domenica 23 giugno 2024

TUTTI NELLA MIA FAMIGLIA HANNO UCCISO QUALCUNO


 

Benjamin Stevenson
TUTTI NELLA MIA FAMIGLIA HANNO UCCISO QUALCUNO
Feltrinelli
2022, brossurato
384 pagine, 19 euro

I gialli che preferisco sono quelli in cui l’autore gioca a carte con il lettore. Quelli, cioè, in cui chi legge alla fine ha a disposizione tutti gli indizi per scoprire la verità anticipando di un soffio la soluzione del mistero. Naturalmente, come in ogni partita a carte, a chi siede al tavolo con noi è richiesto di non barare. Sono ammessi, però, i giochi di prestigio sotto i nostri occhi. Lo so bene (benissimo) che il poliziesco ha tanti sottogeneri (dal legal thriller al police procedural passando per l’hard boiled), tante declinazioni, tante frecce nella propria faretra e che può servire a rappresentare realtà più sfaccettate e credibili di quelle dei romanzi con i delitti della camera chiusa. Sono consapevole che ci sono noir che svolgono persino funzioni di denuncia sociale o gialli contaminati con l’horror, il western, il romanzo storico o la fantascienza. Però, che ci volete fare, a me fa impazzire Ellery Queen che riunisce tutti i  possibili colpevoli in un salotto e spiega per filo e per segno perché l’assassino è il meno prevedibile. Se poi lo scrittore riesce a non limitare il senso e il succo del racconto al “whodunit” (o alla scoperta di “chi è stato”), e quindi a imbastire una buona trama con dei buoni personaggi, tanto meglio. Benjamin Stevenson, brillante autore australiano che ha spopolato in mezzo mondo con questo suo primo giallo, evidentemente la pensa come me e premette al romanzo le dieci regole del “Decalogo del giallo perfetto” scritte nel 1929 da Ronald Knox, ma esiste un elenco di venti stabilite l’anno prima da S.S.Van Dine nell’articolo “Twenty Rules for Writing Detective Stories” apparso su “The American Magazine” nel 1928 (esistono comunque altri elenchi del genere). Stevenson non le cita ma il succo è lo stesso: il colpevole deve essere un personaggio già noto al lettore, sono esclusi interventi soprannaturali e occulti, il detective non può arrivare alla soluzione per caso, lo scrittore non può celare indizi noti a chi conduce le indagini, il Watson della situazione deve essere meno intelligente del lettore medio. E così via (è tutto molto interessante, sia nel decalogo di Konox che della lista di Van Dine). Stabilite queste premesse, l’io narrante di “Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno”, che coincide con il personaggio a cui è assegnato il ruolo di detective, Ernest Cunningham, si rivolge direttamente al lettore come un attore che sfonda la quarta parete e, per tutto il romanzo, gioca a carte con lui o, meglio, si comporta come un prestigiatore che invita il pubblico a controllare come non abbia assi nella manica o come un certo lucchetto sia davvero chiuso. Anticipa all’inizio le pagine in cui ci saranno dei morti, addirittura. Chi scrive e chi legge sono insomma perfettamente consapevoli di stare narrando e ascoltando un giallo e veniamo costantemente rassicurati sul fatto che le regole vengono rispettate. Ciò detto, il romanzo si legge con curiosità e divertimento: una riunione di famiglia in un albergo montano che resta isolato nella neve (come accade in “Trappola per topi” di Agatha Christie) mette a confronto madri, figli, zii, cognati, fratelli e sorelle, tutti con qualcosa da nascondere, e dà il via a una serie di misteriosi omicidi. “Everyone in my family has killed someone” è un titolo che dice il vero, ma che va anche interpretato, caso per caso, fino alla soluzione piuttosto macchinosa, ma rigorosamente onesta. Ci si diverte molto, senza che ci sia nulla di comico: ad Agatha Christie sarebbe piaciuto.
 

sabato 22 giugno 2024

LE AVVENTURE DI OLIVER TWIST

 


 
 
Charles Dickens
LE AVVENTURE DI OLIVER TWIST
Rizzoli
brossurato, 1981
482 pagine, 5000 lire

Ci sono romanzi che si leggono da ragazzi e che poi, rileggendoli da adulti, sembrano tutt’altra cosa. “Le avventure di Oliver Twist” (o più propriamente “Oliver Twist”, dato che questo fu il titolo originario) è uno di questi. La prima impressione che ho ricavato dalla rilettura è che non si tratti in nessun modo di un libro per ragazzi. Perché accidenti mi venne dato in mano mentre frequentavo le elementari? Con ogni probabilità lo ebbi in regalo in una edizione purgata ed edulcorata, resta il fatto che veniva ritenuto un classico della letteratura per giovanissimi, al pari di “Pattini d’argento”, “Pel di Carota” e “Pollyanna”. A scanso di ogni equivoco, Charles Dickens si rivolgeva a un pubblico adulto. 
In secondo luogo, mi sono meravigliato di come Oliver Twist, il ragazzino il cui nome dà il titolo al romanzo, non ne sia il personaggio principale. Anzi, fra tutte le figure vividamente descritte e caratterizzate dall’autore, Oliver è la più sbiadita e insignificante. A pensarci bene, è addirittura la meno probabile: come può un bambino cresciuto in un orfanotrofio fra digiuni e percosse, restare incorrotto e incorruttibile, nutrire solo buoni sentimenti, dimostrare tutte le doti del figlio perfetto, proporsi come creatura adorabile? Se c’è un motivo per cui Oliver può attraversare l’inferno senza coprirsi di fuliggine, Dickens non ce lo spiega: non partecipiamo mai davvero ai pensieri del ragazzo, che sembra solo messo lì a dimostrare la cattiveria altrui. Vero è, tuttavia, che Oliver Twist è il primo bambino protagonista di un romanzo in lingua inglese. 
Ciò detto, il romanzo dello scrittore britannico, uscito a puntate mensili tra il 1837 e il 1939 sulla rivista “Bentley’s Miscellany” (e subito raccolto in volume), è ricchissimo di personaggi memorabili che sviluppano una trama non soltanto avvincente ma anche pregna di denunce sociali. L’affresco della Londra della prima metà dell’Ottocento è sconvolgente e drammatico, soprattutto antiromantico e contro ogni retorica celebrativa. La vita quotidiana per le strade sporche affollate di poveri, orfani, ammalati e criminali, affollate di una umanità disperata e abbrutita è descritta senza edulcorazioni, se non quelle riservate al sesso (prostituzione, promiscuità) a cui si allude senza esplicitare ciò che è comunque immediatamente chiaro. Lo stesso Oliver nasce da una relazione extraconiugale. Ci sono pagine crudelissime, come quella dell’uccisione di Nancy da parte di Bill Sikes, la morte dello stesso Sikes, l’impiccagione di Fagin, ma anche, nelle pagine iniziali, la fine di stenti di una giovane donna la cui madre anziana si chiede perché sia morta la figlia e non lei. 
Un’altra caratteristica del romanzo che mi è balzata agli occhi rileggendolo è il ricorso da parte dell’autore, assai più frequente di quanto si possa immaginare, al sarcasmo e all’ironia nel farsi beffe dell’ipocrisia della società dell’epoca, del suo sistema assistenziale ed educativo, ma anche di quello giudiziario. 
Personaggi memorabili, si diceva, e già ne abbiamo citati tre: il crudele Sikes, ladro e assassino; Nancy, la prostituta uccisa perché voleva redimersi; Fagin, il reclutatore di ragazzini da avviare sulla strada del crimine. Ma possiamo aggiungerci l’Artful Dodger, tradotto a volte maldestramente come “Trappolone” o più congruamente “l’Astuto Briccone” in altre occasioni; Monks, che trama perché il passato della madre di Oliver (Agnes Fleming, morta nel partorirlo) non venga mai scoperto; mister Bumble e sua moglie, la signora Corney, squallidi e corrotti nonostante la loro apparenza di persone per bene e i loro incarichi pubblici. Si sono discusse e studiate le fonti di ispirazione da cui Dickens attinse (per Fagin è stato citato lo Shylock di Shakespeare), resta il fatto che la rielaborazione dell’autore dà frutti originali. E poi i “buoni”(fin troppo buoni, in verità) mister Brownlow, che alla fine adotta Oliver, e miss Rose Maylie, che si rivela essere sua zia per una serie di acrobazie dell’intreccio da feuilleton. Senza che Dickens faccia professione di fede, ci si vede lo zampino della Provvidenza e alla fine i buoni ottengono la loro giusta ricompensa e i cattivi la sacrosanta punizione. In questo, l’ l’autore (di cui “Oliver Twist” è un’opera giovanile, essendo stata scritta a venticinque anni di età, lui nato nel 1812) rivela sua concezione, tutto sommato vittoriana, del bene destinato alla vittoria sul male attraverso una faticosa redenzione. 
Ho usato la parola “feuilleton”: non va infatti dimenticata la formula della pubblicazione a puntate, che creò (sarebbe accaduto anche in seguito per altre opere di Dickens) una forte attesa da parte dei lettori, con tentativi da parte di alcuni di scrivere finali alternativi prima che uscisse quello ufficiale, e critiche da parte di detrattori (mi ricorda qualcosa) a cui lo scrittore cercava di rispondere e che gli davano un feedback immediato in corso d’opera. Chissà se Dickens ne fu influenzato.


venerdì 21 giugno 2024

TAU ZERO

 
 

 
 
Paul Anderson
TAU ZERO
Editrice Nord
1989, brossurato
230 pagine

“Tau zero”, straordinario quanto a visione del tempo e dello spazio, è illuminante sulla concezione dell’universo come solo certi capolavori della fantascienza riescono essere. A scriverlo è Paul Anderson (1926-2001), statunitense ma di origini scandinave, uno fra gli autori di science-fiction più amati, a partire dagli anni Quaranta dello scorso secolo, dal pubblico di tutto il mondo e vincitore di numerosi Premi Hugo e Premi Nebula, con all’attivo cicli fantascientifici quali i racconti della Lega Psicotecnica e quelli dei Mercanti dello Spazio. “Tau zero” è la dimostrazione di come la SF possa aprire squarci su ipotesi che vanno oltre il futuro della Terra, del Sistema Solare, della Via Lattea, fino a concepire una possibile fine e un nuovo inizio dell’Universo stesso. Pubblicato per la prima volta nel 1970, scritto sulla scorta delle più audaci teorie scientifiche di allora (e per ora non confutate), il romanzo di Anderson immagina che cosa possa accadere a una astronave con a bordo cinquanta colonizzatori partiti dal nostro pianeta verso un mondo ritenuto abitabile nei paraggi del nostro sistema con la prospettiva di un viaggio lungo alcuni anni. La “Leonora Christine”, questo il nome della nave spaziale, viene lanciata in uno stato di accelerazione costante che deve portarla a una frazione della velocità della luce, per poi decelerare. Un incidente le impedisce però di rallentare e l’astronave si trova a viaggiare sempre più velocemente, senza che niente possa fermarla. Le leggi della fisica dicono che il tempo scorre diversamente per chi si muove rispetto a chi resta fermo. Più ci si avvicina alla velocità della luce, più ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, corrisponde ad anni, secoli, millenni trascorsi sulla Terra. E che cosa può accadere quando si supera il limite estremo previsto da Einstein? L’equipaggio della “Leonora Christine” vive questa incredibile esperienza ed assiste all’evoluzione dell’universo mentre lo attraversa tutto come un oggetto dalla massa incalcolabile. A bordo, i passeggeri subiscono traumi psicologici, qualcuno va in crisi, ad altri sembra di impazzire, serve chi tenga unito il gruppo. Al di là dell’aspetto scientifico (o fantascientifico), Anderson indaga, come suo solito, anche l’intreccio dei rapporti umani (e forse è questo l’aspetto più datato del romanzo). Una curiosità: le origini scandinave dello scrittore sono evidenziate dalla scelta di immaginare un futuro in cui lo svedese è una sorta di lingua franca e la Svezia, al termine di una guerra che ha visto contrapporsi il blocco occidentale e quello orientale, è stata scelta come nazione leader del rinnovato ordine mondiale perché sia Est che Ovest le riconoscono la funzione di mediatrice.