domenica 10 novembre 2024

CHI DICE E CHI TACE

 

 
Chiara Valerio
CHI DICE E CHI TACE
Sellerio
2024, brossurato
288 pagine, 15 euro

Finalista nell’edizione 2024 del Premio Strega (leggo che c’è chi sostiene anche che meritasse di vincerlo, e può essere), “Chi dice e chi tace” sembra un giallo ma non lo è – non traggano in inganno la copertina e la somiglianza di grafica e di formato con i polizieschi di Manzini. Tuttavia il romanzo comincia con una morte misteriosa (che sembra un incidente ma nasconde una verità celata dalle apparenze), si snoda seguendo il corso di un’indagine (condotta non dai carabinieri o dalla Polizia, ma da un’amica della vittima), si conclude con una soluzione convincente. Tuttavia, al di là della “forma” da inchiesta su un fatto di cronaca di provincia, il racconto è un intrigante svelamento della figura enigmatica della vera protagonista, che spicca per la sua assenza: la donna trovata morta annegata nella vasca da bagno di casa sua, Vittoria Basile. E, attraverso lei, o meglio, attraverso ciò che di lei si dice e si tace, il rivelarsi di desideri segreti, verità nascoste, ambiguità e comportamenti difficili da decifrare, all’interno della piccola comunità di Scauri, ultimo paese della costa laziale prima che cominci la Campania. A Scauri è nata, nel 1978, Chiara Valerio, l’autrice, che oltre a scrivere si occupa di matematica. “Chi dice e chi tace” è ambientato, nell’ultimo scorcio del secolo scorso: Vittoria Basile, donna volitiva e seducente, in grado di farsi amare ed accogliere nonostante l’anticonformismo delle sue scelte, giunge nella piccola località di mare lasciando la metropoli, Roma, dove ha abitato per quarant’anni. E’ in compagnia di Mara, una ragazza molto più giovane, che vive con lei senza che nessuno sappia dire che tipo di rapporto le leghi. Vittoria non sembra avere problemi economici, ma non vive di rendita: apre una pensione per animali, inizia a collaborare come erborista con la farmacia locale. Lea Russo, avvocatessa di provincia, comincia a frequentarla, sentendosene attratta, le diventa amica, ma solo fino a un certo punto perché Vittoria, per quanto affascinante e capace di relazionarsi con chiunque, in realtà non scopre mai davvero le sue carte. Nessuno può dire di sapere chi davvero sia, tutti sanno soltanto quello che lei vuole che si sappia. Lea si rende conto di non avere neppure mai saputo il cognome della donna. Con la sua morte, però, le cose cambiano: Lea scopre che Vittoria è sposata con un avvocato romano, che ha un passato da valente medico, che ha lasciato il marito e la vita di società di cui era protagonista il giorno dopo aver conosciuto Mara. Il testamento, affidato alla Russo, chiama in causa un’altra donna, Rebecca, che aiuta Lea a risolvere il caso, aprendole gli occhi su un mondo più complicato e indecifrabile di quanto le apparenze sembrano rivelare, e anche su se stessa, sulle proprie pulsioni, sulla propria identità. La libertà di una donna emancipata e sessualmente disinibita come Vittoria riesce (per quanto non sembri possibile, o perlomeno facile) a superare le barriere del moralismo di provincia e, almeno secondo quanto suggerisce la Valerio, persino a Scauri negli anni Settanta una convivenza lesbica può essere accettata se chi la vive dimostra di saper prendere la propria esistenza tra le mani e scegliere di dire e tacere ciò che vuole.


domenica 3 novembre 2024

V13

 

Emmanuel Carrère
V13
Adelphi
2023, brossurato
272 pagine, 20 euro


“Niente opinioni, ma lavoro sul campo”. Questa la dichiarazione di intenti con cui Emmanuel Carrére ha proposto a Jérome Garcin, responsabile delle pagine culturali dell’ “Obs” (un settimanale francese) la propria collaborazione per raccontare, per un anno intero, il processo ai responsabili rimasti in vita degli attentati terroristici del 13 novembre 2015, quelli che causarono a Parigi 130 morti e oltre 350 feriti in tre diversi punti della città, tra cui il teatro del Bataclan, dove si contarono novanta vittime. Il dibattimento si è svolto in una apposita struttura allestita sull’ Ile de la Cité tra il settembre 2021 e il giugno 2022. Migliaia di testimoni, centinaia di avvocati, quattordici imputati. V13 è il nome dato alla sala del processo e al processo stesso, e fa riferimento al “venerdì 13”, giorno delle stragi. 
Ogni reportage dalle udienze doveva essere lungo circa ottomila battute, da consegnarsi tutti i lunedì mattina: un impegno a cui Carrère non è mai venuto meno. I suoi articoli, oltre che su due pagine dell’ “Obs”, sono regolarmente apparsi su “Repubblica” in Italia, sul “Paìs” in Spagna, e su Temps” in Svizzera. Nel raccoglierli in un libro (quello di cui stiamo parlando), Carrère li ha ritoccati un po’, spiega, aggiungendo: “soprattutto, ho incorporato qualche brano che non aveva trovato posto nella mia rubrica settimanale. Ecco perché il libro è più lungo di un terzo rispetto a quanto è uscito sui giornali”. 
Ora, chiunque abbia letto qualche precedente scritto di Emmanuel Carrére (da “Limonov” a “Il Regno”, ma soprattutto “L’Avversario”) sa quanto la sua capacità di affabulatore sovrasti l’argomento trattato: è uno che riuscirebbe a rendere interessante la spiegazione dei venti fogli di clausole e di liberatorie della privacy e del trattamento dati in un ufficio pubblico. Scrive maledettamente bene, e il “maledettamente” fa riferimento al fatto che non si riesce a smettere di leggerlo. Una capacità assoluta di raccontare, peraltro parlando in prima persona: le sue esperienze diventano le nostre. Però, mi chiedo: è davvero possibile parlare della strage del Bataclan “senza opinioni”, ma facendo solo “lavoro sul campo”? Inutile dire che io non avrei retto due giorni, nell’aula del V13, ascoltando le vittime (i parenti degli uccisi, e i sopravvissuti) raccontare della poltiglia di sangue e brandelli umani su cui camminarono per uscire dal locale coloro che si salvarono. O di come l’incontro con gli amici ai tavolini di un caffè si sia trasformato in una carneficina. Carrére ci riesce (facendoci comunque stare male), perché racconta le storie delle vittime e quelle degli attentatori, ricostruendo gli anni in cui famiglie intere di radicalizzati partivano per la Siria, con l’intenzione di popolare uno “stato islamico” e poi chi se ne pentiva non riusciva più a tornare indietro, e chi tornava indietro spesso era per compiere attentati. Alcuni felici di farlo, ma anche alcuni pieni di dubbi e pronti a disertare, come nel caso di almeno un paio del commando parigino del 13 novembre. “Non sono nato con un mitra in mano”, dice uno degli imputati. E allora, com’è accaduto che lo ha impugnato? Carrère, con la pacatezza di cui io non sarei capace, indaga in cerca di una risposta. E si finiscono per vedere mille sfumature che da lontano non si distinguono. Non si assolve nessuno, ma si riportano i punti di vista di tutti. Però è certo che il punto di vista di chi dichiara che non si tratta di stupri, ma di programma di ripopolamento è qualcosa che a me disturba, come disturba sentir dire che la strage del Bataclan fu colpa del presidente Holland. A me disturba peraltro anche chi difende gli assassini della strage di “Charlie Hebdo": quelli di “Charlie Hebdo” se la sarebbero cercata, le loro vignette erano offensive. Se qualcuno si ritiene offeso, prenda la matita e satireggi pure lui, se ne è capace. Oppure se ne lagni, tenga il muso, scriva lettere di protesta. Nei casi estremi, se proprio è stata infranta una legge, si rivolga alla magistratura per far pagare una multa agli umoristi. Ma se prendi il mitra e macelli chi ha soltanto disegnato, è evidente che hai perso la ragione. Le idee si combattono con le idee. Se le combatti con le armi, vuol dire che le tue idee sono più deboli. Il fatto che Charb o Wolinski o chiunque altro disegnassero vignette che qualcuno non facevano ridere o che qualcun altro indignavano, non ha nessuna importanza rispetto al principio che quegli autori avessero il diritto (e perfino il dovere) di pubblicarle. In ogni caso, Carrére è molto onesto nel riferire, nel distinguere, nell’empatizzare, prendendo le difese per esempio di tre imputati a piede libero (che poi infatti a piede libero sono rimasti) che con ogni evidenza hanno avuto un ruolo inconsapevole o marginale, al netto della taqiyya (non sono in grado di spiegare bene con Carrére che cosa sia esattamente, ma grazie a lui l’ho capito). Ua figura simbolo di “V13” è sicuramente Nadia Mondeguerre, da sempre impegnata nelle relazioni con il mondo musulmano, studiosa di Islam, in grado di parlare arabo, la cui figlia Lamia figura tra le vittime delle stragi, ma che nel 2018 è tornata al Cairo, dov’è nata, e dove un egiziano, ascoltata la sua storia, le ha detto: “tua figlia e gli altri sono shuhada, martiri”. Loro, non gli assassini che li hanno uccisi.

sabato 2 novembre 2024

IL LEVIATANO

 

Rosie Andrews
IL LEVIATANO
Neri Pozza
2024, brossura
320 pagine, 19 euro

C’è un altro libro intitolato “Il Leviatano”, e l’ha scritto il filosofo inglese Thomas Hobbes nel 1651. Chiaramente, non è questo. Sia lui che Rosie Andrews, l’autrice del romanzo di cui ci stiamo occupando, fanno riferimento però allo stesso mostro citato da alcuni passi della Bibbia. Il Leviatano, di cui parlano Giobbe, Isaia, Amos e i Salmi, è una sorta di gigantesco serpente marino, un drago che incarna il caos primordiale, corrispondente a creature simili presenti in altre mitologie. Hobbes lo usa come simbolo del dispotismo dello stato che tiranneggia sui comportamenti dei singoli decidendo per loro. Rosie Andrews, in questo suo primo romanzo di grande successo, lo usa invece fuor di metafora (poi, una metafora si può sempre trovare, anche per la Vispa Teresa) raffigurandolo proprio come un mostro marino serpentiforme. Tuttavia, la scrittrice inglese non sceglie la strada del romanzone horror pronto per gli effetti speciali del cinema, o del kolossal catastrofico facendo emergere dall’Oceano una sorta di Godzilla. Al contrario, la vicenda proposta è minimalista: in parte racconto gotico, in parte romanzo storico (è ambientato nella contea di Norfolk, in Inghilterra, nel Seicento), in parte storia d’avventura e di mistero in cui il Leviatano si vede poco o punto. Eppure sembra esserci proprio lui nella possessione demoniaca che ha come vittima la sedicenne Esther Treadwater, improvvisamente diventata una “non Esther” per quel che dice, per quel che fa. Suo fratello Thomas, rientrato a casa dalla guerra, la trova trasformata e, indagando tra le carte del padre finito in stato comatoso, scopre che Esther non è sua sorella, ma fu adottata dopo essere stata salvata dal relitto di una nave affondata appunto dal Leviatano. Con l’aiuto di una donna accusata di stregoneria e strappata al supplizio, Chrissa Moore, e di un vecchio amico del padre, John Milton,  il razionale Thomas cerca con ogni mezzo di liberare la sorella dalla maledizione. Il tutto è ben raccontato, per carità, così come convince la ricostruzione degli ambienti e della società. Tuttavia, personalmente ho chiuso il libro arricciando il naso, vagamente deluso. Il collegamento fra il mostro marino e la possessione demoniaca di Esther non sembra convincente e resta sbilanciato il rapporto fra il potere distruttivo del Leviatano e la piccola posta in gioco costituita dalla salvezza della famiglia Treadwater.