Benjamin Stevenson
TUTTI NELLA MIA FAMIGLIA HANNO UCCISO QUALCUNO
Feltrinelli
2022, brossurato
384 pagine, 19 euro
I gialli che preferisco sono quelli in cui l’autore gioca a carte con il lettore. Quelli, cioè, in cui chi legge alla fine ha a disposizione tutti gli indizi per scoprire la verità anticipando di un soffio la soluzione del mistero. Naturalmente, come in ogni partita a carte, a chi siede al tavolo con noi è richiesto di non barare. Sono ammessi, però, i giochi di prestigio sotto i nostri occhi. Lo so bene (benissimo) che il poliziesco ha tanti sottogeneri (dal legal thriller al police procedural passando per l’hard boiled), tante declinazioni, tante frecce nella propria faretra e che può servire a rappresentare realtà più sfaccettate e credibili di quelle dei romanzi con i delitti della camera chiusa. Sono consapevole che ci sono noir che svolgono persino funzioni di denuncia sociale o gialli contaminati con l’horror, il western, il romanzo storico o la fantascienza. Però, che ci volete fare, a me fa impazzire Ellery Queen che riunisce tutti i possibili colpevoli in un salotto e spiega per filo e per segno perché l’assassino è il meno prevedibile. Se poi lo scrittore riesce a non limitare il senso e il succo del racconto al “whodunit” (o alla scoperta di “chi è stato”), e quindi a imbastire una buona trama con dei buoni personaggi, tanto meglio. Benjamin Stevenson, brillante autore australiano che ha spopolato in mezzo mondo con questo suo primo giallo, evidentemente la pensa come me e premette al romanzo le dieci regole del “Decalogo del giallo perfetto” scritte nel 1929 da Ronald Knox, ma esiste un elenco di venti stabilite l’anno prima da S.S.Van Dine nell’articolo “Twenty Rules for Writing Detective Stories” apparso su “The American Magazine” nel 1928 (esistono comunque altri elenchi del genere). Stevenson non le cita ma il succo è lo stesso: il colpevole deve essere un personaggio già noto al lettore, sono esclusi interventi soprannaturali e occulti, il detective non può arrivare alla soluzione per caso, lo scrittore non può celare indizi noti a chi conduce le indagini, il Watson della situazione deve essere meno intelligente del lettore medio. E così via (è tutto molto interessante, sia nel decalogo di Konox che della lista di Van Dine). Stabilite queste premesse, l’io narrante di “Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno”, che coincide con il personaggio a cui è assegnato il ruolo di detective, Ernest Cunningham, si rivolge direttamente al lettore come un attore che sfonda la quarta parete e, per tutto il romanzo, gioca a carte con lui o, meglio, si comporta come un prestigiatore che invita il pubblico a controllare come non abbia assi nella manica o come un certo lucchetto sia davvero chiuso. Anticipa all’inizio le pagine in cui ci saranno dei morti, addirittura. Chi scrive e chi legge sono insomma perfettamente consapevoli di stare narrando e ascoltando un giallo e veniamo costantemente rassicurati sul fatto che le regole vengono rispettate. Ciò detto, il romanzo si legge con curiosità e divertimento: una riunione di famiglia in un albergo montano che resta isolato nella neve (come accade in “Trappola per topi” di Agatha Christie) mette a confronto madri, figli, zii, cognati, fratelli e sorelle, tutti con qualcosa da nascondere, e dà il via a una serie di misteriosi omicidi. “Everyone in my family has killed someone” è un titolo che dice il vero, ma che va anche interpretato, caso per caso, fino alla soluzione piuttosto macchinosa, ma rigorosamente onesta. Ci si diverte molto, senza che ci sia nulla di comico: ad Agatha Christie sarebbe piaciuto.