenica 11 marzo 2018

GIUSTIZIA A CORPUS CHRISTI



Mauro Boselli
Corrado Mastantuono
GIUSTIZIA A CORPUS CHRISTI
Sergio Bonelli Editore
2018, cartonato

52 pagine, 8.90 euro


Un cartonato "alla francese" più bello di molti volumi francesi. Qui i disegni potrebbe essere pubblicati anche in bianco e nero senza perdere grinta e non è il (pur ottimo) colore a sostenerli. Magistrale, Mastantuono. La storia è asciutta e drammatica come ogni western ambientato nel Sud Ovest dovrebbe essere. Il prezzo, rispetto ai volumi cartonati con le medesime caratteristiche, è assolutamente concorrenziale. Perciò che cosa si può pretendere di più? La recensione potrebbe finire qua. Tuttavia, per amor di cronaca, aggiungerò che si tratta di un nuovo tassello alla ricostruzione condotta da Mauro Boselli del passato di Tex, e portata avanti sia sulla collana dei Maxi, sia sugli albi Giganti, sia su questa serie cartonata che giunge a fregiarsi in copertina del marchio dei settanta anni di Aquila della Notte. In particolare, "Giustizia a Corpus Christi" prosegue il precedente "Il vendicatore " (disegnato da Stefano Andreucci). Tex ha scoperto che gli assassini di suo padre Ken, uccisi in una storia scritta in passato da Giovanni Luigi Bonelli (ai tempi in cui c'erano ancora le serie a strisce), facevano parte di una assai più ampia organizzazione di razziatori. Sgominare la banda, che gode di agganci insospettabili e di numerose complicità, porta il giovane Willer a finire nella lista dei ricercati. Dalla sua parte, però, Tex ha un ranger, Jim Callahan, e suo fratello Sam.

martedì 6 marzo 2018

ELEGIE DUINESI




Rainer Maria Rilke
ELEGIE DUINESI
Crocetti Editore
1999, brossurato
90 pagine, 22.000 lire


Le Duineser Elegien, ovvero “Le elegie duinesi”, sono una raccolta lirica di Rainer Maria Rilke, poeta e drammaturgo boemo di lingua tedesca (nato a Praga nel 1875, morto in Svizzera nel 1926) . Le dieci composizioni furono iniziate nel 1912 durante un soggiorno di Rilke a Duino (nei pressi di Trieste), ma dopo un fulmineo impeto creativo che portò alla composizione di un primo nucleo, l’opera fu portata a compimento soltanto dieci anni dopo. In una sua introduzione a una edizione del 2006, il critico Michele Ranchetti scrive: “Ogni Elegia deve considerarsi come come una tesi che Rilke illustra in una serie di ragionamenti in poesia. Alcuni passi sono oscuri». In che conforta chi, affrontando la lettura delle liriche, resti turbato e spiazzato dalla loro bellezza quanto dalla loro oscurità. 
Tuttavia, cimentandosi nell’interpretazione, sia o non sia quella che gli voleva dare Rilke, c’è di che rimanere affascinati. Si può partire dalla constatazione di come il poeta, nato e cresciuto in un ambiente cattolico e borghese, e istintivamente portato verso una naturale religiosità, si sia progressivamente distaccato dal tradizionale modo di intendere la spiritualità e di rapportarsi a Dio. Si potrebbe dire che entra in crisi, anche perché si sente senza patria e vive in nel clima del decadentismo artistico di fine Ottocento e di inizio Novecento. Perde le certezze basilari della vita e ne cerca altre, influenzato anche dai suoi contemporanei Kafka, Freud e Nietzsche e dal precedente Schopenhauer. Rilke osserva il mondo, fa indagini sullo spirito e sulla natura, si interroga filosoficamente sull’esistenza e sulla morte. Da questo tumultuare di riflessioni, nascono le domande delle Elegie. “Essere qui è stupendo”, dice il poeta in un passaggio della settima Elegia, dove si inneggia alla vita contro il destino della morte. Nell settima il concetto è ribadito: l’uomo è fragile, ma “essere qui è tanto”, al punto che, sia pure apparentemente, “ogni cosa qui ha bisogno di noi, noi più fragili di tutto”. L’esistenza è resa più preziosa dal fatto che viviamo una sola volta: “una volta e mai più. Mai più”. Non che “essere stati di questa terra” conti qualcosa per le stelle. A loro, nulla importa. Loro sono “indicibili”. Ma conta per noi, per poter “dire”. “Dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra – al più colonna, torre… ma per dire, capisci, oh, per dire così come le cose stesse non hanno mai veramente creduto di essere”. Conta il nostro dolore, la nostra fatica, la nostra “esperienza d’amore”, la nostra testimonianza. “Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria”, contrapposta alle dimensioni indicibili. “Vedi, io vivo. Vita sovrabbondante mi zampilla nel cuore”. Questi versi mi ricordano, e chissà se c’è davvero un collegamento, quelli di una canzone di Roberto Vecchioni, “La stazione di Zima”, in cui l’uomo parla a Dio sentendosi estraneo alla sua grandezza e orgoglioso della sua dimensione umana. La dimensione divina, del resto, che Rilke racchiude nel concetto degli Angeli a cui fa costante riferimento, è inarrivabile. E’ ciò che esprime il famoso incipit della prima Elegia: “E chi allora, se gridassi mi sentirebbe, degli ordini angelici?”. La risposta è scontata: nessuno. Ma se anche uno degli Angeli scendesse a stringerci, che sarebbe di noi? “Morirei della sua più forte essenza. Perché la bellezza non è altro che l’inizio del tremendo, che appena riusciamo a sopportare, e ci fa tanta meraviglia perché, tranquillo, disdegna di distruggerci. Ogni angelo è tremendo”. Un verso magnifico, questo. Non a caso la triestina Susanna Tamaro ha intitolato proprio “Ogni angelo è tremendo” la propria autobiografia. La cosa più vicina a Dio che un uomo può provare è l’amore, soprattutto quello doloroso, non contraccambiato. Gli innamorati sono le creature più vicine agli Angeli, che comunque li ignorano. 
Un simbolo ricorrente è quello dell’albero, che dalla terra nella quale ha le radici protende i suoi rami, come braccia disperate, verso il cielo. Tra le altre tematiche delle Elegie Duinesi ci sono anche la maternità, la paternità, l’infanzia, gli eroi, la memoria, la caducità della vita sublimata però dalla creazione artistica, la paura della morte. Nell’ottava Elegia si confronta il diverso destino degli uomini e degli animali: entrambi abbiamo, come creature dal tempo limitato, la morte che ci segue. Però loro guardano davanti, noi guardiamo indietro. La morte la vediamo soltanto noi. “L’animale, libero, ha la sua morte sempre dietro di sé e Dio davanti, e quando se ne va, allora va in eterno, come scorrono le fontane. Noi non abbiamo mai davanti, neanche per un sol giorno, il puro spazio nel quale i fiori sbocciano in continuazione”. Nella decima Elegia si affronta il tema della felicità. Secondo Rilke, la felicità è come una pioggia “che cade a primavera sulla terra nera”. Piove quando vuole lei, non quando vogliamo noi. Se lo capissimo, “noi che pensiamo alla felicità come a qualcosa che sale, sentiremmo l’emozione, che quasi ci sgomenta, di quando una cosa felice cade”.

venerdì 2 marzo 2018

FINE TURNO





Stephen King
FINE TURNO
Sperling & Kupfer
2016, cartonato
480 pagine, 19.90 euro


Ed ecco il terzo e ultimo capitolo della trilogia cominciata con "Mr. Mercedes" e proseguita con "Chi perde paga". Con "Fine turno" Stephen King ritorna a occuparsi del serial killer (ma è un po' riduttivo definirlo così) Brady Hartsfield, psicopatico con il pallino delle stragi e dell'induzione al suicidio altrui. Il filo conduttore dei tre romanzi è un poliziotto in pensione, Bill Hodges, che compare in ognuna delle storie, mentre Hartsfield nel secondo libro è solo una figura di contorno (giace in ospedale apparentemente in coma). Che il pazzo criminale si risvegliasse, un po' ce lo aspettavamo tutti, ma King ci stupisce con il come avviene il risveglio. Dopo due romanzi sostanzialmente "gialli", o thriller, o noir, adesso ecco fare irruzione il paranormale, scatenato dai farmaci sperimentali che un medico decide di testare su Hartsfield. Farmaci che gli donano il potere di prendere possesso con la mente dei corpi altrui e di agire anche attraverso un mortale videogioco con cui riesce a spingere le sue vittime al suicidio, riprendendo la vecchia passione. Nella sua nota finale King scrive: "'Fine turno' è un'opera di narrativa ma l'alto tasso di suicidi è una triste realtà". King accenna anche al pericolo dell'emulazione tra i giovani: ogni suicidio finito sui social provoca altri dieci tentativi, due dei quali riescono. A complicare e rendere più drammatica la vicenda c'è il tumore al pancreas di Brady, quello che segna, appunto, il suo "fine turno". Non è il miglior romanzo di King, ma si lascia leggere con qualche brivido.