lunedì 31 ottobre 2022

PUEBLO!

 

 


Moreno Burattini
Bane Kerac
PUEBLO!
Veseli Cetvrtak
cartonato, 2021
330 pagine

La Collana Zenith Gigante, che propone in Italia le storie inedite di Zagor, pubblicò nei primi mesi del 2019, sui numeri dal 693 al 696, una lunga avventura di 314 tavole da me sceneggiata per i disegni del serbo Bane Kerac. Si tratta di una storia alquanto insolita, sia per l'ambientazione (la regione della Monument Valley, decisamente lontana da Darkwood), sia per l'antagonista chiamata a dare del filo da torcere allo Spirito con la Scure (una donna, esperta di greco antico), sia per il fatto di tirare in ballo la figura di Ipazia (filosofa del IV secolo dopo Cristo). A distanza di due anni dall'uscita nelle edicole italiane, la Casa editrice serba che pubblica a Belgrado le avventure dell'eroe nolittiano ha dato alle stampe un volue cartonato di grande formato che raccoglie tutta la vicenda in un unico tomo, con una copertina inedita di Kerac. Naturalmente, al di là della bontà del racconto (sulla cui sceneggiatura non sta a me pronunciarmi ma che, e qui mi pronuncio, è stato magistralmente illustrato), la Veseli Cetvrtak ha voluto rendere un doveroso omaggio al disegnatore, autentica star del fumetto balcanico. Il volume è corredato da una postfazione di Vasa Pavkovic, arricchito da studi e matite preeparatorie di Kerac, e iniza con una introduzione del sottoscritto, che ricopio qui di seguito.
 

IL PUEBLO MISTERIOSO
Introduzione di Moreno Burattini

Ho incontrato per la prima volta Bane Kerac nella città di Kraguievac, in Serbia, nel luglio del 2011. In quella località viene allestita ogni estate una manifestazione fumettistica e in quell’anno io ero stato invitato per festeggiare anche alle falde dei Balcani il cinquantennale dello Spirito con la Scure. Bane, uno fra i più conosciuti e amati artisti serbi, attivo da decenni sia nella sua terra che all’estero, mi parlò della grande popolarità di gode il Re di Darkwood in tutti i Paesi della ex-Yugoslavia e mi spiegò che gli sarebbe piaciuto disegnare una storia di Zagor da pubblicare, in tiratura limitata, soltanto in Serbia, per i suoi ammiratori che da tempo gli chiedevano di cimentarsi con l’eroe di Nolitta & Ferri. Mi mostrò, fra le altre cose, le sue tavole di Tarzan, più alcuni lavori western: ne rimasi molto colpito, al punto da desiderare di fargli fare una storia zagoriana non soltanto per i serbi ma proprio per la serie italiana. Promisi che ne avrei parlato con Sergio Bonelli. Però poi, come si sa, nel settembre di quell’anno Sergio partì per un lungo viaggio, lasciandoci soli.

La seconda volta che ho visto Kerac mi trovavo, invece, in Croazia. Per la precisione, nella località balneare di Makarska, vicino a Spalato, nel maggio del 2012, sempre impegnato per una kermesse dedicata agli eroi di carta. Il rivederlo è servito a concretizzare la proposta: poiché in Italia stava prendendo forma l’idea di una nuova collana di storie autoconclusive tutte a colori, il Color Zagor, era appunto una di queste che Bane avrebbe potuto illustrare, se le sue prove fossero andate bene. Non avevo dubbi che sarebbero state perfette, avendo avuto modo, nel frattempo, di vedere quel che Kerac aveva disegnato nella sua carriera ed essermi convinto del suo grande talento. La Casa editrice si è detta d'accordo con me e, di lì a pochi mesi, gli ho spedito le prime tavole di sceneggiatura.

In seguito siamo stati entrambi ospiti in tre altre manifestazioni in cui sono state mostrate in anteprima le sue tavole zagoriane: a Herceg Novi in Montenegro nel 2014; a Riminicomix nel 2015, dove è avvenuto il suo primo, festoso incontro con i fan di Zagor italiani; in Sardegna per il rendez-vous degli Amici di Zagor, nel 2019. In più, c’é una cosa che, come abbiamo scoperto, ci univa, oltre alla passione zagoriana: la data di nascita. Tutti e due, io e lui, siamo nati il 7 settembre (lui esattamente dieci anni prima di me, nel 1952).

Lavorare con Kerac è sempre stato molto piacevole e gratificante. Bane si è costantemente mostrato disponibilissimo nell’accettare i miei suggerimenti e nel correggere qua e là qualche vignetta ma allo stesso tempo, da esperto narratore qual è, ha migliorato in alcuni passaggi il mio racconto, aggiungendo trovate delle sue sul modo di far combattere il Re di Darkwood.

Il nostro primo lavoro insieme è stato il Color Zagir “Il passato di Guitar Jim” (2015). Leggendo questa storia del Color si scopre chi  ha insegnato a Jim a suonare la chitarra, chi a sparare, perché la prima volta abbia ideato il nascondiglio della pistola nella cassa armonica del suo strumento, come mai un bravo ragazzo dalla faccia pulita come Jim sia diventato un rapinatore ricercato dalla legge. La seconda collaborazione è quella riguardante il racconto pubblicato in questo volume, “Il pueblo misterioso”, uscito in edicola, in Italia, nel 2019. Ha fatto seguito, nel 2020, un altro Color, “La missione di Drunky Duck”. Attualmente è in corso di realizzazione una quarta storia.

Riguardo la lunga avventura (3124 tavole) che vi apprestate a leggere, c’è da dire innanzitutto che si tratta di una storia ambientata nel Sud Ovest degli Stati Uniti. Che ci fa lo Spirito con la Scure così lontano da casa? Chi abbia letto i tre Maxi Zagor pubblicati in Italia nel corso del 2018, sa che lo Spirito con la Scure e il fido Cico hanno compiuto un viaggio fino alla costa del Pacifico, dove hanno vissuto un trittico di avventure che li ha portati a incontrare vecchi amici e a scontrarsi con antichi nemici. Lungo la strada del ritorno, eccoli dunque attraversare la Monument Valley.
Dopo la pubblicazione del Color dedicato a "Guitar" Jim, da lui illustrato, chiesi a Bane Kerac che scenario o argomento avrebbe preferito per una successiva storia. Bane disse: "basta che ci sia un pueblo”. Temo però di aver giocato un tiro mancino al nostro Kerac, giacché per assecondarlo sul pueblo gli ho chiesto di assecondarmi nel tirare in ballo anche la Biblioteca di Alessandria e la matematica e astronoma Ipazia, esponente della filosofia neoplatonica, nata tra il 350 e il 370 dopo Cristo e morta nel marzo del 415, uccisa durante un tumulto di cristiani nemici della cultura "pagana" che lei rappresentava. Fu una donna illuminata che riuscì a ottenere rispetto e ammirazione in un contesto che certo non prevedeva "quote rose" e la si può indubbiamente considerare una martire del libero pensiero. Nel 2009 il regista Alejandro Amenábar ha girato il film "Agora" in cui Ipazia è interpretata da  Rachel Weisz. Questa pellicola mi ha fatto scaturire l'idea da cui poi è nata la storia illustrata da Bane Kerac. Secondo me, Bane se l'è cavata egregiamente anche nella realizzazione delle scene ambientante nel V secolo ad Alessandria d’Egitto. 


La vicenda è sostanzialmente western, ma contaminata da spunti mysteriosi (alla Marin Mystère, cioè) , dato che ruota attorno a una scoperta archeologica legata al viaggio di antichi navigatori che nel V secolo dopo Cristo avrebbero nascosto in America un carico di papiri della Biblioteca di Alessandria. Numerosi sono i riferimenti alla filosofa greco-alessandrina Ipazia, ispiratrice del viaggio tra cui l'annotazione del perfezionamento dell'astrolabio (ideato da Ipparco di Nicea seicento anni prima) da parte appunto di Ipazia e di suo padre Teone, valente matematico. Il nome del pueblo al centro del racconto, Teon, parrebbe (questa l'ipotesi di Julia Schulz e di Angus McFly, due studiosi dell'università di Harvard) derivare proprio da quest'ultimo.
Qualche parola invece sulla  controversa figura di Julia Schulz, studiosa dell'Università di Harvard, artefice di un piano criminale e responsabile della strage dei componenti della spedizione archeologica di cui faceva parte. C'è stato persino un recensore che l'ha ritenuta dalla parte della ragione, mossa da principi condivisibili, e dunque non riusciva a considerarla una "cattiva". In effetti alla base delle azioni di miss Schulz c'è il senso di rivalsa di una donna che sente di non poter avere, proprio per la differenza di genere, le stesse possibilità di carriera dei colleghi uomini, si sente emarginata o poco tenuta in considerazione, nonostante la sua preparazione e suoi meriti, in un ambiente quasi del tutto maschile. Proprio per questo crede di poter ottenere i riconoscimenti desiderati facendo del tutto propria l'incredibile scoperta dello staff del professor Stone, di cui entra a far parte. La scoperta in questione consiste in un carico di papiri della Biblioteca di Alessandria giunto in modo fortunoso, nell'antichità (nel V secolo dopo Cristo), sul continente americano.
Per quanto la battaglia per i pari diritti delle donne (cominciata da Olympe De Gouges durante la Rivoluzione Francese, e approdata negli Stati uniti negli anni Quaranta del XIX secolo, dunque in epoca zagoriana, con Elizabeth Cady Stanton) sia sacrosanta, Julia Schulz però la conduce per il proprio personale tornaconto e non facendosi scrupolo di uccidere. Inevitabilmente deve considerarsi una "cattiva". Peraltro, a giudicare dai commenti letti, una "cattiva" che ha particolarmente colpito i lettori, per merito anche della efficace caratterizzazione di Bane Kerac.


Il rischio, su cui ho riflettuto a lungo mentre pensavo e scrivevo la storia, era quello di sembrare sessista senza volerlo essere. Cioè, mi dicevo, non parrà mica che raccontano di una criminale "femminista" (anche se sono l'ambizione e il desiderio di successo a muoverla,  più che le istanze ideologiche) possa essere accusato di dipingere come "cattive" le donne che rivendicano le stesse opportunità degli uomini?
La soluzione a questo dubbio mi è parsa evidente allorché ho contrapposto a Julia un'altra, potente, figura femminile: la filosofa Ipazia. Ipazia è il contraltare di miss Schulz. Della filosofa abbiamo parlato nei precedenti articoli dedicati su questo blog alle scorse puntate della storia, e il personaggio compare in varie scene ambientate ad Alessandria d'Egitto, là dove Ipazia visse tra il 350 e il 415 dopo Cristo (a cui è stato dedicato il bel film "Agora"). Il confronto con la positiva Ipazia dimostra la negatività di Julia Schulz: la studiosa greco-alessandrina si può davvero considerare una paladina dell' emancipazione femminile, avendo dimostrato come una donna possa  dimostrarsi valente al pari e di più degli uomini; Julia cerca invece la sua emancipazione comportandosi da uomo, cioè con l'arroganza e la violenza. Dal confronto fra queste due figure femminili scaturisce la "morale" della storia, se una morale proprio ci deve essere.




 

domenica 23 ottobre 2022

STORIA DELLA PIRATERIA

 

 


 

Philip Gosse

STORIA DELLA PIRATERIA

Sansoni Editore

Prima edizione 1962

cartonato

 

Così comincia la premessa dell'autore: «Scrivere una storia della pirateria dalle sue prime origini sarebbe impresa impossibile. Equivarrebbe in sostanza a scrivere la storia marittima del mondo. Le pagine seguenti intendono mostrare quali sono state le condizioni geografiche e sociali che hanno preceduto la nascita della pirateria; intendono tracciare le fasi di sviluppo e di declino, le sue forme e le sue fortune; descriverne i rappresentanti più significativi e, infine, indicare come l'organizzazione delle nazioni, con l'aiuto della navigazione a vapore e del telegrafo, ne abbia decretata la fine (...) Una delle maggiori difficoltà che lo storico della pirateria deve superare è la diffidenza dimostrata dai suoi eroi nel render conto delle loro gesta. Per motivi di facile intuizione, il pirata favorito dalla sorte non cercava la notorietà, ma preferiva ritirarsi nell'ombra col suo bottino e ben pochi tra essi si lasciavano indurre a scrivere la propria biografia. Un'altra difficoltà consiste nel determinare chi sia pirata e chi non lo sia. In genere questo problema si presenta di facile soluzione, ma vi sono casi limite. Risulta difficile stabilire se Francis Drake, ad esempio, fosse o no pirata (...) In linea di massima, i corsari di questo tipo vanno esclusi dalla rigorosa categoria di pirata».

Come si vede, l'argomento è vastissimo, assai più vasto anche di quello che appare da queste prime righe. E per di più, oltremodo affascinante. Philip Gosse scrive un saggio di godibile lettura e ad ampio raggio, tuttavia per ovvii motivi non del tutto esaustivo (su ciascuno dei principali pirati ci sarebbero da scrivere libri più ampi di questo). Si sorvola, ed è un peccato, sui pirati dell'antichità (a loro è dedicato un capitoletto in appendice). Si comincia in pratica con i pirati barbareschi, i mori e gli arabi che infestavano il mediterraneo nel Medioevo. Il quadro che se ne dà è avvincente e terribile allo stesso tempo (credo che fossero i peggiori pirati in assoluto). Poi si passa a trattare dei pirati del Nord, vichinghi e inglesi in particolare. Quindi è la volta dei bucanieri e dei filibustieri dei Caraibi e dell'America del Nord, per arrivare ai pirati dell'Africa e dell'Oriente. Pur procedendo per sommi capi, in molte circostanze si forniscono dettagliati esempi di imprese clamorose o di impiccagioni celebri, di fughe rocambolesche e di disavventure tragicomiche o drammaticissime. Il quadro dà comunque forti sensazioni, notevoli emozioni. Io sono in possesso di una edizione del 1962 ma ne esistono di più recenti.

 

 

venerdì 21 ottobre 2022

IL LIBRO DEL CINQUECENTO

 
 
 


 
 
 
Tindaro Alessandro Guadagnini
IL LIBRO DEL CINQUECENTO
LA MALEDIZIONE
Algra Editore
Brossurato, 2020
204 pagine – 15 Euro

Tindaro Guadagnini è noto per essere l’artefice del Tempio della Nona Arte, un’opera ancora in fieri, e che probabilmente non smetterà mai di venire ampliata, come la Sagrada Familia di Antoni Gaudì a Barcellona. Per il momento si tratta di una intera casa-museo ubicata alle falde dell’Etna e riempita di scaffali contenenti decine di migliaia di fumetti a disposizione degli studiosi, ma è probabile che incrementandosi le acquisizioni e le donazioni serviranno presto spazi più ampli. Il proposito di Guadagnini è infatti quello di mettere insieme una raccolta quanto più possibile completa di tutto ciò che è stato pubblicato a fumetti da editori italiani, sia stampando materiale di casa nostra, sia scritto e disegnato da autori stranieri. Il grande impegno di Tindaro è frutto, come è facile intuire, di uno sconfinato amore per la Nona Arte (appunto quella dei comics), e di una quantità infinita di letture. Niente di strano, dunque, se a chi legge o ascolta storie viene voglia di raccontarle lui stesso, soprattutto se costui ha una buona penna ed è abituato a scrivere pubblicando articoli e saggi, com’è appunto il caso di Guadagnini. E niente di strano, men che mai, se il racconto che decide di narrare risulta intrigante come un buon fumetto horror, già pronto, si direbbe, per una trasposizione in vignette. Una volta definire un romanzo “di genere” era considerato squalificante, perché si riteneva che il fantastico, il giallo o il western fossero territori di “serie B”. Oggi, fortunatamente, non è più così. Quindi eccomi ad affermare senza il minimo timore che “Il libro del Cinquecento” e “La maledizione” sono romanzi felicemente di genere (nasce sempre della felicità quando cadono degli steccati). Il volume edito da Algra di cui ci stiamo occupando raccoglie infatti due diverse opere di Tindaro Guadagnini, che raccontano però un’unica storia (la seconda è il sequel della prima). “Il libro del Cinquecento” venne pubblicato per la prima volta nel 2016 (mi fu chiesta dall’autore una prefazione che scrissi volentieri). Poi un paio di anni dopo, ecco il seguito: appunto, “La maledizione”. Infine, nel 2020, il volume definitivo che raccoglie i due titoli. Tutto nasce dall’interesse di Guadagnini per un libro di magia, o grimorio, realmente esistente, intitolato “La clavicola di Salomone” (o “Clavis Salomonis”, dato che per “clavicola” si intende una piccola chiave: ce ne sono addirittura due versioni), indebitamente attribuito al Re biblico, ma in realtà compilato da chissà chi nel tardo Medioevo. Si dice che dia, fra le atre cose, istruzioni per evocare i demoni e ottenere da loro dei favori. Libro che nel Cinquecento venne messo all’Indice e da qui il nome con cui è noto in Sicilia “Libru du Cincucento”. Nei due romanzi di Guadagnini, una copia particolarmente potente dal punto di vista magico passa di mano in mano dopo essere stata trafugata da un monastero di Ficarra, e i successivi proprietari vedono esauditi certi loro desideri ma devono pagarne un prezzo terribile, che finisce per condurli al suicidio. Non c’è modo di liberarsi della maledizione se non cedendo il libro a qualcun altro, e dunque condannandolo (come ne “Il diavolo nella bottiglia” di Stevenson). Un incaricato dalla Santa Sede, padre Martinetti, ingaggia una lotta contro il tempo per recuperare il volume prima che semini altri morti oltre a quelle già provocate. Pare che Martinetti possa tornare in altri romanzi, e in effetti un agente segreto del Vaticano che si occupa di possessioni demoniache e casi del genere sembra un personaggio interessate. Qui di seguito potete leggere la mia introduzione al primo romanzo, che è stata riproposta anche all’inizio della raccolta delle due opere.

IL LIBRO NELLA BOTTIGLIA
di Moreno Burattini

In una sua nota alla prima edizione Bompiani, del 1941, di “Conversazione in Sicilia”, il siracusano Elio Vittorini scriveva che il luogo magico in cui è ambientato il suo romanzo era Sicilia unicamente “per avventura”. E spiegava: “solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela. Del resto immagino che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia”. Ovvero: ogni storia è universale, e parla rivolgendosi proprio a chiunque, per caso, la trovi. Anche “Il Libro del Cinquecento” di Tindaro Alessandro Guadagnini, l’inquietante racconto che vi apprestate a leggere, racconta una storia siciliana, ma la sua Sicilia, che pure è tanto reale da indurre alcuni dei personaggi a parlare in dialetto, assume una chiara valenza fantastica quando diventa una terra incantata dove i prodigi e le maledizioni hanno piena cittadinanza. Rispetto al romanzo gotico, che si chiama così perché i suoi primi esempi settecenteschi e ottocenteschi erano spesso ambientati nel Medioevo o in antichi castelli, Guadagnini propone una versione postmoderna del soprannaturale. Vale a dire, sceglie uno scenario contemporaneo e una serie di location riconoscibili. Fa insomma quel che decise di fare Edgar Allan Poe quando avvicinò il racconto dell’orrore alla realtà dell’uomo comune, quella in cui tutti potrebbero riconoscersi. Però, al tempo stesso, la trama adattata a personaggi e luoghi che ci sono familiari (e che sono ancor più familiari ai siciliani fra noi) attinge a modelli ricorrenti, come ricorrenti sono le paure, le ansie, le angosce dell’eterno animo umano. Vittorini parlava di manoscritti ritrovati in una bottiglia: proprio "Il diavolo nella bottiglia" è il titolo di un romanzo breve di Robert Louis Stevenson, datato 1891, in cui uno spiantato, giovane hawaiano di nome Keawe incontra un giorno un ricco signore, che lo convince ad acquistare, per i pochi soldi che ha in tasca, una bottiglia scura, nella quale si agita una nebbia misteriosa, dicendogli che lì dentro vive un demone in grado di appagare ogni suo desiderio. Keawe torna a casa con la bottiglia e in breve tempo diventa ricchissimo, ma ovviamente ci sono le controindicazioni. Il finale proposto da Stevenson è diverso da quello immaginato da Guadagnini, e il suo protagonista Carmelo subisce una sorte ben differente. Ma che si tratti di Hawaii o di Sicilia, di bottiglie o di libri magici, si tratta sempre di insidie del demonio. Le cui tentazioni rimandano alla nostra eterna e umana insoddisfazione, alle pulsioni che si agitano in ciascuno di noi, ai mille desideri da realizzare e alle conseguenze da pagare. Tentazioni, insoddisfazioni, desideri in cui tutti fatalmente ci riconosciamo, ritrovando il manoscritto nel recipiente di vetro depositato ai nostri piedi dalle onde sulla battigia, anche se non reagiamo come Carmelo o come Keawe e siamo diversi da loro. O almeno ci illudiamo di esserlo, almeno finché non ci imbatteremo per caso nella diabolica bottiglia o nel Libro del Cinquecento.

venerdì 14 ottobre 2022

MARIA

 

 



Jacques Duquesne
MARIA
Corbaccio
Prima edizione ottobre 2005
cartonato – 220  pagine -  Euro 15,00


“Ritratto della donna più famosa e meno conosciuta della storia”, recita il sottotitolo in copertina. E in effetti nessuna donna più di Maria di Nazareth è stata raffigurata in quadri, mosaici, affreschi, arazzi e sculture; nessuna più di lei ha ispirato i poeti e dato il nome a chiese; nessun nome più del suo si è diffuso sul pianeta, per non parlare della devozione che la porta a essere invocata, esaltata, lodata, pregata in ogni angolo della Terra. Gli aggettivi, i titoli, le litanie si sprecano. Ma sotto la gran massa di fiori con cui è stata ricoperta, chi era davvero Maria e che cosa sappiamo di lei? Incredibilmente, non sappiamo quasi nulla. Nei quattro vangeli (e già bisognerebbe capire perché i Vangeli sono quattro e chi sono i quattro evangelisti, se davvero sono quattro soltanto – nel saggio un po’ se ne ricostruisce il quadro) le frasi attribuite a Maria sono solo sei. Negli Atti degli Apostoli le viene dedicato soltanto un rigo. Non sappiamo chi fossero i suoi genitori (Anna e Gioacchino, la cui festa pure viene festeggiata dalla Chiesa, non sono citati – fanno parte della tradizione apocrifa). Non sappiamo che fine abbia fatto (né che fine abbia fatto Giuseppe). Pare improbabile che fosse sotto la Croce sul Calvario (lo dice solo Giovanni, ma non è una testimonianza certa, essendo peraltro contraddetta dagli altri). Pare anche che non fosse in buoni rapporti con Gesù (che quando le si rivolge, in un paio di occasioni non è neppure tenero con lei). Pare che abbia avuto altri figli oltre Gesù, anzi, a sentire Duquesne è certo (e pare che neppure i fratelli fossero in buoni rapporti con Gesù). Non c’è alcun fondamento testuale sul fatto che Maria fosse stata concepita senza peccato (eppure c’è il dogma dell’Immacolata Concezione), che fosse vergine al concepimento di Gesù (eppure l’aggettivo di “Vergine” è antonomastico), che sia rimasta vergine all’atto del parto e nel resto della vita, che sia stata assunta in cielo. Peraltro, alcune cose cozzano fra loro: se la grandezza di Maria consiste nell’accettazione del suo ruolo, il fatto che sia nata senza peccato originale fa di lei una predestinata senza possibilità di scelta. La verginità poi sembra frutto dell’ignoranza degli antichi sul meccanismo della fecondazione: per secoli, fino ai tempi moderni, gli uomini hanno creduto che le donne non avessero ruolo alcuno nel concepimento, limitandosi a fare da incubatrice. Il maschio deponeva il suo seme nel ventre della donna, e il seme germogliava (frutto dunque del solo corredo genetico maschile). Ma non è così: la donna ci mette metà del patrimonio cromosomico; e se è plausibile la partenogenesi, cioè il fatto che una donna possa restare incinta senza intervento maschile, duplicando i suoi cromosomi, il figlio sarà necessariamente una figlia, cioè femmina. In realtà che la Madonna fosse Vergine, non detto nel Vangelo, è stato stabilito a tavolino almeno trecento anni dopo. Così come frutto dei sofismi dei teologi  sono l’Immacolata Concezione e l’Assunzione al Cielo. Peraltro, perfino il concetto di “peccato originale” si deve a Sant’Agostino, cioè nasce alcuni secoli dopo Cristo. Ogni “aggiunta” ai meriti di Maria di Nazareth corrisponde ad altrettanti “bisogni” delle epoche storiche. Alla fine, Carl Gustav Jung nota che con il dogma dell’Assunzione in cielo siamo tornati al culto dell’Antica Dea Madre. Certe figure archetipiche dell’inconscio collettivo non possono scomparire. Il saggio di Duquesne, agile e di coinvolgente lettura, non è né polemico né blasfemo. Non tocca i capisaldi della fede né mette in dubbio che una Maria di Nazareth sia esistita né che sia stata la madre di Gesù, il quale (non lo si nega) può benissimo essere morto sulla croce e resuscitato dopo tre giorni. Il problema è tutto il catafalco di sovrastrutture senza fondamento che nei secoli la devozione (se non il fanatismo) hanno costruito sulla figura della Madonna.

domenica 9 ottobre 2022

COWBOY!

 

 

 


Don Ward
COWBOY!
Saggistica – Editoriale Cepim
Collana America
Prima edizione 1974
cartonato – 160  pagine -  lire 5.000


Che bella collana, la Collana America! Sergio Bonelli la varò agli inizi degli anni Settanta, deciso ad affiancare libri di saggistica storica alle testate a fumetti prodotte dalla sua Casa editrice, che all’epoca si chiamava Cepim (in una delle varie incarnazioni). Essendo queste testate dedicate all’avventura western, i volumi pubblicati intendevano approfondire, appunto, le tematiche della storia del West, inquadrando in un contesto reale e documentato ciò che si andava raccontando nei fumetti, come a voler fornire ai lettori di Tex, di Zagor o del Piccolo Ranger un adeguato sopporto bibliografico, e forse anche a voler in qualche modo nobilitare il proprio catalogo, forse ancora sensibile al datato pregiudizio, da cui intendeva affrancarsi, secondo il quale i fumetti significavano sottocultura o addirittura erano dannosi per la gioventù. Qualunque fossero i motivi che spinsero la Cepim a realizzare le poche decine di volumi della Collana America, il risultato fu eccezionale per qualità di grafica, rilegatura, ricchezza iconografica e interesse dei testi, la maggior parte dei quali trattava argomenti interessantissimi e poco o punto affrontati dalla saggistica precedentemente pubblicata in Italia. Questo “Cowboy!”, secondo volume della serie dopo “Gli indiani della prateria”, ne è un esempio paradigmatico. Decio Canzio curò da par suo una gradevolissima edizione italiana di un testo americano corredato da foto e illustrazioni rare che ricostruiscono, in maniera divulgativa ma non superficiale, la storia dei cowboy americani, protagonisti di mille film e fumetti ma oggetto più di mito che di effettiva conoscenza da parte dei fruitori delle pellicole e degli albi. Oltre a esaminare come le mandrie cominciarono a essere allevate negli Stati Uniti dopo essere state portate in America dai primi colonizzatori spagnoli e solo successivamente portate oltre il Rio Grande, Don Ward, autore dei testi, presenta la vita quotidiana dei cowboy e le tante difficoltà del loro mestiere irto di incognite e di rischi. Il tutto, molto piacevole da leggere e da guardare: quasi come un fumetto, appunto.

sabato 8 ottobre 2022

IL LAGO SCAFFAIOLO IERI E OGGI

 

 

 


 

Paola Foschi
IL LAGO SCAFFAIOLO IERI E OGGI
Club Alpino Italiano
Prima edizione novembre 1997
brossurato - 274 pagine -  lire 38.000


Se c'è un luogo in cui vorrei che fossero dispetse al vento le mie ceneri, è sulla cima del monte Cupolino sul lato affacciato verso il sottostante lago Scaffaiolo, il cui fascno arcano mi ha sempre stregato, là sulle montagne in cui sono nato. Del resto, lo stesso fascino lo hanno subito, per secoli, visitatori anche illustri, oltre che camminatori che ne fanno meta di escursioni e scalate. In occasione dell’inaugurazione del nuovo rifugio, il Club Alpino Italiano (e più precisamente la sezione “Mario Fantin” di Bologna) ha raccolto in un bel libro, curato da Paolo Foschi, una gran quantità di documentazione sullo Scaffaiolo. Si tratta di testi antichi e moderni in cui si ripercorre la storia delle visite al piccolo bacino da parte di uomini di tutte le epoche, umili pastori e illustri passeggiatori, fino agli studi di uomini di scienza giunti a cercare riscontro alle antiche leggende che vorrebbero il lago profondissimo. E’ una credenza diffusa e più volte riportata che gettando uno scandaglio al centro della pozza d’acqua non si riesca a trovarne il fondo. In realtà, benché manchino esperimenti recenti (che pure si promettono), due testimonianze del secolo scorso restituiscono una risultanza del tutto diversa (anche se in un caso si dichiara una profondità massima di 14 metri e in un altro di appena due metri e mezzo). Un’altra leggenda, riportata persino dal Boccaccio, vuole che non si debbano gettare sassi nell’acqua né agitarne la superficie, altrimenti il cielo si rannuvola immediatamente e si scatena la tempesta. Anche in questo caso, nessun fondamento se non l’estrema variabilità del tempo su quel particolare tratto montuoso, dove il sole può venire oscurato e la nebbia può sorgere fittissima in pochi minuti. Le testimonianze sono tutte concordi, comunque, nel definire affascinante al massimo una pozza d’acqua pur piccola come quella del lago Scaffaiolo, la cui acqua (misteriosamente priva di forme di vita benché greggi e cavalli ne bevano senza danni) sembra derivare unicamente dallo scolo nella conca delle acque piovane e delle nevi, in un punto dove la roccia è particolarmente impermeabile (non ci sono né immissari né emissari). Il libro parla anche delle montagne circostanti, anche se ci si sbilancia troppo sul versante bolognose e si trascura quasi del tutto quello toscano. Ci sono molte fotografie d’epoca.