sabato 30 marzo 2019

ARBORETO SALVATICO





Mario Rigoni Stern
ARBORETO SALVATICO
Einaudi, 1996
brossutato, 9 euro


Che libro bello e prezioso. L'idea è semplice e affascinante: raccogliere una serie "ritratti" in prosa dedicati agli alberi che Mario Rigoni Stern (l’autore de “il sergente nella neve”) ha piantato nei pressi della sua casa sull’altopiano di Asiago, o in cui si è spesso imbattuto durante le sue camminate nei boschi, fino al punto da considerarli gente di famiglia o amici, compagni di una vita. Il termine “arboreto” significa appunto “piantagione di alberi”, e “salvatico” è una parola antica, usata nel Rinascimento per “selvatico”, ma che all’autore è piaciuto scegliere per l’assonanza con “salvifico”, cioè: che conduce alla salvezza. In tutto venti alberi, dal larice al ciliegio, passando per i faggio, il tiglio, la betulla, la quercia, il pioppo, l’acero. C’è persino la sequoia, un cui esemplare Rigoni Stern ha piantato ben sapendo di non poter mai arrivare a vederla diventare gigante. Il libro è del 1991, scritto dunque dall’autore ormai settantenne (sarebbe morto nel 2008). Vengono raccontati aneddoti personali e ricordi d’infanzia, che testimoniano il legame tra lo scrittore e ogni singolo albero. Traspare l’amore di Rigoni Stern per le piante del bosco e la sua conoscenza della botanica, vengono ripercorsi miti e leggende. Si respira tutta una sapienza antica di cui il ricordo si sta perdendo. Vien voglia di andare ad Asiago e cercare uno per uno gli alberi di cui l’autore ci parla. Ogni capitolo è molto breve: quattro, cinque pagine. Perciò si può leggerne uno ogni tanto senza timore di perdere il filo. La lettura è gradevole ed emozionante. Peccato soltanto per la mancanza di illustrazioni, perché piacerebbe vedere l’albero, dato che non di tutti i lettori possono recuperare immediatamente l’immagine stampata nella memoria.

venerdì 29 marzo 2019

NON PERDERTI IN UN BICCHIER D'ACQUA



Richard Carlson
NON PERDERTI IN UN BICCHIERE D'ACQUA
Bompiani
2000, brossurato
260 pagine, 6.97 euro

Esiste un filone praticamente inesauribile di manuali per "vivere meglio". Motivazionali, si potrebbe dire. Guide al training autogeno, talvolta, in altri casi saggi di psicoterapia fai da te o semplici elenchi di consigli per imparare ad affrontare le difficoltà della vita. Il primo che lessi, molti anni fa, è diventato un classico: "Le vostre zone erronee", di Wayne W. Dyer, del 1976. Mi colpì moltissimo, devo ammettere. Era un vademecum per liberarsi dai sensi si colpa e dalla dipendenza del giudizio altrui. Scoprii poi che altri americani avevano seguito la falsariga di Dyer dandosi alla stesura di prontuari di tecniche per liberarsi dall'ansia, dallo stress, dalla depressione, dal vittimismo, e da nevrosi di vario tipo. In seguito sono arrivati anche "mental coach" italiani. Non sono un cultore del genere, ma a volte si sente il bisogno di farsi suggerire qualcosa per uscire da qualche vicolo cieco, e in genere questi manuali sono gradevoli da leggere, ricchi di aneddoti e se ne ricava sempre qualcosa. L'importante è non leggerne troppi, altrimenti servirà un manuale per liberarsi dalla dipendenza dalla lettura dei manuali. Le "cento regole per imparare a vivere meglio" (cito il sottotitolo) di Richard Carlson, connettere in "Non perderti in un bicchier d'acqua" (1997) sono semplici suggerimenti di buon senso, del tutto condivisibili. Non prendersela per delle piccolezze; mettersi nei panni degli altri; imparare a vivere nel presente; portare pazienza; fare la pace; accettare la vita com'è; sorridere; non voler avere ragione a tutti i costi; non credersi pieni di difetti; non criticare; scegliere cinque punti su cui essere irremovibile e ammorbidirsi sul resto; rilassarsi; non essere aggressivi; essere flessibili nel cambiamento dei programmi; ignorare i pensieri negativi; essere felici di essere dove si è; essere solidali; accettarsi come si è. Tutti consigli sensati, persino banali, a cui ci si arriverebbe anche da soli, se non ci si perdesse così spesso in un bicchiere d'acqua. 





domenica 24 marzo 2019

MAX BUNKER, UNA VITA DA NUMERO UNO



Max Bunker, una vita da Numero Uno” è il titolo della biografia professionale che ho dedicato a  Luciano Secchi, in arte appunto Max Bunker, pubblicata da Cut-Up e presentata nel corso dell'edizione 2019 di Cartoomics, a Milano, alla presenza dell'interessato. 

L’occasione è stata offerta non soltanto dal cinquentennale di Alan Ford (in edicola dal 1969) ma anche dal fatto che l’autore, classe 1939, è attivo in campo fumettistico fin dal 1959, e quindi festeggia ottanta anni di vita e sessanta di carriera. C'erano dunque tante cose da dire, su un personaggio poliedrico, vulcanico e prolifico quant'altri mai: nessuna meraviglia che ne sia venuta fuori un'opera  di ben 400 pagine: un libro pieno di storie e di personaggi,  compilate scartabellando  tonnellate di fumetti, citando testimonianze, riportando dichiarazioni dell’autore e raccontato cinquant’anni di storia, di politica, di cambiamenti sociali nel nostro Paese e nel mondo, che le sceneggiature bunkeriane hanno fedelmente registrato facendone satira e denuncia. 

Il fumetto italiano non sarebbe stato lo stesso senza la rivoluzione operata da Luciano Secchi attraverso la sua attività di sceneggiatore. Un merito che non riguarda soltanto la sua opera, notevole di per sé per qualità e quantità, ma anche l’impulso dato alla maturazione dell’intero settore, grazie alla lezione tratta dal suo esempio da molti altri autori. Con l’avvento di Kriminal e Satanik (1964), irrompono sulla scena storie che parlano di sesso, di corruzione, di droga, di politica internazionale, di attualità, di fenomeni di costume. Il fumetto descrive per la prima volta la realtà così com’è e non cerca di darne una versione edulcorata. Anche Alan Ford (1969) scandaglia la nostra società ma con gli strumenti della satira e dell’umorismo, riuscendo a far ridere delle miserie di una umanità senza speranza di redenzione. L’innovazione bunkeriana non si manifesta soltanto a livello di contenuti e di problematicità dei personaggi, ma anche nell’uso dei dialoghi e nella scansione di sceneggiatura, che abolisce la ridondanza delle didascalie e procede per ellissi narrative molto sintetiche. Uno stile che continua a manifestarsi anche nelle serie dei personaggi più recenti come quella dedicata alla detective privata Kerry Kross (1994).

Bunker è uno sceneggiatore autore che ho ammirato fin da ragazzi, da quando, nei primissimi anni Settanta, mi sono imbattuto in Alan Ford. Quando ho letto le sue prime storie si firmava in coppia con un altro mio mito, il disegnatore Magnus. Trovavo il loro marchietto con la scritta “Magnus & Bunker” sui fumetti che realizzavano insieme. Poi il sodalizio si ruppe (nel 1975) e io continuai a seguirli separatamente. Scoprii presto i tanti altri fumetti creati da Bunker negli anni Sessanta, da Kriminal a Satanik, da Gesebel a Maxmagnus, da Maschera Nera a El Gringo, ma mi innamorai anche di “Eureka”, la rivista che Secchi dirigeva. Rimasi folgorato da Daniel, un altro personaggio che ha lasciato il segno nei miei ricordi. La persona che io sono diventato crescendo (bella o brutta che sia) è stata forgiata anche dalle letture bunkeriane. Ho avuto altri maestri, altri punti di riferimento, certamente (Guido Nolitta, Giancarlo Berardi, Alfredo Castelli, solo per fare alcuni nomi), ma senza dubbio Max Bunker ha sempre fatto parte del mio Olimpo personale.


Il mio primo incontro di persona avvenne in un giorno d’estate del 1989, quando ottenni un appuntamento presso la MBP, che aveva sede in Via Fatebenefratelli a Milano. Mi accompagnavano alcuni amici che realizzavano con me “Collezionare”, fummo ben accolti e scattammo la foto qua sopra.  Lo scopo della visita era realizzare una intervista che poi sarebbe stata pubblicata sul n° 21 della rivista “Il Fumetto” (dicembre 1989). La intitolai “Il Bunker dei fumetti”. Qualche anno dopo, nel 1994, entrato a far parte dello staff organizzativo del Salone del Fumetto e del Fantastico di Prato (una manifestazione di grande successo che oggi non c’è più), mi trovai ad allestire, con Francesco Manetti e Saverio Ceri, la mostra “Alan Ford Venticinque”. Riuscimmo a ricostruire il set del Negozio di Fiori, e proprio in quella scenografia esponemmo delle vivaci sagome degli agenti del Gruppo TNT e tavole delle storie più importanti. Max Bunker fu ospite della kermesse insieme a Paolo Piffarerio (di spalle nella foto sotto). Da quel momento in poi sono sempre rimasto in contatto con lui, che mi ha voluto affidare le prime cento introduzioni ai volumi della collana “Alan Ford Index” della Mondadori.  




giovedì 21 marzo 2019

GERIATRIC COMIC HEROES




Moreno Chiacchiera
GERIATRIC COMIC HEROES
Demential Books
2018, brossurato,
48 pagine, 15 euro


Esilaranti. Questo il miglior aggettivo per definire le vignette con cui Moreno Chiacchiera si diverte a proporci la sua versione dei più famosi eroi dei fumetti in versione geriatrica, pronti per la casa di riposo. Da Yellow Kid a Zagor, da Tex a Capitan America, da Zorro a Silver Surfer passando per i Peanuts e Corto Maltese, eccoli con il pancione, la flebo, gli occhiali spessi due dita, senza denti, con il bastone o la sedia a rotelle. Si ride per catarsi, oltre per il talento grafico di Chiacchiera e il suo spirito caustico. Mi è stata chiesta una prefazione, che ho scritto volentieri: la ripropongo qui di seguito.

I VENTI MANCAMENTI
di Moreno Burattini

Una cosa che colpisce chi legge volentieri gli aforismi citati su Facebook o su Twitter è che i più belli li ha scritti Anonimo. Anonimo è anche l’autore della massima secondo la quale un uomo si giudica dalla grandezza del suo nome. Ebbene, sono arrivato alla conclusione che sia vero, e se c’è un nome che depone in favore di chi lo porta, quello è Moreno. Son tutti bravi a chiamarsi Aldo, Giovanni e Giacomo. Ma Moreni si nasce. Si vede un Moreno in faccia e si capisce subito che quel tale deve per forza chiamarsi così. Tutti i Moreni sono persone speciali e d'ingegno fuori dal comune, e lo dico con il massimo dell’obiettività (come potrebbe essere altrimenti?). Se poi al nome Moreno si abbina un cognome importante, è il massimo. Son tutti bravi a chiamarsi Rossi, Bianchi e Verdi. Ma provate a chiamarvi Moreno Burattini o Moreno Chiacchiera. Chiacchieriamo un po’ di quest’ultimo. Tanto per cominciare esiste veramente. Cioè, non è che mi sono inventato tutto questo discorso per fare lo spiritoso, citando un nome buffo come Guido La Vespa o Remo La Barca. Moreno Chiacchiera c’è. Umbro di Foligno, classe 1957, persona di grande umanità e simpatia, faccia da attore comico, illustratore umoristico di prim'ordine noto e attivo soprattutto all'estero (Inghilterra, USA, Canada, Australia, Giappone, Spagna, Francia, Austria, Paesi Arabi). Illustra libri per ragazzi con garbo e ironia, e basta vedere una delle sue opere per rendersi conto del suo talento. Pubblica però anche libri di vignette singole (come questo) e sa far ridere con una sola immagine, regolarmente azzeccata. Il volume che avete fra le mani è, tuttavia, evidentemente autobiografico. Ormai incalzato dall’età, Moreno Chiacchiera ha cercato di consolarsi dei propri dolori reumatici, delle cispe agli occhi e del naso gocciolante rendendone vittime anche gli eroi dei fumetti e dei cartoni animati, quelli che per consolidata tradizione non invecchiano mai. Disegnando uno Zagor che, avanti con gli anni, non riesce neppure più ad alzare la scure, Moreno sogghigna e meglio sopporta il fatto che lui stesso faccia fatica a portare in giro la cartelletta dei suoi disegni. Come dargli torto? Del resto un detto popolare, probabilmente scritto da Anonimo, vuole che mal comune sia mezzo gaudio. E siccome anch’io comincio a perdere denti e capelli, rido nel vedere Wile E. Coyote ridotto a dare il becchime al Road Runner sulla panchina dei giardinetti. Sia ben chiaro tuttavia che tutti i Moreni restano dei fenomeni a letto, a dispetto dell’età. Su questo non si scherza. Anonimo deve aver scritto anche un proverbio toscano che recita, più o meno, “la vecchiaia ha diciannove mancamenti, più la gocciola al naso che son venti”. Venti sarebbero insomma i malanni che affliggono i vecchi. Nelle vignette di questo libro c’è sicuramente tutto il campionario. Ma siccome i Moreni sono tutti colti e letterati, soprattutto i toscani e gli umbri (sempre detto con il massimo dell’obiettività), citerò un poeta sconosciuto a tutti quelli che non si chiamano Moreno, e cioè Francesco d’Altobianco Alberti. Vero che non avete idea di chi sia? Eh, lo sapevo. Consultate Wikipedia. Sappiate però che è un poeta fiorentino del Quattrocento (1401-1479) e che nella sua poesia numerata LXXXVII (sarebbe 87, per i non Moreni) si legge questo verso: “vecchiezza è mal che volentier si cerca” - ed ecco un altro buon aforisma che potrebbe essere attribuito ad Anonimo. Dopodiché il poeta procede a elencare i mancamenti della vecchiaia. Al vecchio “gocciola il naso e raccorcia il vedere”, e fin qui pazienza. Ma poi eccolo puzzare: “lezzisce e fastidioso è come becco”, cioè tanfa come un caprone. “Vedesi il cervel quando isbadiglia”, e qui ci si può figurare lo sbadiglio di uno senza denti. “Dolgongli i lombi e deboli ha le schiene” e ma anche “par ch’ogni giuntura sia sconnessa”, mentre fatalmente “rinfresca un nuovo mal, se l’altro cessa”. Insomma, non so se Francesco d’Altobianco Alberti volesse scrivere una poesia seria e drammatica sui dolori della quarta età, o se il suo scopo fosse di far ridere. Di sicuro, quando il professor Mario Martelli ce la lesse durante una lezione universitaria, noi studenti dell’ateneo fiorentino dei primi anni Ottanta ci raggomitolammo dal ridere. Eravamo giovani e non immaginavamo che il naso un giorno avrebbe gocciolato anche a noi.

mercoledì 20 marzo 2019

LE EROTICOMICHE






Davide Barzi
Oskar
LE EROTICOMICHE
Cut-Up
2019, cartonato
80 pagine, 20.90 euro

Grazie a Cut-Up è finalmente stato consentito a noi, lettori italiani non non in grado di seguire tutta la straripante produzione a fumetti in lingua francese, di scoprire la gran quantità di tavole realizzate per il mercato d’Oltralpe dai due italianissimi e intraprendenti Davide Barzi e Oskar (Oscar Scalco). Lo scorso anno, infatti, Cut-Up aveva pubblicato la divertente serie “Sessantotto e dintorni” (di cui ci siamo già occupati in questo stesso spazio), adesso è la volta di “Le Eroticomoiche”. Il titolo è tutto un programma: si scherza sul sesso, privilegiando quello bizzarro, ma senza calcare troppo la mano, restando ilari e leggiadri, sia nei testi che nei disegni. Disegni molto maliziosi, ma del tutto in sintonia con la linea grafica della BD umoristica, al punto che si potrebbe scambiare Oskar per un parigino. In tutto, sessantaquattro tavole autoconclusive risalenti ai primi anni Duemila, raccolte in un volume di ottima fattura di corredato da una prefazione (mia) e una introduzione (di Davide Barzi) e da molti schizzi inediti del disegnatore. Qui di seguito riporto qualche estratto appunto dal mio testo che apre il libro, intitolato “Sesso Matto”.
“Sesso matto” è un film comico a episodi del 1973 diretto da Dino Risi. Gli episodi sono nove, e di tutti sono protagonisti, interpretando personaggi diversi, Giancarlo Giannini e Laura Antonelli. Chissà se in tempi bacchettoni come quelli che stiamo vivendo un film sul sesso bizzarro potrebbe trovare produttori, distributori e pubblico. Del resto, da molto tempo in Italia sono persino sparite ai cinema le commedie erotiche, come “L’infermiera di notte” (1979) dove il dottor Nicola Pischella (Lino Banfi) assume per fare da badante notturna al vecchio zio Saverio (Mario Carotenuto) la bella Angela (Gloria Guida). Risate e strip tease erano garantiti. Bei tempi che furono, quelli delle commedia sexy che ha fatto la storia del cinema italiano quando ancora i film incassavano qualche spicciolo (non solo con Gloria Guida ma anche con Edwige Fenech, Annamaria Rizzoli, Nadia Cassini, Agostina Belli e chi più ne ha più ne metta). Fuori dai cinema si potevano anche esporre quei manifesti un po’ scollacciati che oggi causerebbero l’intervento della buoncostume allertata dall’Associazione Genitori e dall’Esercito della Salvezza. Oggi non si può neppure ammirare il lato B di una concorrente al titolo di Miss Italia (l’inquadratura posteriore è stata vietata, in attesa che venga vietato tutto il concorso). Pare che persino nelle telecronache dagli stadi non sia più possibile zoomare su una procace spettatrice che incita dagli spalti la propria squadra (c’è stata una polemica riguardo a questo durante i mondiali di calcio svoltisi in Russia nel 2018). Le donne che hanno impiegato millenni per avere il diritto di spogliarsi a loro piacimento, oggi si vedono invitare a rivestirsi proprio dalle femministe, secondo le quali mostrarsi scollacciate significa, non è ben chiaro perché, favorire il sessismo: quasi sia un reato (o un peccato?) per un uomo ammirare la bellezza muliebre o, per una donna, lasciarsi ammirare. Quel che è peggio, sul sesso non si può più neppure scherzare. Lo dico da autore di vignette sboccate pubblicate sul “Vernacoliere” di Livorno (io scrivo i testi, James Hogg li disegna), giornale satirico su cui, per tradizione, si ride anche sul sesso. 
“Sesso matto”, si diceva. Già, perché il sesso goduto in chiave ludica è del resto la morte sua, o meglio, la vita sua. Del resto dovrebbe avercelo insegnato il Sessantotto e la rivoluzione sessuale, che inneggiavano al free love vissuto nella più gioiosa delle maniere. Il sesso, avevamo imparato negli anni Settanta, doveva essere libero, disinibito e felice, goduto con il sorriso sulle labbra, con la massima naturalezza possibile. Si poteva scherzarci su, come dimostravano per esempio serie a fumetti come le “Biancaneve” di Rubino Ventura e Leone Frollo. Un vero e proprio fenomeno di costume del quale anche la stampa più accreditata, che di solito ignora pervicacemente i fumetti, non poté fare a meno di occuparsi: sul numero del 23 agosto 1973 di Panorama apparve un articolo di Marco Giovannini intitolato "C'era una pornovolta" in cui si esaminavano le caratteristiche del nuovo genere. Veniva offerta anche una precisa indicazione circa l'elemento ispiratore da cui la rivisitazione erotica della narrativa per bambini avrebbe avuto origine: "L'idea delle sexy-favole l'ha data Fritz, il gatto playboy di Robert Crumb". In effetti il personaggio, creato nel 1968, aveva goduto di una clamorosa notorietà proprio nel 1972 allorché era stato trasportato sullo schermo da Ralph Bakshi in un film che fece il giro del mondo: fu la prima pellicola a disegni animati vietata ai minori, costò poco più di un milione di dollari e ne incassò oltre venti. Ma c'è dell'altro: senza voler chiamare in causa la poesia goliardica che dai Carmina Burana in poi si è divertita nel corso dei secoli a dissacrare le forme poetiche più accademiche esaltando i piaceri immediati e concreti della vita quali le donne ed il vino, e senza essere costretti a far riferimento ad alcuni cartoni animati provenienti dai paesi scandinavi in cui molte fiabe erano rivisitate con l'aggiunta di piccanti spunti erotici, inevitabile mi sembra un accenno alle provocanti parodie disneyane di Wally Wood ed alle sue audaci Far Out Fables (Controfiabe) pubblicate tra il 1965 e il 1967 negli Stati Uniti sulla rivista Cavalcade Insomma, il sesso è bello e ci si poteva giocare. Ci si può ancora, basta non pubblicare un seno nudo su Facebook, peccato che può portare a venire bannati a vita. Evviva dunque le facete e piccanti storielle di Davide Barzi e del fido Oskar, che hanno trovato spazio in Francia e che adesso Cut-Up recupera in Italia, per la prima volta in volume, a sprezzo del pericolo.

martedì 19 marzo 2019

UNA TESTA IN GIOCO




Georges Simenon
UNA TESTA IN GIOCO
Adelphi
1995, brossurato
160 pagine 10 euro


I gialli di Maigret si divorano come ciliegie e uno tira l'altro.  Peraltro, prima di essere gialli di Maigret sono romanzi di Georges Simenon, uno scrittore superlativo anche quando non mette in scena il suo commissario. "Una testa in gioco" è il quinto titolo della serie del burbero poliziotto del Quai des Orfèvres, sede della polizia parigina, iniziata nel 1929. Venne scritto nel 1931 con il titolo "La tête d'un homme", tradotto in italiano in tre diverse maniere ("Maigret e la vita di un uomo", "Maigret e una vita in gioco" e "Una testa in gioco"). L'inizio è decisamente insolito: non si comincia con il ritrovamento di un cadavere ma con l'evasione di un condannato a morte dal carcere di massima sicurezza. E scopriamo quasi subito che a far fuggire Joseph Heurtin, ritenuto colpevole per l'omicidio di due donne in una villa si Saint-Cloud, è stato nientemeno che Maigret. Il commissario, benché autore dell'arresto di Heurtin, è invece convinto della sua innocenza (nonostante le prove schiaccianti) e crede fermamente che lasciandolo libero Joseph finirà per portarlo dal vero assassino. Per tutto il romanzo Maigret sembra non sapere che pesci pigliare: l'evaso, seguito dai poliziotti del commissario, vaga senza meta. Poi, a un certo punto, una traccia conduce al caffè Cupole, dove Maigret viene praticamente abbordato da un giovane cecoslovacco, Jean Radek. Costui è personaggio complesso e border lei che sembra del tutto estraneo alla vicenda ma che pare sfidare il commissario e si direbbe condurre il gioco facendosene beffe. In realtà Maigret ha ingaggiato una raffinata partita sul piano psicologico e intellettuale, che si rivelerà soltanto alla fine, quando scopriremo che il gioco, in realtà, era condotto proprio da lui. Che Simenon abbia caratterizzato il "metodo Maigret" come una sofisticata analisi psicologica dei personaggi, è noto. Ma in questo romanzo la gara fra due cervelli sopraffini è particolarmente audace.

domenica 17 marzo 2019

SENZANIMA: FAME



Luca Enoch
Stefano Vietti
Ivan Calcaterra
SENZANIMA: FAME
Sergio Bonelli Editore
2018, cartonato
80 pagine, 16 euro


"Nei due anni precedenti il giorno della mia salvezza, perché così mi piace ricordarlo, prima che la mano di nonno Herion mi strappasse da quell'inferno, io vissi una delle più incredibili avventure che a un ragazzo di campagna possa mai capitare di vivere". Queste parole di Ian Aranill, alias Dragonero, introducono il senso dell'intera miniserie intitolata "Senzanima", di cui "Fame" è il secondo episodio, presentato in veste di volume cartonato al pari del primo, a distanza di un anno (nelle due edizioni consecutive di Lucca Comics & Games 2017 e 2018). La collana proseguirà ancora a lungo, essendo previsti almeno 12 titoli a completamento di un primo arco narrativo che potrebbe avere, comunque, un ulteriore seguito. "Senzanima" è il nome di mercenari, a cui si è unito il giovane Ian, in un suo passato precedente alle avventure raccontate nella serie mensile degli albi da edicola. Il ragazzo è fuggito dal castello di famiglia dopo un litigio con il padre e si trova proiettato in un mondo crudele e spietato, in mezzo a compagni d'arme rudi e senza cuore (senza anima, appunto). "Il progetto è nato a cauda dell'esigenza, che da tempo io e Luca sentivamo, di creare e muovere personaggi senza mezzi termini dentro un contesto narrativo 'cattivo'", dichiara Stefano Vietti nell'intervista a corredo del volume. In effetti tutto è raccontato senza mezzi termini, in linea con lo standard della nuova linea "Audace" della Bonelli (a cui "Senzanima" non appartiene, almeno come marchio, ma rispetto alla quale c'è comunanza di intenti). Il titolo "Fame" rimanda alla al dato storico (reale anche se qui rivisitato nel "medioevo" fantastico del mondo di Dragonero) delle razzie compiute per secoli dagli eserciti in transito, nelle campagne e nelle città. Ian e due compagni, coetaneo Burba e lo spietato Carogna, vengono spediti in cerca di villaggi da saccheggiare per rifornire di sorte la banda, e si imbattono in una fattoria abitata solo da donne, dove li attende però l'orrore. C'è un po' de "I figli del grano" di Stephen King, nella filigrana della vicenda. Colpiscono le parole della matriarca della comunità, quando accusa i mercenari: "Arrivate e prendete tutto... il grano, le bestie, gli uomini. Lasciate solo la miseria". Graffianti i disegni di Ivan Calcaterra, cupi ma adatti allo scopo i colori di Andres Mossa.

venerdì 15 marzo 2019

RENZO, LUCIA E IO






Marcello Fois
RENZO, LUCIA E IO
add editore
2018, brossurato
140 pagine, 13 euro


"Perché, per me, I Promessi Sposi sono un romanzo meraviglioso". Questo il sottotitolo scelto da Marcello Fois (Nuoro, 1960) per il suo brillante e godibilissimo saggio. Un sottotitolo che potrebbe meravigliare i tanti studenti (ed ex-studenti) con il dente avvelenato contro Alessandro Manzoni per l'obbligo scolastico della lettura del suo capolavoro. Sarà che a me "I Promessi Sposi" è piaciuto anche ai tempi del Liceo, ma sono d'accordo con Fois: romanzo meraviglioso. Leggendo le pagine dello scrittore sardo si trovano mille motivi per apprezzare il racconto manzoniano. Fois aggiunge note autobiografiche a quelle critico-letterarie, dimostrando come certe letture abbiano influenza e riscontro nelle vite di ognuno di noi. Punto di partenza della disamina è il preciso intento di Manzoni di creare, mettendola a disposizione di tutti attraverso lo strumento del romanzo, una lingua condivisa. Poi vengono passate in esame, con acutezza, le caratteristiche dei vari personaggi di cui si scopre, o si riscopre, la modernità. Infine, è interessante la sinossi con le frasi manzoniane tratte da "I Promessi Sposi" entrate nel linguaggio comune, da "questo matrimonio non s'ha da fare" a "e la sventurata rispose". Colpisce chi ama i fumetti che anche l'esclamazione texiana "Tizzone d'inferno" derivi dal Manzoni.

venerdì 8 marzo 2019

SILENZIO! PARLA TEX



Antonio Tentori

SILENZIO! PARLA TEX

Castelvecchi

Prima edizione novembre 1998

Brossurato – 130 pagine – lire 14000

 

Antonio Tentori, noto critico cinematografico con una spiccata predilezione per i film di genere, ha raccolto in un agile volumetto “massime, pensieri e filosofia del più amato ranger del West”. Cioè, appunto, Tex Willer. Rigorosamente in ordine cronologico, in “Silenzio! Parla Tex” si citano brani di dialogo tratti dalla saga di Aquila della Notte, quelli da cui è più facile capire di che pasta sia fatto il nostro eroe. L’operazione, di per sé meritoria e senz’altro encomiabile, si presta tuttavia a qualche benevola critica. Innanzitutto manca un pur breve saggio di commento che serva a ricavare una summa dalla raccolta di massime texiane, tirando le fila da tutta la documentazione fornita e giungendo a concludere quale sia dunque, in sintesi, la filosofia dell’eroe (la nota dell’Autore in apertura è del tutto insufficiente a questo riguardo). In secondo luogo, i pensieri di Tex non hanno titoli indicativi dei contenuti e non sono organizzati per argomento neppure in un indice che permetta di rintracciare citazioni in caso di bisogno. Infine, i dialoghi riportati sono piuttosto lunghi e articolati non si individuano aforismi più sintetici e fulminanti (come pure sarebbe stato possibile). Senza che la cosa rappresenti necessariamente un difetto, c’è poi da notare come solo una quindicina di pagine siano dedicate ai Tex da 1 a 100 (e soltanto 6 ai primi 50 numeri), quelli più ricchi di storie e di tavole e soprattutto pieni di frasi tipiche alla Giovanni Luigi Bonelli, mentre quasi tutto il resto del volume è dedicato a dialoghi di Nolitta e Nizzi e di sceneggiatori ancora più recenti.  Così non viene sottolineato abbastanza il modo del tutto nuovo di Bonelli padre di utilizzare i dialoghi, rendendoli vivi e coloratissimi tanto quanto erano convenzionali e castigati quelli degli eroi concorrenti. "Io, quando incontro dello sterco sulla mia strada, mi limito a deviare quel tanto che basta per non insudiciarmi gli stivali", testuali parole di Tex che possono servire da paradigma per inquadrare la situazione, e che qui – purtroppo – non vengono citate. Per fortuna, a Bonelli figlio e a Claudio Nizzi viene riconosciuto implicitamente il merito di aver approfondito la psicologia del personaggio soprattutto confrontandola in modo più problematico con la realtà storica, politica e sociale, anche se comunque essi hanno ereditato un character la cui filosofia di fondo era già stata scolpita nella pietra (a propria immagine e somiglianza) dal grande vecchio. Quando parlava Tex, in realtà parlava lui.


domenica 3 marzo 2019

PANTA REI



Luciano De Crescenzo
PANTA REI
Mondadori
Prima edizione - Novembre 1994
cartonato con sovraccoperta - lire 25.000

Con questo volume Luciano De Crescenzo proseguiva, nel 1994, la sua personalissima  opera di divulgazione della filosofia greca, a cui la napoletanità lo fa sentire per indole particolarmente vicino.  Altri libri simili sarebbero seguiti, per molti anni, alcuni riusciti, altri meno, con puntate anche nella letteratura ellenica ("Nessuno" tratta dell' "Odissea") e nella filosofia latina (si è occupato, per esempio, di Seneca). Però, se nei precedenti volumi della "Storia della Filosofia Greca" l'impianto era più organico e la trattazione degli argomenti seguiva un gradevole filo logico, "Panta Rei" sembra un'accozzaglia disomogenea di capitoli dove tutto si mescola a tutto. Forse proprio in ragione dell'argomento: la teoria del "panta rei" di Eraclito, il filosofo si cui De Crescenzo punta la sua attenzione, noto non solo per la sua convinzione che tutta la realtà sia un divenire, ma anche che il mondo si basi essenzialmente sull'eterna lotta dei contrari e che il fuoco sia l'elemento ultimo delle cose. Chissà: De Crescenzo magari ha voluto che il suo libro su Eraclito fosse informe proprio per renderlo aderente alle tesi dell' "Oscuro" (questo l'aggettivo comunemente attribuito al filosofo); fatto sta che trasportare idealmente il pensatore greco nei nostri giorni, portarlo a mangiare spaghetti, poi metterlo a confronto con altri suoi colleghi in un talk-show di Maurizio Costanzo, usarlo per criticare Berlusconi, quindi mettersi a commentare senza troppo rigore i suoi frammenti (Eraclito non ci ha tramandato opere complete, ma solo massime sparse, per la maggior parte assai criptiche), sorte l'effetto di disturbare il lettore desideroso di ordine e chiarezza, e data l'opera (a distanza di venticinque anni si perdono i punti di riferimento). Non mancano, tuttavia, i pregi. De Crescenzo ha la penna felice e riesce sempre ad accattivarsi l'attenzione del suo pubblico. La sua interpretazione di frammenti apparsi indecifrabili per secoli ai più è spesso e volentieri molto gradevole e funzionale. Riuscire a parlare con tanta facilità di un pensatore enigmatico e ostico come Eraclito è senz'altro opera lodevole, ma secondo me tutto ciò avrebbe potuto essere meglio organizzato in un discorso che avesse un inizio e una fine, come appunto De Crescenzo aveva saputo fare in altre sue opere di divulgazione filosofica.

Una nota di merito va al capitolo iniziale, che vale da solo l'acquisto del volume: il "panta rei" di Eraclito viene applicato al tempo, che scorre e fa cambiare le cose attimo dopo attimo. L'autore trascrive spezzoni di frasi dette e sentite da quando era ragazzo fino ad oggi, in un gioco stordente e malinconico, metafora della vita.

sabato 2 marzo 2019

L'UOMO DALLE PISTOLE D'ORO



Pasquale Ruju
r.m. Guéra
L'UOMO DALLE PISTOLE D'ORO
Sergio Bonelli Editore
2019, cartonato,
52 pagine, 8.90 euro

Sempre imperdibili questi volumi cartonati "alla francese" ("alla francese" nella confezione ma anche nel taglio delle tavole e nell'uso dei colori), che però conservano l'italianità della distribuzione in edicola a un prezzo davvero conveniente. Se nel volume precedete avevamo visto all'opera un disegnatore italiano (Mario Alberti) in coppia con uno sceneggiatore statunitense (Chuck Dixon), questa volta è italiano l'autore dei testi, il veterano Pasquale Ruju, ed internazionale quello dei disegni: r.m.Guéra, illustratore serbo che vive e lavora a Barcellona pubblicando in America sia fumetti di superoi (Thor, Batman), sia noir e western ("Scalped", per la Vertigo). L'accoppiata funziona. Ruju confeziona una storia cruda ed efficace nella sua brevità (brevità in confronto alla lunghezza delle storie di Tex più classiche) in cui ogni vignetta è al posto giusto e i dialoghi sono senza fronzoli. Guerra, dal canto suo, dà una interpretazione oltremodo personale dei due pard, ma soprattutto si sbizzarrisce in quella di Carson (smilzo, aspro, duro e con capelli, baffi e pizzetto scuri). Una licenza poetica che gli si concede volentieri perché perfettamente intonata alla cupa drammaticità delle tavole e degli avvenimenti. Dinamismo, cattiveria, scene efferate, azione: Guèra è all'altezza del graphic novel (perché di questo si tratta). Tutti caratterizzati benissimo i personaggi, buoni e cattivi, ma the winner is lui, l'uomo dalle pistole d'oro, Juan Gonzales, scampato alla forca vent'anni prima e tornato a vendicarsi dei rangers che avevano preparato il suo capestro dopo avergli impiccato sotto gli occhi i due fratelli più giovani. Che bella ghigna, quella di "Golden Guns"! Gonzales è chiamato così per le pistole d'oro con cui uccide, rubate anni prima a un ufficiale americano. Tra i rangers sulla sua lista (quasi tutti ritiratisi a vita privata) c'è anche Kit Carson. Ed è con lui che si svolge l'ultimo duello.

venerdì 1 marzo 2019

LA STORIA






Elsa Morante
LA STORIA
Einaudi
1974
670 pagine in brossura


Ci sono libri che, nella vita, si devono rileggere più volte. “La Storia” di Elsa Morante, per quanto mi riguarda, è uno di questi. Dopo essermene innamorato negli anni del Liceo e averne conservato un vivido ricordo, l’ho ripreso in mano rinnovando le emozioni della prima lettura, aggiungendoci tutte le altre dovute all’esperienza e alla consapevolezza della maturità. Il romanzo risale al 1974 e uscì, per volontà dell’autrice, direttamente in edizione economica, nella collana in brossura “Gli struzzi” della Einaudi, così da raggiungere subito il pubblico più vasto possibile. Del resto, il racconto ha per protagonisti gli umili, i “piccoli” della citazione evangelica che apre il libro, la gente comune che fa la storia, perché, come canta anche De Gregori, “la Storia siamo noi”. Ambientato a Roma negli anni della Seconda Guerra Mondiale e nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione, il romanzo non narra quasi nulla delle battaglie e degli eventi bellici, ma descrive la vita delle borgate romane vista con gli occhi dei suoi abitanti, alle prese con i drammi della sopravvivenza quotidiana. Il quadro che ne viene fuori è drammatico ed emozionante. Del resto la Morante e suo marito Albero Moravia attraversarono davvero esperienze simili, e dunque la scrittrice attinge dal suo vissuto. “La Storia” segue principalmente le vicende di due protagonisti, la maestra elementare Ida Ramundo (vedova Mancuso) e di suo figlio Useppe (Giuseppe così come lo diceva lui), uno dei personaggi più belli in cui mi sia imbattuto nelle mie letture. Tuttavia, il racconto è anche corale perché popolato da decine di figure, dal primo figlio di Ida, Nino, all’anarchico ebreo Davide Segre, passando per tutta una serie di incontri ora significativi ora fuggevoli, compresi quelli con i tanti rappresentati della famiglia napoletana dei Mille (così soprannominati per il loro numero). Del coro fanno parte anche parecchi animali, dai due cani Blitz e Bella, al gatto Rossella, ai canarini Peppiniello e Peppiniella. Attraverso le vicende di Ida e Useppe, che subiscono il bombardamento della loro casa nel quartiere di San Lorenzo e vengono alloggiati in un ricovero di sfollati, abbiamo modo di scoprire il dramma della guerra visto dagli abitanti di Roma, sottoposti all’occupazione nazifascista, a rastrellamenti, a fucilazioni, a deportazioni, nell’attesa della liberazione da parte degli Americani che sembrano dover arrivare e non arrivano mai. Nino, cresciuto da Balilla, parte per la guerra ma, ribelle com’è, si dà alla macchia e passa nelle fila dei partigiani, e attraverso lui assistiamo anche alla ricostruzione della vita quotidiana dei combattenti nella Resistenza. Così come si era ribellato all’indottrinamento fascista, Nino si ribella anche a quello comunista impartitogli dai suoi compagni e rifiuta di sostituire l’icona del Duce con quella di Stalin, finendo, a guerra finita, a fare il contrabbandiere. Del tutto aliena a ogni discussione ideologica, Ida alle prime elezioni del Dopoguerra vota comunista perché glielo ha detto l’oste Remo, e perché non c’erano candidati anarchici (segretamente anarchico era stato suo padre), ma sul piano pratico la donna cerca soltanto di condurre la sua esistenza senza furori politici di nessun tipo, avendo come unico scopo quello di allevare il gracile Useppe, nato da una violenza sessuale usatale da un soldato tedesco nel 1941. Soldato inconsapevole di ciò che faceva e destinato a morire di lì a poco del tutto ignaro di aver donato i suoi occhi azzurri a un bambino che sarebbe nato nove mesi dopo. Ida è figlia di una madre ebrea, ma riesce a tenere nascosta la sua linea di sangue, vivendo però nel terrore di essere scoperta (e i suoi figli con lei) dopo la promulgazione delle leggi razziali. Uno dei passi più drammatici è quando la maestra si trova a passare accanto ai vagoni stipati di ebrei, vittime del rastrellamento del ghetto: assiste alla scena di una donna che, sfuggita per caso ai nazisti, va a cercare i suoi parenti chiusi sul treno che sta per partire per Auschwitz e, rintracciatili, vuole salire sul convoglio anche lei, mentre tutti i prigionieri la implorano di andarsene prima che tornino i tedeschi. Ma ogni capitolo presenta momenti drammatici e commoventi, sia che si racconti della lotta contro la fame, sia che si narri la sorte di un certo Giovanni morto congelato durante la ritirata di Russia, ricercato per anni dalla famiglia dopo essere stato per disperso, sia che si mostri il sangue scorso nelle lotte partigiane. Tragico lo scollamento sociale tra i reduci che tornano dopo aver combattuto credendo nel fascismo, partiti per la guerra certi della vittoria, e quelli che, disillusi già da tempo, non hanno pietà per gli arti mutilati di costoro e i dolori da loro patiti sul fronte. Annichilendosi progressivamente, Ida nutre con la propria vita il piccolo Useppe, mentre Nino, per fortuna, energico e volitivo, se la cava benissimo da solo. Infinite le pene da superare, fino alla fine della Guerra. Giungono gli anni della pace, e della scoperta dei campi di sterminio, delle stragi di civili e di partigiani, e anche questo periodo viene raccontato nella sua quotidianità, escludendo quasi del tutto il fronte della politica, gli accordi fra le Grandi Potenze, il processo di Norimberga. Vi si accenna, magari l’eco giunge per sentito dire dalla lettura di un giornale o dall’ascolto della radio o dai commenti al mercato. Si capisce che la Storia la si vive al piano terra, al livello delle strade, ed è fatta dalle vite delle persone comuni, anche se i libri si riempiono con i nomi dei capi di stato, e dei loro generali. E ci sono più chiari gli anni vissuti dai nostri nonni, quelli da cui è nata l’Italia Repubblicana. A pace tornata, non c’è il lieto fine. Non per Ida Ramundo, non per Nino, non per Useppe. Si piange sul finale. Elsa Morante usa una lingua tutta sua, che infarcisce con ninna nanne e cantilene per bambini, di canzoni cantate e suonate dal grammofono, e perfino con la trascrizione dei pensieri degli animali (la Storia è anche loro). Ci si fa l’orecchio anche quando congiuntivi e condizionali suonano strani. Stupisce, oggi, il ricordo delle polemiche che accompagnarono l’uscita del romanzo, polemiche frutto del perverso furore delle ideologie degli anni Settanta: da sinistra si contestò la mancata aderenza ai dogmi del leninismo (si pretendeva, e era accaduto anche con Vittorini, che gli intellettuali fossero inquadrati in una fede politica), mentre il quadro illustrato dalla Morante raccontava la vita com’era senza alcuna aderenza a un manifesto ideologico. Ecco perché rileggere adesso può essere utile.