mercoledì 30 settembre 2020

BALLATA PER UN TRADITORE

 

 

 


 

Massimo Carlotto
Pasquale Ruju
Davide Ferracci
BALLATA PER UN TRADITORE
Feltrinelli
brossura, 2020
128 pagine, 16 euro

 

Sempre interessanti i graphic novel della Feltrinelli Comics, che spaziano attraverso vari generi proponendo romanzi a fumetti di taglio autoriale ma senza supponenze. Intrigante come deve essere un vero noir metropolitano, "Ballata per un traditore" nasce da un soggetto originale di Massimo Carlotto, uno dei maestri nella narrativa di questo genere (suo il personaggio hard boiled dell'Alligatore) e già questo basterebbe a destare l'attenzione. Carlotto del resto, pur scrittore in prosa, si è già prestato a progetti a fumetti, come nel caso di "Arrivederci, amore ciao", graphic novel realizzato con Luca Crovi e Andrea Tutti (Edizioni BD, 2004). A occuparsi della sceneggiatura è invece Pasquale Ruju, veterano in casa Bonelli con lunghe militanze nelle serie di Dylan Dog e Tex (per non parlare di Cassidy e altri progetti realizzati da professionista). I disegni di Davide Ferracci si segnalano per la loro graffiante essenzialità e per il sapiente uso del retino. La storia, tutta milanese, alterna passato e presente ruotando attorno alla figura del commissario Lo Porto, oggi pensionato ma dirigente, in anni passati, dell'Anticrimine a capo di una squadra composta da due uomini fidati, Galli e Valenti, più volte decorati per i loro successi sul campo. In realtà, il "metodo Lo Porto", che aveva portato a una diminuzione dei fatti di sangue in città, era basato su una sorta di trattativa segreta con la malavita. Il gioco viene scoperto dall'integerrimo magistrato Santini, le cui indagini portano allo smantellamento del gruppo e al pensionamento anticipato dei suoi componenti. Al posto di Lo Porto, oggi c'è una donna, la tostissima Stefania Rosati, che non tratta con i delinquenti ma agisce ben oltre i confini della legalità come una sorta di angelo vendicatore, spinta da motivi personali. Nell'imprevedibile e non consolatorio finale, dopo che tutti i fantasmi del passato sono stati riportati sulla scena, la Rosati deve fare i conti con la realtà di una nuova Milano dove la vecchia mala è stata sostituita da qualcosa di molto più insidioso.

venerdì 18 settembre 2020

MAIGRET AL PICRAT'S

 



Georges Simenon
MAIGRET AL PICRATT’S
Adelphi
2001, brossurato
180 pagine, 10 euro


Colpiscono due particolarità, in questo trentaseiesimo romanzo della saga del commissario Maigret, scritto da Georges Simenon nel 1950. La prima, l’audacia (per i tempi) nelle descrizioni di situazioni e personaggi dai risvolti legati al sesso, trattati comunque senza morbosità e senza alcun moralismo. La seconda, l’altrettanta audacia nell’affrontare senza remore il tema della tossicodipendenza. A un certo punto, Maigret chiede a un omosessuale morfinomane perché abbia cominciato a drogarsi, e la risposta è “non ne ho la minima idea”, così come accadrebbe (ne sono convinto io, ma ne era convinto evidentemente anche Simenon) nella realtà. Il personaggio di Arlette, la spogliarellista di un night-club di basso livello, il Picratt’s appunto, viene descritta fino al punto di dire e ribadire che aveva il pube depilato, e fatta risaltare nel talento a letto che anziché connotare una prostituta ne fa spiccare l’aspetto ribelle di ragazza fuggita di casa per vivere liberamente. Il locale notturno in cui si trova a lavorare, e dove si intrecciano le vicende umane di ballerine, musicisti, gestori e figure del sottobosco metropolitano come il Grillo (un nano tuttofare che procura i clienti), non è mai dipinto, malgradi lo squallore, come un ricettacolo del vizio ma come un teatrino di varia umanità, a cui Maigret è estraneo ma a cui non guarda come un censore. Come al solito, Simenon è abilissimo nel tratteggiare ambienti e figure, caratteri e personalità, e l’indagine poliziesca, che pure è interessante da seguire, non è che uno dei tanti aspetti della narrazione. Due le vittime, Arlette e una vecchia contessa, un solo assassino che fino all’ultimo appare inafferrabile anche per la mancanza di relazione fra le donne uccise. Nel finale, Maigret agisce anche con la pistola in mano e ha un guizzo felino prima di caricare con tutto il peso della sua stazza.

giovedì 3 settembre 2020

LE INDIE NERE




Jules Verne
LE INDIE NERE
RBA
2019, cartonato
200 pagine


Sono un centinaio i romanzi di Jules Verne (1828-1905) pubblicati da lui in vita o usciti postumi a cura del figlio. Oltre ai più noti, che sono comunque tantissimi, ce ne sono altri meno conosciuti - ma in cui si riconoscono comunque il genio, l’inventiva, la visionarietà e lo stile del grande scrittore, uno dei padri fondatori della fantascienza oltre che massimo esponente del genere avventuroso. Fra queste “opere minori”, assolutamente godibile è “Le Indie Nere”, ambientato in Scozia, dato alle stampe nel 1877. Il nome “Indie Nere” veniva dato ai territori scozzesi dove erano state scavate le ricche miniere di carbone, responsabili dell’annerimento di ogni cosa nei paraggi, ma anche dello sviluppo economico della regione. L’idea alla base del romanzo è che alcuni minatori, legati indissolubilmente al loro lavoro, decidano di continuare a vivere per libera scelta nelle cavità sotterranee, anche dopo che l’esaurimento dei filoni carboniferi ha portato alla chiusura dell’attività estrattiva. “Le Indie Nere” comincia, anzi, proprio allorché la miniera di Aberfoyle, che fa da principale teatro della vicenda è stata abbandonata. Colpisce il vagheggiamento da parte dei minatori dei bei tempi che furono, quando potevano scavare il carbone che non c’è più. Molti si sono messi a fare i contadini ma qualcuno, come si diceva, è rimasto sottoterra: la famiglia Ford, il cui capo, Simon, continua da anni, con il figlio Henry, a sondare la roccia delle gallerie convinto che ci siano altri filoni da poter sfruttare, senza mai tornare in superficie, supportato dalla moglie che ha organizzato una abitazione alla base del pozzo principale. Un giorno, Simon Ford convoca James Starr, proprietario della miniera, e gli rivela di aver scoperto un giacimento incredibilmente ricco. Ed è così, solo che tutta una serie di sabotaggi rivela la presenza di qualcun altro, molto ostile, che si aggira tra le buie gallerie. C’è chi crede all’opera di fantasmi, forse quelli dei minatori morti sul lavoro, forse di uno dei “penitenti” vale a dire quegli operai che, strisciando in ginocchio con una torcia alzata sopra la testa, davano fuoco, rischiando la vita, alle sacche di gas, evitandone l’accumulo. La riapertura della miniera convince un gran numero di minatori a seguire l’esempio dei Ford e ben presto sulle rive di un lago sotterraneo nasce una cittadina illuminata da gigantesche lampade elettriche. Nessuno sembra aver troppa nostalgia della vita in superficie, giacché sottoterra non piove mai e la temperatura è mite. Addirittura la cittadina ipogea attira turisti. Intanto, in un recesso della miniera viene ritrovata una giovane donna, chiamata Nell, che parla l’antico gaelico e riferisce di non aver mai visto la luce del sole, senza volere o sapere aggiungere altro. Henry Ford se ne prende cura, e la ragazza pian piano impara a vivere con gli altri, finché un giorno viene accompagnata all’aperto e per la prima volta vede il sole, il cielo, il mare. Nell ed Henry vorrebbero sposarsi, ma il misterioso abitante delle oscure cavità sembra intenzionato a riprendere la donna con sé, visto che era stato lui ad allevarla per anni nei recessi più impenetrabili. Alla parte avventurosa e di anticipazione (la città sotterranea ricorda quella degli “Abissi d’acciaio” di Isaac Asimov) Verne unisce elementi da feuilleton e da romanzo horror. Un bel mix. Peccato per il paternalismo con cui viene dipinta la figura del proprietario della miniera, davvero un capitalista illuminato, e per la mancanza di realismo nella descrizione delle reali condizioni dei minatori, avvelenati dalla polvere di carbone e costretti a lavorare con ritmi disumani. Qui gli operai sembrano tutti felici di poter scavare nella miniera, e questo è l’aspetto più fantasioso dell’opera.


martedì 1 settembre 2020

MASSA




Jim Baggott
MASSA
Adelphi
2019, brossurato
290 pagine, 32 euro


Anche quelli che hanno fatto il classico come me, sanno che, negli atomi, la massa (ovvero, quella che in soldoni si potrebbe definire "la quantità di materia", per quanto la definizione sia tutt'altro che soddisfacente) è racchiusa quasi del tutto nei protoni e nei neutroni del nucleo, essendone gli elettroni, che vi orbitano attorno in una nuvola quantistica, quasi del tutto privi. Più protoni e neutroni ci sono, insomma, più un atomo è "pesante" nella tabella degli elementi di Mendeleev. Leggendo lo straordinario saggio di Baggott scopriamo, però, che protoni e neutroni sono costituiti da altre particelle elementari, e più precisamente dai quark u e d. Uno si aspetterebbe che sommando fra loro la massa di questi "mattoncini" si arrivi a ricavare la massa del protone e quella del neutrone. Niente affatto. La massa dei quark uniti insieme costituisce solo l'uno per cento del totale. C'è da rimanerne strabiliati. E dunque? Di che cosa è fatta la materia? Gli studi più recenti suggeriscono che la maggior parte della massa dei protoni e dei neutroni sia una conseguenza delle interazioni fra quark e gluoni (altre particelle che fungono da collante, o meglio sono ciò che i quark si scambiano interagendo fra loro). A loro volta la pur minima massa dei quark è dovuta all'interazione dei medesimi con il bosone di Higgs, la "particella di Dio" che tiene insieme l'Universo. Quindi, la massa praticamente non esiste, è una "qualità secondaria" delle particelle: non è qualcosa che le particelle hanno, è qualcosa che le particelle fanno. Quindi, siamo fatti di energia, letteralmente. Jim Baggott, con chiarezza esemplare, esamina come la scienza, a partire dai filosofi greci, è arrivata a questa conclusione. Che peraltro è in perfetta corrispondenza con l'equazione di Einstein secondo la quale E = mc al quadrato.