lunedì 28 luglio 2025

OTTO MONDI

 


Marco Tonarelli
OTTO MONDI
Melchisedek
2024, brossura
420 pagine, 24 euro

Pratese, classe 1972, Marco Tonarelli è un avvocato con la passione per la scrittura e “Otto mondi” è la sua opera prima. Cultore di filosofia, mitologia, esoterismo e delle tematiche misteriose in generale, ha riversato nel suo romanzo l’intero campo dei propri interessi e in ogni capitolo si fanno riferimenti a fatti storici, leggende e credenze, luoghi esistenti e continenti perduti, antichi ermetismi e scuole filosofiche, personaggi reali e sorprendenti incarnazioni di minacciose entità immaginarie - ameno, si spera che immaginarie lo siano, visto che il confine mito e realtà viene inteso come molto sottile. Confine che l’autore probabilmente sposta più indietro di quanto potremmo essere disposti a fare noi, ma non è necessario credere agli antichi astronauti o alle teorie (in verità molto affascinanti) di Graham Hancock per leggere un romanzo d’avventura alla Dan Brown. Tonarelli propone  più piani di interpretazione e ogni lettore può scegliere quello che gli è più congeniale. Volendo usare la chiave  di lettura dell’evoluzione spirituale, “Otto mondi” esplora temi profondi come la contrapposizione tra il trascendente e la realtà materiale, l'evoluzione della coscienza umana, il controllo occulto della società e la ricerca della verità nascosta dietro ai miti. La narrazione intreccia elementi di thriller, fantascienza e storia alternativa, suggerendo che molti monumenti antichi e tradizioni spirituali celino conoscenze tecnologiche e cosmologiche avanzate ereditate da civiltà extraterrestri. Il tutto mescolando archeologia megalitica e fantarcheologia, fantascienza e mitologia, new age ed esoterismo, la leggenda della linea di San Michele e la credenza nei flussi energetici sotterranei che attraversano la Terra,  l'alchimia e la numerologia (soprattutto legata al significato esoterico del numero otto), ma anche non banali riferimenti alla fisica quantistica. Un prezioso glossario finale fa da guida alla lettura. 
I punti di riferimento sono i già citati Dan Brown e Graham Hancock, ma se ne ritrovano altri in Martin Mystére (un personaggio a fumetti molto caro a Tonarelli), James Redfield (“La profezia di Celestino”) e Indiana Jones. “Otto mondi”, insomma, può essere inteso come romanzo iniziatico così come racconto d’avventura pieno di colpi di scena, lo è stile accessibile e scorrevole, adatto sia al lettore in cerca di evasione sia a quello più attento ai simbolismi, c’è una buona coerenza interna e una lodevole chiarezza nell’esposizione delle dottrine esoteriche. Alcuni passaggi esplicativi risultano didascalici, ma sono funzionali all’obiettivo divulgativo, l’intreccio ha un efficace equilibrio tra fiction e concetti sapienziali. L’autore dimostra passione e competenza, e trasmette al lettore il fascino della ricerca interiore e della conoscenza perduta. 
Il romanzo inizia con  il protagonista, il giovane avvocato Andrea Tusco, che ricorda l'infanzia legata al nonno Riccardo, il quale gli raccontava storie affascinanti su Ermete Trismegisto, il "Tre volte Grande”, introducendolo al principio ermetico "come in alto, così in basso". Questo ricordo diventa fondamentale quando, al compimento dei trent'anni, Andrea riceve una convocazione da un notaio che gli consegna un lascito del nonno: una lettera sigillata con ceralacca e un cofanetto di legno contenente una moneta d'oricalco. La lettera rivela verità sconvolgenti sulla famiglia Tusco e sulla Confraternita dei Figli di Thoth, un'organizzazione segreta nata ad Atlantide per preservare le antiche conoscenze e opporsi a una minacciosa razza che da millenni domina segretamente l'umanità. Da qui inizia una sarabanda di avventure che portano Andrea Tusco da Lucca a Torino, dal Cairo al Castel del Monte, castello non per caso di forma ottagonale, scelto come luogo simbolico carico di significato esoterico e geometrico. Al viaggio geografico, nello spazio, si alternano flashback, viaggi nel tempo, in cui si narrano avvenimenti avvenuti millenni o secoli prima del nostro presente. Infine, nel romanzo è presente un riferimento diretto a Gavinana, descritto come un luogo simbolico della memoria e delle radici legato alla storia familiare del protagonista. Si dà il caso che il piccolo borgo sulla Montagna Pistoiese sia anche il luogo dove sono nato anch’io e a pagina 58 mi si cita come buon amico di Andrea Tusco e si descrive la mia casa. Tuttavia, giuro, non è per questo che parlo bene del romanzo di Marco.


domenica 27 luglio 2025

LA LUNA DI CARTA



 
Andrea Camilleri
LA LUNA DI CARTA
Sellerio
2005, brossurato
280 pagine, 11 euro

“La luna di carta”, pubblicato nel 2005, è il nono romanzo della serie (che ne conta una trentina) dedicata dallo scrittore siciliano Andrea Camilleri (1925-2019) al suo fortunato personaggio del commissario Salvo Montalbano. Fortunato per il grande successo di pubblico in libreria, per le tante traduzioni in mezzo mondo, per i dati di ascolto della serie televisiva, perfino per l’omaggio fatto all’autore dalla Disney con la creazione del personaggio di Topalbano (Camilleri, peraltro, è stato anche sceneggiatore di fumetti, oltre che autore teatrale e televisivo). Fortunato, però, anche per l’invenzione del particolare linguaggio con cui vengono narrate le sue storie, una sorta di grammelot (come quello usato da Dario Fo) in versione sicula, in cui contano i suoni che comunicano il significato anche in mancanza di una corrispondenza lessicale sul dizionario, o come l’esperanto, una lingua inventata a tavolino partendo da parole esistenti forgiate e utilizzate in funzione della comprensione. Il gioco letterario di Camilleri funziona talmente bene che il lettore non siciliano si chiede se il narratore de “La luna di carta” stia effettivamente parlando la lingua che si sente a Palermo o a Catania, che miracolosamente risulta intellegibile al primo sguardo anche dai non nativi dell’isola, mentre poi, approfondendo la questione, si scopre che si tratta di “vigatese”, l’idioma di Vigata, la cittadina immaginaria (nell’altrettanto immaginaria provincia di Montelusa) inventata dallo scrittore per fare da sfondo alle inchieste di Montalbano (si dice che corrisponda a Porto Empedocle, di dove Camilleri è nativo). Una lingua, dunque, che non esiste, in cui la struttura della lingua italiana si mescola con termini di vari dialetti siciliani. L’autore spiega così la faccenda: “Si tratta di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c'è dietro”. Nel primo romanzo con protagonista Montalbano, “La forma dell’acqua” (1994) il “vigatese” si limitava a poche frasi e parole, ne “La luna di carta”, undici anni dopo, invece imperversa. Di primo acchito la lettura può sembrare ostica, poi ci si abitua e la si apprezza. Cito come esempio il brano in cui Camilleri giustifica, tramite i ricordi del commissario, il titolo del romanzo: “Quann'era picciliddro, una volta sò patre, per babbiarlo gli aveva contato che la luna 'n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto.”
Undici anni sembrano passati anche per Salvo, che durante questa inchiesta comincia a essere turbato dall’idea di invecchiare, segno che Camilleri intende far avvertire i segni del tempo al suo personaggio, come Simenon con Maigret (che a un certo punto va in pensione). Il paragone con Maigret sembra estendibile anche ad altre caratteristiche della serie. Innanzitutto il “metodo” investigativo, non deduttivo ma psicologico, attento alle sensazioni a pelle e agli ambienti sociali. Poi, lo svelamento del privato del protagonista, seguito a mangiare e bere con gusto, sotto la doccia e sul letto. Quindi, il teatrino di comprimari ricorrenti e ben caratterizzati (Agatino Catarella, centralinista del commissariato, è una autentica macchietta). Lo scontroso dottor Pasquano, che esegue le autopsie, sembra corrispondere al dottor Moers del romanzi di Simenon, e lo stesso si può dire del magistrato Tommaseo paragonabile al giudice Ernest Coméliau. Va ricordato, a questo proposito, come Camilleri sia stato il delegato di produzione RAI dell’adattamento televisivo delle inchieste del commissario Maigret (1964-1972), interpretato da Gino Cervi.
Ci sono alcune similitudini fra il primo romanzo di Montalbano, “La forma dell’acqua”, e questo “La luna di carta”. Innanzitutto, la trama alquanto (eufemismo per parecchio) torbida: addirittura, i due cadaveri su cui si indaga vengono ritrovati entrambi con i pantaloni abbassati e i genitali esposti agli sguardi. Poi (e qui si perdoni il piccolo spoiler) i colpevoli degli omicidi non finiscono in prigione ma muoiono prima di essere arrestati, e Montalbano avalla versioni addomesticate nei sui rapporti ufficiali. Quindi, colpisce la quantità di donne seducenti e disinibite sulle cui caratteristiche Camilleri si compiace di indugiare, con apprezzamenti che oggi potrebbero sembrare sessisti, mettendo di continuo Salvo in condizione di sudare freddo e deglutire di frequente, cercando di non cedere alla tentazione in quanto ritiene di dover essere fedele alla sua compagna lontana (vive a Genova), Livia Burlando, di cui si parla poco. Le due donne principali de “La luna di carta” sono Elena e Michela, rispettivamente l’amante e la sorella di Angelo Pardo, informatore farmaceutico ed ex medico radiato dall’Ordine per aver praticato un aborto clandestino (peraltro su una ragazza da lui stesso messa incinta, e sottoposta all’intervento dopo essere stata sedata a tradimento). Pardo viene trovato ucciso a casa sua con un colpo di pistola in fronte e con una mutandina femminile in bocca. L’indagine di Montalbano si intreccia con quella dei suoi colleghi che si occupano di un traffico di droga, peraltro tagliata male al punto da causare vittime illustri tra i notabili locali. La soluzione del giallo è sorprendente quanto basta, la lettura stimolante e divertente per il susseguirsi di situazioni, i dialoghi interessanti e brillanti. Mi sono dispiaciuto, però, per le reiterate riflessioni giustizialiste (eufemismo per forcaiole) del protagonista, che probabilmente esprime le opinioni dell’autore, mentre dovrebbero valere la presunzione di innocenza e il dubbio pro reo.


mercoledì 23 luglio 2025

TATA'



Valérie Perrin
TATA’
Edizioni e/o
2024, brossura
608 pagine, 21 euro

Non tutte le ciambelle riescono col buco, e questo quarto romanzo della scrittrice francese Valérie Perrin (1967) è probabilmente quello che le è venuto un po’ più stortignaccolo. Il precedente, “Tre”, invece era decisamente bello: ne avevamo parlato in questo stesso blog.
Dicendo che “Tatà” delude le aspettative comunque va da sé che le aspettative erano alte, visto il talento dell’autrice e la sua abilità di costruire intrecci intriganti di pari passo alla caratterizzazione e all’approfondimento psicologico dei personaggi. La Perrin riesce, insomma, a dar vita a trame avvincenti con misteri da chiarire e ingegnosi colpi di scena senza che le si possa attribuire una etichetta di genere, raccontando di personaggi calati nella realtà della vita quotidiana e nei loro legami famigliari e amicali. Un equilibrio delicato che, però, con “Tatà” si è sbilanciato. Il desiderio di costruire un meccanismo in grado di sorprendere il lettore con impreviste rivelazioni che si susseguono la porta a dar vita a una architettura inutilmente complicata e difficile da credere. Lo stesso difetto di Joël Dicker ne “La verità sul caso Harry Quebert”,anche se, dal punto di vista della qualità della scrittura, la francese surclassa lo svizzero. 
Eppure l’inizio di “Tatà” è promettente:  Agnès, una regista cinematografica di successo che vive il personale dramma di una crisi coniugale, riceve la notizia della morte della zia Colette Septembre. Il fatto è che Colette era già stata dichiarata morta tre anni prima. Agnès si reca nel suo paese natale, a Gueugnon, una cittadina della Borgogna a nord della Francia, per indagare: dopo aver riconosciuto il cadavere della zia, defunta per cause naturali, serve scoprire chi è sepolto, dunque, al posto suo, nella tomba che reca il suo nome e perché la vecchietta abbia deciso di fingersi morta nascondendosi da tutti nei suoi ultimi anni di vita. Le indagini di Agnès ricostruiscono pezzo per pezzo la vita di Tatà Colette e, con la sua, quella dell’intera loro famiglia, dagli anni dell’occupazione nazista della Francia ai giorni nostri, ovvero quelli del romanzo, ambientato nel 2010 nella sua parte principale. Tutto ciò che la regista credeva di sapere sui genitori e i parenti viene rimesso in discussione, e la Perrin esplora la complessità dei legami famigliari, che vanno al di là dei vincoli biologici. Nell’intreccio trovano posto anche le figure di un gruppo di amici d’infanzia che Colette ritrova a Gueugnon, e che la aiutano nella ricerca della verità. L’indagine alterna vari piani temporali saltando di decennio in decennio e tornando indietro, e la narrazione viene affidata a voci diverse, perché attraverso alcune decine di audiocassette la stessa Tatà racconta (ma con una lentezza esasperante) gran parte di ciò che Agnès vuol sapere (se la regista le avesse ascoltate tutte di fila o se la zia, come sembrerebbe più logico, avesse spiegato tutto in una cassetta sola, facendola breve, la faccenda sarebbe stata più credibile. Oppure sarebbe bastata una lettera. Invece, Agnés si fa durare l’ascolto per tutto il romanzo arrivando all’ultima registrazione giusto in fondo al libro. Alla verità, che nella vita reale tutti vorrebbero sapere subito, si giunge in modo frammentato. Ed è poco convincente che la protagonista, di fronte alle cassette audio che potrebbero rivelargli tutto, pensi: “Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio”. La sospensione dell’incredulità nel lettore vacilla e viene messa a dura prova. 
Le perplessità aumentano quando ci viene presentatala figura di Blanche, che personalmente ho trovato indigesta e poco credibile. Come poco credibile sono i rapporti fra Blanche e suo padre e quelli fra Colette e sua madre, genitori degeneri decisamente sopra le righe. Soprattutto il papà di Blanche è davvero fuori registro, al punto da assomigliare allo Zalachenko padre di Lisbeth Salander nella saga di “Millennium” (lui sì, però, in grado di creare la suspension of disbelief). Il lettore apprende del perché Blanche debba nascondersi da un vecchietto novantenne e resta di stucco riflettendo sul fatto che sarebbe bastato rivolgersi alla polizia per risolvere ogni problema. Ma accadimenti tirati per i capelli si susseguono per tutto il romanzo e riguardano ogni personaggio: tra quelli più incredibili, l’improbabile storia d’amore fra un diciottenne campione di calcio e la già matura Colette, umile calzolaia – ma anche il matrimonio improvviso, interreligioso, tra un amico di Agnès e una ragazza conosciuta poche settimane prima, nel corso delle indagini. I buoni sentimenti e la correttezza politica imperversano, il potere salvifico dell’amicizia è la panacea di ogni male, il racconto è pieno di morali della favola e il guaio è che non si traggono, ci vengono spiegati.



lunedì 21 luglio 2025

IVANHOE

 
 


Walter Scott
IVANHOE
Rizzoli
1988, brossurato
544 pagine, 10.500 lire

Si dice che Walter Scott (1771-1832) sia stato il primo autore di bestseller appositamente costruiti per raggiungere il più vasto pubblico possibile. Benedetto Croce addirittura scrive che “nel trattare dello Scott conviene, in primo luogo, aver l’occhio all’ufficio sociale che egli ha adempiuto: ufficio che fu semplicemente quello di un produttore industriale, intento a fornire il mercato di oggetti dei quali era altrettanto viva la richiesta quanto legittimo il bisogno. Egli ebbe il genio dell’intrapresa industriale a ciò corrispondente”. “Intrapresa” che fu coronata da una straordinaria fortuna. Personalmente, nel giudizio crociano non ci vedo niente che svilisca l’autore, anzi, viva gli autori che scrivono per il loro pubblico. Si dice anche che Walter Scott abbia inventato, o perlomeno portato in auge, il romanzo storico, che, come nota il Carducci, “non ha nulla a che fare col romanzo cavalleresco e col poema romanzesco”. “Ivanhoe” (1819), la sua opera di maggior successo (ma si potrebbe citare anche “Rob Roy”) non ha per ambientazione un medioevo fantastico, ma si cala nella realtà dell’Inghilterra attorno al 1194, avendo per sfondo luoghi riconoscibili e per protagonisti alcuni personaggi storici (come Riccardo Cuor di Leone e suo fratello Giovanni). Non solo: Scott sceglie di affrontare un argomento spinoso come l’invasione dell’Inghilterra da parte dei Normanni che sottomettono i Sassoni. Lo fa, peraltro, cercando di documentare minuziosamente la sua ricostruzione delle usanze, degli abiti, degli stati d’animo dell’epoca, occupandosi anche di mettere a confronto le rivendicazioni degli sconfitti e le strategie politiche dei colonizzatori, ma anche gli scontri politici attorno alla rivendicazione della corona, rendendo parte del racconto anche le crociate. Prima di “Ivanhoe” lo scrittore, nato a Edimburgo, aveva scritto soltanto di cose scozzesi, e forti furono i suoi dubbi e i suoi timori allargandosi anche a quelle inglesi, al punto he inizialmente pubblicò la sua opera sotto lo pseudonimo di Laurence Templeton. Un’altra cosa ripetuta è che Alessandro Manzoni trasse proprio da Walter Scott la determinazione di scrivere anche lui un romanzo calato nella realtà storica, quella lombarda dei Seicento, “I promessi sposi”. Il Manzoni lo fa in modo diverso, più sofisticato e con intenti pedagogici, ma di certo dello scrittore scozzese dice: “il mondo aspettava ansiosamente e divorava avidamente i romanzi di Scott”, riconoscendogli anch’egli una valenza letteraria e culturale di primo piano, quella che si deve inevitabilmente a ogni autore che abbia la fortuna di essere ascoltato e avere influenza sui suoi lettori.  Tre cose che mi hanno colpito: la prima, rappresentazione (che non pare condivisa dal narratore) di un odioso antisemitismo, che si ritrova, per fare un esempio, anche nelle pagine di Dickens, ambientate nella Londra della prima metà dell’Ottocento, segno che il pregiudizio cristiano contro gli ebrei ha attraversato i secoli. La seconda: la presenza, fondamentale e tutt’altro che accessoria, di Robin Hood e della sua banda (Frate Tuc compreso), anche se all’arciere viene cambiato il nome in Locksley. Infine: “Ivanhoe” viene a torto considerato come un romanzo per ragazzi, forse per la componente avventurosa, le scene di battaglia, gli assalti al castello, i tornei cavallereschi, il mistero che circonda la figura il Cavaliere Nero che alla fine (spoiler) si rivela essere Riccardo Cuor di Leone tornato dalla Crociata. Tuttavia molti aspetti e contenuti del romanzo sono tutt’altro che destinati a lettori particolarmente giovani: i riferimenti storici e politici, la discriminazione verso gli ebrei e soprattutto verso la sfortunata Rebecca, l’odio fra Sassoni e Normanni che vede alla fine una possibilità di fusione tra i due popoli con il matrimonio (spoiler) fra Ivanhoe e Rowena e via dicendo. Il linguaggio di Walter Scott, anche nella versione integrale, resta piacevole da leggere nonostante certe prolissità dovute soprattutto alla minuzia delle descrizioni. Indimenticabili e ottimamente caratterizzati certi personaggi come il buffone Wamba, il servo Gurth, il castellano Cedric, lo sbruffone principe Giovanni, l’Eremita (Frate Tuc), l’usuraio Isaac, la vecchia e folle Urfrida, e i cattivi De Bracy, Bois-Guilbert e Front-de-Boeuf. “Ivanhoe” non sarà “I promessi sposi” ma ci si diverte a leggerlo.



sabato 19 luglio 2025

SHANGRI-LA



Alberto Becattini
Marco Ciardi
SHANGRI-LA
Carocci Editore
2025, brossura
142 pagine, 17 euro


“Il mito fra storia, arte e letteratura”, aggiunge il sottotitolo, inquadrando meglio l’argomento. Ma qualcosa in proposito ci dice anche il nome di uno dei due autori, quel Marco Ciardi (professore di Storia della Scienza presso l’Università di Firenze), che fra i tanti libri pubblicati ne annovera alcuni dedicati alla sterminata letteratura sulla mitologia atlantidea e altri sulla nascita di leggende quali quelle degli antichi astronauti e sulla vasta letteratura pseudoscientifica legata alla fantarcheologia, sempre tracciando precise ricostruzioni su come certe credenze siano nate e abbiano poi lasciato il segno nell’immaginario collettivo attraverso la letteratura, il cinema, i fumetti. Se nel caso di Atlantide il mito trae origine da racconti narrati fin dalla notte dei tempi e finiti negli scritti di Platone, lasciando il dubbio in qualcuno che qualche cosa di vero potesse esserci alla base, esaminando la vicenda di Shangri-La, invece, tutto dovrebbe essere molto chiaro: la città nascosta tra le montagne dell’Himalaya è stata immaginata da uno scrittore inglese James Hilton (1900-1954) in un romanzo del 1933 intitolato “Orizzonte perduto”. L’origine del mito potrebbe insomma essere paragonata a quella, altrettanto letteraria, della creatura di Frankenstein, dovuta alla penna di Mary Shelley nel 1818, argomento affrontato sempre da Marco Ciardi, con Pierluigi Gaspa, in un saggio intitolato “Frankenstein, il mito tra scienza e immaginario” (2018). Però, mentre del mostro della Shelley nessuno ha seriamente ipotizzato la reale esistenza, qualcuno ha invece sostenuto che Hilton abbia attinto a fonti reali e che Shangri-La potrebbe sorgere davvero là dove lo scrittore, documentatosi su libri di viaggiatori che hanno visitato il Tibet, ha indicato che si trovi. “Lost Horizon” è un romanzo che si inserisce nel fortunato filone dei “mondi perduti”, genere che vede tra i capostipiti il “Viaggio al centro della Terra” di Jules Verne (1864), “Le miniere di Re Salomone” di Henry Rider Haggard (1885) e “The Lost Word” di Arthur Conan Doyle (1912). Hilton immagina Shangri-La come una cittadella costruita, in una valle sconosciuta alle mappe ufficiali, attorno a un monastero tibetano, una vera e propria comunità utopica i cui abitanti sono dediti all’arte e alla filosofia e si sono dati il compito di preservare e tramandare le opere della cultura e della conoscenza della civiltà. Ci sono biblioteche, strumenti musicali, archivi di ogni tipo. Inoltre, a Shangri-La (il “La” significa “valico” e dunque segnala un passaggio tra il mondo reale e un universo parallelo) il tempo scorre più lentamente e non si invecchia, ma uscendone gli anni trascorsi fra nella valle incantata si recuperano tutti immediatamente. Il romanzo è ambientato nel 1931, e ha per protagonista un diplomatico inglese di nome Hugh Conway, il quale, insieme ad altri passeggeri di un aereo che sorvola l’Himalaya, viene coinvolto in un atterraggio di fortuna tra le nevi del Tibet, il cui impatto è abbastanza violento da provocare la morte del pilota. I naufraghi dell’aria, dopo aver disperato di salvarsi per le bufere e la temperatura estrema delle montagne tra cui sono finiti (privi anche di coordinate geografiche così come della possibilità di chiedere aiuto), vengono soccorsi dagli abitanti di Shangri-La che li accolgono nella loro città dotata di riscaldamento centralizzato e di tutti i comfort moderni, così come di terre fertili coltivate. Il romanzo, che risponde al desiderio universale di pace e alla speranza di progresso in anni difficili, ottiene un grande successo (non immediato ma a partire dall’edizione americana del 1934). Ciardi e Becattini raccontano poi con dovizia di particolari le traversie e le disavventure di Frank Capra nel realizzare il film “Orizzonte perduto”, uscito in una prima versione nel 1937, poi in una rielaborata nel 1942 e quindi in una più beve nel 1952. In ogni caso, l’adattamento cinematografico di Capra è solo il primo di una incredibile e lunghissima serie di film, radiodrammi, riduzioni teatrali e televisive, versioni a fumetti, composizioni musicali. Di ogni influenza lasciata nella cultura di massa da “Lost Horizon” nell’arte e nella fiction, Alberto Becattini (straordinario compilatore di bibliografie) dà conto da par suo, affiancando la disamina storico-letteraria fornita da Marco Ciardi (anche se è facile immaginare una sovrapposizione di ruoli tra i due). A me ha colpito molto scoprire come la residenza vacanziera del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, tra i boschi del Maryland, fosse stata da lui battezzata proprio “Shangri-La”, e soltanto in seguito (e un po’ ci dispiace) abbia cambiato nome in “Camp David”.




venerdì 13 giugno 2025

LE CONFESSIONI DI UN PECCATORE ELETTO

 

 
James Hogg
LE CONFESSIONI DI UN PECCATORE ELETTO
Alcatraz
2025, brossurato
326 pagine, 18 euro

Faccio subito mie le parole con cui Steve Sylvester inizia la sua postfazione: “Il primo a parlarmi di James Hogg fu… James Hogg. No, non il fantasma dello scrittore scozzese del Settecento, ma il suo omonimo discendente, un artista, mio caro amico. Oltre a condividere la passione per i fumetti e la musica rock, io e James abbiamo più volte collaborato nella stesura di testi di canzoni e fu proprio durante una di queste sessioni che mi parlò del suo avo.  La cosa intrigante è che i due non solo condividono lo stesso nome, ma confrontando i pochi ritratti esistenti del celebre antenato si assomigliano anche moltissimo. Ci sono tutti gli elementi per elaborare una trama da gothic novel sulla reincarnazione”. 
Lo stesso è accaduto a me: James Hogg, quello di oggi, è mio sodale da molti anni nella realizzazione di vignette umoristiche (tra cui quattro serie da portare avanti mensilmente per altrettante diverse pubblicazioni) di cui io scrivo i testi che lui illustra dimostrando un portentoso talento umoristico. Frequentandoci, mi ha invitato a consultare Wikipedia e scoprire cosa viene fuori digitando il suo nome. Detto fatto. Scopro così che James Hogg (1770-1835) è stato un poeta e scrittore scozzese. Non frequentò scuole e visse la sua giovinezza in povertà facendo il pastore (proprionel senso di guardiano di pecore), finché il suo datore di lavoro, notando gli sforzi di James per migliorare la propria condizione, lo aiutò a procurarsi dei libri e dopo che lo ebbe visto, da perfetto autodidatta, comporre poesie, lo presentò a Walter Scott, il celebre autore di “Ivanhoe”, che diventò suo amico e mentore. Nel 1801 Hogg pubblica la sua prima raccolta di versi, “Scottish Pastoral”. Dieci anni dopo, lo troviamo trasferito a Edimburgo: fonda riviste e diventa una presenza fissa nei circoli letterari della capitale scozzese, dove comunque le sue origini sono spesso oggetto di derisione.  Lo studioso James Barcus spiega: “Quel pastore era visto come un uomo dal talento potente e originale, ritenuto un genio, ma taluni pensavano che la carenza di una vera e propria educazione formale influisse in maniera negativa sul suo lavoro, ritenuto povero di tatto, cosa che lo aveva portato a parlare, nei suoi scritti, di argomenti ben poco accettabili nella buona società, come ad esempio la prostituzione”. La propensione del James Hogg settecentesco per i temi scabrosi, l’iconoclastia, la satira sociale pare giunta, per ereditarietà genetica, al pronipote novecentesco, che invece di scrivere poesie compone testi di canzoni e anziché pubblicare romanzi satireggia e anticlericaleggia attraverso le sue vignette, molte delle quali ospitate sul “Vernacoliere”. 
Il romanzo più celebre dell’Hogg scozzese è “Le confessioni di un peccatore eletto”, pubblicato nel 1824. Un recensore dell’epoca commenta: “L’impressione che questo libro ha lasciato nelle nostre menti è così spiacevole che vorremmo tanto non averlo letto”.  In anticipo sui tempi com’era, dell’opera di Hogg non si coglieva, da parte dei contemporanei, la valenza satirica e la denuncia degli estremi a cui può portare il fanatismo religioso e settario. Non solo: lo scrittore affrontava temi che altri, anni dopo, avrebbero cavalcato con successo, come quello del Doppelgänger, o del “doppio”. E’ facile riconoscere, con i nostri occhi di lettori di molto tempo dopo, l’anticipazione de “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde” (1886). Si può parlare de “Le confessioni di un peccatore eletto” anche come di uno dei primi romanzi gotici, un genere iniziato nel 1764 da Horace Walpole con “Il castello di Otranto” e che prevede storie in cui si mescolano pulsioni romantiche, soprannaturale e orrore. Tutti elementi che in effetti si ritrovano in Hogg e nel suo racconto di un giovane uomo, Robert Wringhim, educato da un padre fanatico religioso, a cui appare una figura diabolica, ingannatrice e mutaforma, nota come Gil-Martin, che vede soltanto lui. L’incontro avviene dopo che Robert si è convinto che egli è uno degli Eletti, un gruppo di persone predestinato per la salvezza (si noti il riferimento al calvinismo). Salvezza che otterrà accettando la guida di Gil-Martin, il quale, in una spirale di delirio e di follia, lo spinge a compiere omicidi per liberare il mondo dai peccatori, primi fra tutti il proprio padre e suo fratello. Il romanzo, edito da Alcatraz, reca una interessante prefazione di Max Baroni e si fregia di alcune illustrazioni di, indovinate un po’, James Hogg. Quello di oggi, beninteso.


giovedì 12 giugno 2025

BIBBIA RIDENS

 
 
 

 
 
Roberto Beretta
Elisabetta Broli
BIBBIA RIDENS
Piemme
2005, brossurato
152 pagine, 10 euro

Ho sempre sostenuto che il proverbio “scherza sui fanti e lascia stare i santi” non sia del tutto fondato, perché, secondo me, la maggior parte dei santi sono (in quanto saggi e illuminati) più spiritosi della maggior parte dei loro devoti. I martiri, poi, figuriamoci se non sanno accettare una battuta dopo aver sopportato il martirio. E poi, la verità è che l’umorismo è la cura e non la malattia. Non di rado la burla rivela la verità, o una delle tante, e infatti, come si sa, Arlecchino si confessò burlando. E per finire, a mettere paletti su ciò su cui si può scherzare si comincia dai santi e non si sa dove si finisce. La censura è sempre una sconfitta. Senza dubbio ci sono suscettibilità diverse, ma quella dei faceti dovrebbe valere quanto quella dei seriosi. Altrimenti i permalosi fanno le stragi nelle redazioni dei giornali umoristici, e invece di rispondere a una vignetta satirica con impugnando anche loro i pennarelli lo fanno imbracciando il mitra. Mi rendo conto di averla fatta troppo lunga, soprattutto per arrivare a parlare di un libro assolutamente innocuo come “Bibbia ridens”. Però, come autore dei testi di una serie pubblicata ogni mese sul “Vernacoliere” intitolata “La Bibbia secondo Burattini & Jogg” mi sento di parlare come Cicero pro domo mea. Per carità, assicuro che io e James Hogg siamo, o cerchiamo di essere, tutto fuorché blasfemi e ci concediamo solo spiritosaggini del tipo che Gesù bambino si allena ai miracoli moltiplicando i pesci rossi nella boccia di vetro o che Eva si fa una borsetta di pelle di serpente non resistendo alla tentazione. “Bibbia ridens” (da cui per il “Vernacoliere” non ho copiato nessuna battuta, almeno che mi sia accorto) propone contenuti eterogenei tutto sommato piuttosto annacquati, tant’è vero che l’editore è Piemme e i due autori sono uno un giornalista di “Avvenire” e l’altra una studiosa di teologia. Roberto Beretta e Elisabetta Broli raccolgono aforismi, battute e barzellette (testi scritti) alternandoli con alcune vignette (disegnate) di Emanuele Fucecchi, anch’egli diplomato in scienze religiose. Si comincia con il livello alto di Marcello Marchesi che chiede: “Dio, dammi un assegno della tua presenza!”, per poi adagiarsi su arguzie quali “Cosa dice Adamo quando vuol fare l’amore con Eva? Sfogliati!”. Ma anche: Noè vede che sull’arca c’è un pesce da solo senza la compagna, è il pesce sega (divertente, ma ci si chiede se sull’arca ci fossero anche i pesci, forse solo quelli di acqua salata). Aforismi di autori illustri e battute folgoranti di autori ignoti sono la parte migliore del libro, meno brillanti le barzellette, alcune delle quali forzatamente adattate ai riferimenti biblici. Una fra le cose migliori, i tre motivi per sostenere che Gesù fosse in realtà un portoricano: 1) si chiamava Jesus; 2) aveva guai con la legge; 3) sua madre non era sicura di chi fosse suo padre. La migliore barzelletta in assoluto, è quella iniziale sui due amici al bar: “Ieri sera ho visto in TV un bellissimo film: ‘La Bibbia’”, dice uno, e aggiunge: “Non sai se per caso è già uscito il libro?”.



 

martedì 10 giugno 2025

SOLO BAGAGLIO A MANO

 

 
Gabriele Romagnoli
SOLO BAGAGLIO A MANO
Feltrinelli
2017, brossurato
90 pagine, 9 euro

Più che leggere il libro (peraltro molto breve) sembra di ascoltare una conferenza, quella di un viaggiatore che ha viaggiato in 75 paesi di quattro continenti e vissuto in otto diverse città del mondo. Una conferenza sicuramente affascinante ma certamente non un saggio di psicologia basato su studi clinici o un manuale strutturato lungo un percorso compiuto. Il giornalista Gabriele Romagnoli (1960) salta di palo in frasca incuriosendo i suoi lettori raccontando aneddoti, ricordando avvenimenti, citando letture. L’intento, esposto nel primo capitolo, è questo: “trarrò qui alcune conclusioni dai miei viaggi e traslochi dandone per certa una e basta: cercate di portare soltanto il bagaglio a mano”. Del resto, viene citato un proverbio napoletano secondo il quale “l’ultimo vestito è senza tasche”. Viaggiare leggeri è una scelta di vita che impone di decidere quali sono le cose davvero importanti, e quali inutili zavorra. Il grande viaggiatore è quello con il piccolo bagaglio. Il consiglio è quello di sfrondare e ridurre all’essenziale persino la rubrica dei numeri salvati sul telefonino. Un esempio del vantaggio del resettare, liberare spazio, non accumulare il superfluo è dato dall’incubo che rappresenta per tutti l’esperienza di un trasloco: “il peggior trauma dopo un lutto”. Un trauma liberatorio, perché fa scoprire la quantità di cose inutili da cui siamo appesantiti. Possedere significa in realtà essere posseduti. Accumulare, secondo l’autore, è una malattia socialmente pericolosa. Persino riguardo ai ricordi: ricordare tutto fa male. A un certo punto Romagnoli arriva a paragonare il vantaggio dell’essere “maneggevole e veloce” alla necessità di rappresentare un bersaglio mobile sotto il tiro dei cecchini. Chi è più lento viene ucciso. Conta che nessuno e niente ci ancori. “Perché accettare situazioni o rapporti che ti impongono di essere ciò che non sei? Di un oggetto di valore, facile da reimmettere sul mercato, si dice: è un assegno circolare. Circolare, muoversi, scambiare, cambiare. Ne hai il diritto. Oggi se questo, sei qui. Domani potresti voler provare a essere un altro e altrove. Portando con te chi conta e quel che conta. O facendoti portare da loro, giacché tu per primo non devi essere una zavorra”. Del bagaglio a mano, però, deve far parte quello che Romagnoli chiama “Piano B”. Qualcosa che prevede una via d’uscita in caso di necessità. Fin qui, ho cercato di riferire il senso di “Solo bagaglio a mano” riducendo la valigia rappresentata dalla dissertazione a un borsellino per gli spiccioli, però credo che potrei scrivere un pamphlet lungo, ovviamente, il doppio in difesa della consolazione rappresentata dagli oggetti, dalle abitudini, dalle persone, dai libri che ci somigliano e di cui perciò tanti di noi si circondano. E’ vero che l’ultimo vestito è senza tasche, ma che bello averne tante in tutti quelli precedenti, da riempire di sassi e legnetti, figurine e spaghi.


martedì 20 maggio 2025

NERO: OSCURATO IL SOLE E SPENTE LE STELLE

 


Emiliano Mammucari
Matteo Mammucari
Alessio Avallone
NERO: OSCURATO IL SOLE E SPENTE LE STELLE
Sergio Bonelli Editore
2022, cartonato
80 pagine, 17 euro


“Una fortezza chiamata Tell Bashir esiste davvero e si trova a sud-ovest di Edessa. Era un nome troppo bello per abbandonarlo alle sabbie del tempo”. Così concludono la loro postfazione Emiliano e Matteo Mammucari, creatori della saga di Nero e sceneggiatori di questo secondo episodio, come del primo. Primo che era stato disegnato dal solo Emiliano, mentre il volume di cui vedete in alto la copertina porta la firma, per la parte grafica, del bravo Alessio Avallone, perfetto nell’inserirsi senza attriti di sorta in una narrazione già iniziata da altri. Della puntata precedente, intitolata “Così in terra” ci siamo già occupati in questo spazio: cliccate sul titolo per leggere la recensione che commenta l’inizio della saga.
Tell Bashir, dicevamo: un nome che soltanto a pronunciarlo evoca ciò che i disegni ci mostrano fin dalla seconda tavola, una fortezza araba nel deserto siriano, assediata dai franchi durante la terza Crociata e, apparentemente, destinata a cadere. Giova ribadire quel che avevamo segnalato in precedenza: la grande importanza della colorazione in supporto e valorizzazione dei disegni, proprio come strumento della narrazione (questo secondo episodio è colorato da Luca Saponti, già colorista del primo volume, e da Adele Matera); al contrario, la non importanza dell’aspetto religioso nella caratterizzazione degli eserciti in campo e degli eroi, tutti rivali fra loro o disposti ad allearsi, nonostante la fede, mossi da interessi e scopi personali, sulla scorta di avvenimenti del passato che continuano a guidare le loro scelte e le loro azioni. Il fatto che si parli di crociati e di musulmani non ha grande rilevanza, potrebbe trattarsi della guerra fra Sassoni e Normanni, o fra Mongoli e Cinesi, o fra Russi e Teutonici. “Oscurato il sole e spente le stelle” chiarisce meglio le caratteristiche dei personaggi. Nero, guerriero arabo ma cane sciolto, reca sulla fronte una cicatrice che ricorda un rito a cui fu sottoposto da bambino dal suo stesso padre che voleva immolarlo a un Djinn, un demone nascosto nella misteriosa Grotta del Sangue, rito che non finì bene e che l’indisciplinato eroe vorrebbe non si ripetesse mai più; lo Straniero, combattente cristiano disertore, segnato sul corpo a sua volta dagli artigli dello stesso demone, vuole invece che questi venga nuovamente evocato perché si metta al suo servizio; il Qadi, signore di Tell Bashir e zio di Nero, ritiene l’aiuto del Djinn l’unica speranza per salvare la sua fortezza; la Nizarita, una sorta di ninja musulmana, ha un conto aperto con Nero e lo vuole uccidere approfittando del trambusto. Tutti costoro si ritrovano alla Grotta del Sangue a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, e sembra che uno di loro abbia iniziato il rito...

domenica 18 maggio 2025

SCRIVERE LA STORIA



 
Simon Sebag Montefiore
SCRIVERE LA STORIA
Mondadori
2024, brossura
296 pagine


“Lettere che hanno cambiato il mondo”, promette il sottotitolo. E, in buona parte, il contenuto mantiene. Emozionante, per esempio, poter leggere la lettera scritta dal reverendo John Stevens Henslow a Charles Darwin, il 24 agosto 1831, con la quale il giovane naturalista viene informato di un posto libero a bordo del brigantino “Beagle” che di lì a poco sarebbe partito per un lungo viaggio di esplorazione attorno al mondo. Posto lasciato libero, per la cronaca, da Marmaduke Ramsay, designato in un primo momento ma inopinatamente morto durante i preparativi della spedizione. Henslow scrive: “Non accampate dubbi o timori dovuti a modestia riguardo le vostre qualifiche, mio caro Darwin, perché vi assicuro che vi considero proprio l’uomo che il capitano FitzRoy sta cercando”. Simon Sebag Montefiore (1965), scrittore e saggista britannico,  raccoglie una settantina di lettere private, rintracciate scartabellando libri e archivi di tutto il mondo e di tutte le epoche, scritte da personaggi quali, solo per citarne alcuni, Bolivar, Churchill, De Sade, Gandhi, Che Guevara, Flaubert, Kafka, Lenin, Lincoln, Machiavelli, Mao, Mozart, Michelangelo, Ramses, Solimano il Magnifico, Stalin, Truman, Wilde. Lettere private, cioè non destinate, quando vennero scritte, alla pubblicazione, dunque non documenti ufficiali ma messaggi che mettono a nudo le personalità, i sentimenti, i vizi, i gusti, il coraggio, la bontà, la saggezza ma anche la spietatezza o perfino la stupidità di figure storiche di cui ci è concesso scoprire aspetti sconosciuti e talvolta insospettabili. Tra i documenti raccolti da Montefiore, commentati uno per uno e inquadrati nel loro contesto, ce ne sono alcuni scritti originariamente in caratteri cuneiformi (come la lettera del re siriano Annurapi al sovrano di Cipro, risalente al 1190 avanti Cristo), altri vergati su papiro o su pergamena, infine su carta, in latino, inglese, arabo, russo, francese, tedesco, e altre lingue ancora. Di alcune lettere, come quella a Darwin citata in apertura, è chiaro il perché Montefiore ritenga che abbiano cambiato la Storia, al pari di quella di Lincoln a Grant scritta il 13 luglio 1863 o quella di Rosa Parks a Jessica Milford datata 26 febbraio 1956, in altri casi si fatica a capirlo ma tutto rientra nella logica secondo la quale lo scritto confidenziale trapelato e giunto fino a noi illumina di nuova o maggior luce l’intimo di un personaggio che nella Storia ha rivestito una qualche importanza. Molto curiose sono le missive, piuttosto numerose, in cui si parla di sesso, mentre altre ci meravigliano per come palpitano d’amore, etero o omosessuale (colpisce quella di Giacomo I al Duca di Buckingham, del 17 maggio 1620). Alcune lettere sono strazianti, scritte in punto di morte (Alan Turing a Norman Routledge, 1952; Franz Kafka a Max Brod, 1924;  Leonard Cohen a Marianne Ihlen, 2016), altre buffe e imbarazzanti (Mozart che racconta la sua gara di peti). Insomma, ogni lettera suscita sorpresa e interesse. Potrei citarle tutte, mi limiterò ad altre due scritte da personaggi che non conoscevo. La prima, quella di Manuela Sàez al marito James Thorne, datata 1823, in cui la coraggiosa donna ecuadoriana che fu amante (la più amata, forse, fra le tante) di Simon Bolivar, dice addio al consorte inglese che era stata costretta a sposare: “Ah! Io non vivo seguendo le convenzioni sociali inventate dagli uomini per recarsi mutuo tormento”. Ma soprattutto colpiscono le parole rivolte ai figli nel 961 da Abd al-Rahman III, governante arabo di al-Andalus, regno musulmano di Spagna: “Ho ormai regnato per più di cinquant’anni. Ricchezze e onori, potere e piaceri, tutto ho avuto di ciò che desideravo, e in apparenza nessuna fortuna terrena mi è mancata. In questa situazione, ho diligentemente conteggiato i giorni di pura e vera felicità di cui ho potuto godere: ammontano a quattordici!”.

 

martedì 13 maggio 2025

NERO: COSI’ IN TERRA

 
 

 
Emiliano Mammucari
Matteo Mammucari
NERO: COSI’ IN TERRA
Sergio Bonelli Editore
2021, cartonato
80 pagine, 17 euro

«“Nero” non parla di religione, non parla di guerre e non parla di culture contrapposte. “Nero” parla di demoni». Così concludono la loro introduzione al volume Emiliano e Matteo Mammucari, autori a quattro mani di soggetto e sceneggiatura. Il solo Emiliano, invece, si è occupato degli efficaci disegni, affidati alla colorazione di Luca Saponti. Un nome, quello di Saponti, che va assolutamente citato perché i colori, in questo racconto a fumetti, sono non soltanto spettacolari, ma parte integrante della storia. Colori che, finalmente, valorizzano ed esaltano le chine sottostanti, aggiungendo significato ed emozioni, oltre che atmosfera, sfondo e completamento. Così come merita una segnalazione l’originale lettering di Marina Sanfelice, studiato appositamente per “Nero”. Ma torniamo al fatto che Emiliano e Matteo Mammucari non intendono narrarci precisi eventi storici del 1173 accaduti fra la prima e la seconda crociata nella regione compresa fra Antiochia e Gerusalemme, e non vogliono, dunque schierarsi in favore degli infedeli rispetto a una fede piuttosto che a un’altra. Vogliono narrarci una fabula che usa uno sfondo bellico feroce e insanguinato per introdurci magia, avventura, mistero, personaggi ben caratterizzati che celano segreti legati a un passato i cui segni sono ben visibili sui loro corpi e nelle loro menti. Vogliono sorprenderci e intrigarci, insomma, e mi pare il migliore dei propositi. Peraltro, sembrano intenzionati a farlo usando un linguaggio chiaro, nei testi e nei disegni, senza aggiungere la difficoltà di decfrazione del narrato al mistero che aleggia sulle vicende. “Così in terra” è il primo volume di una serie Bonelli (ma inserita nella produzione Audace) che si preannuncia articolata, e presenta lo scenario: la Siria dell’anno dell’Egira 551. Siccome l’esodo da La Mecca verso Medina di Maometto e dei suoi seguaci avvenne nel 622 del calendario cristiano, siamo appunto nel 1173. I protagonisti sono principalmente due, un arabo chiamato Nero e un cristiano per il momento noto solo come lo Straniero. Il primo reca una cicatrice sulla fronte raffigurante uno strano simbolo, di cui il secondo sembra conoscere il significato. Lo Straniero è appunto in cerca di Nero, che riconosce per i segni sul volto, e che cattura per farsi condurre da lui nella misteriosa e arcana Grotta del Sangue. Fu là dentro che il padre di Nero incise con una lama la pelle del figlio. Si ignora lo scopo del rituale, perché lo Straniero conosca quei fatti, che cosa (di magico) si nasconde nella caverna, per quale motivo il cristiano la voglia raggiungere. L’irrompere sulla scena di una guerriera musulmana, Nizarita, rovescia la situazione: lo Straniero viene fatto prigioniero e condotto nella fortezza di Tell Bashir, che sta per cadere in mano crociata.



lunedì 12 maggio 2025

LA CORSA DEL LUPO

 
 
Gigi Simeoni
LA CORSA DEL LUPO
Sergio Bonelli Editore
2024, cartonato
340 pagine, 28 euro
 
Mi sono imbattuto in Gigi Simeoni, autore dal multiforme ingegno, agli inizi degli anni Novanta, ai tempi della Acme, quando (non ricordo più se su “Splatter” o su “Mostri”) pubblicava, testi e disegni suoi, le avventure umoristiche dello Zompi, una parodia straordinariamente comica (e straordinariamente horror) dei morti viventi di Romero. Siccome a mia volta ho cominciato con la Acme, si può dire che abbiamo mosso i primi passi insieme, professionalmente parlando. Solo che io, pur autodefinendomi “umorista” per un po’ di cosette fatte per il teatro, il “Vernacoliere”, Cico e qualcos’altro ancora, non so disegnare. Simeoni, invece, sì. E’ un eccellente sceneggiatore e un bravissimo illustratore. Ed è spassosissimo, nella vita reale e quando si cimenta su carta, come gagman, così come si dimostra talentuoso scrivendo testi avventurosi o drammatici, che è in grado di disegnarsi da solo così come di affidarli ad altri. La sintesi si compie su episodi di Dylan Dog come “Quel che resta di Barry”, scritto e disegnato dallo stesso Sime (così lo chiamano gli aficionados), in cui orrore e umorismo nero si fondono in maniera perfetta e Groucho è in forma come non mai. Tuttavia c’è anche un Gigi autore completo di graphic novel memorabili, come “Gli occhi e il buio” (2007) o come “Stria” (2011), in cui sono chiari il grande lavoro di documentazione e il livello colto della narrazione, ma anche il desiderio di offrire una fruizione alla portata di tutti o, come si diceva una volta, nel solco del “popolare d’autore”. Tutte caratteristiche che si ritrovano ne “La corsa del lupo”, una storia uscita originariamente nel 2019 sui numeri 76, 77 e 78 della collana bonelliana “Le Storie” (distribuita in edicola) e cinque anni dopo raccolta in unico volume cartonato. Il raccontoè  inserito nella realtà storica dell’occupazione nazista dell’Italia, della guerra di liberazione e della Resistenza, ma anche degli anni di poco successivi, arrivando a comprendere le attività dell’organizzazione Odessa e gli esordi della Mille Miglia. Protagonista in negativo un ufficiale tedesco, Hans Weissmann, soprannominato “Il Lupo”, incaricato dalle SS di dare la caccia a un cimelio storico, la corona di Re Erode, ritrovata a Gerusalemme nel 1931, ritenuta maledetta, finita nelle mani di trafficanti e naturalmente desiderata da Adolf Hitler, nel quadro del “nazismo magico” alla base anche del primo film di Indiana Jones. Protagonisti in positivo, un piccolo gruppo di partigiani che a loro volta cercano di vendicare le vittime dello spietato Weissmann. Se non fosse riduttivo, verrebbe da dire che il fumetto si gode come un film, perciò diciamo che ci sono film appartenenti allo stesso genere che non emozionano come “La corsa del lupo”. E le emozioni non nascono soltanto dalle scene adrenaliniche di combattimenti, corse in automobile, fughe e inseguimenti, ma anche dalla consapevolezza che molti elementi (le impiccagioni, le fucilazioni, i rastrellamenti, i tradimenti) sono parte della Storia con la “S” maiuscola”.

 

domenica 11 maggio 2025

LA NEVE ERA SPORCA

 
 

Georges Simenon
LA NEVE ERA SPORCA
Adelphi
2023, brossurato
270 pagine, 12 euro

Dove si svolge “La neve era sporca”? E in quali anni? A prima vista, siamo durante la Seconda Guerra Mondiale in una città occupata dai nazisti, forse in Francia o forse in Belgio, dato che l’autore, Georges Simenon (1903-1989), è nato a Liegi ma si è trasferito a Parigi poco più che ventenne (vivendo comunque in giro per il mondo per gran parte della sua vita). Quasi tutti a Parigi sono ambientati i romanzi del suo personaggio più famoso, il commissario Maigret. Qualcuno ipotizza che siamo in Olanda. Tuttavia, lo scrittore dichiara: “L’importante è che l’esercito di occupazione non sia riconoscibile, di modo che l’opera abbia un carattere universale. Anche se, a essere sincero, nella mia mente l’azione si svolge nell’Europa centrale, e precisamente durante l’occupazione russa. Ambienti e nomi sono quelli di una città austriaca o ceca.” Commentando un altro straordinario romanzo di Simenon, “Le finestre di fronte” (si può cliccare sul titolo per leggere la recensione), scritto negli anni Trenta, avevo segnalato come quella di Simenon fosse stata una delle prime voci ad aprire uno squarcio sulla realtà dell’URSS, descrivendone in modo incisivo le storture kafkiane. “La neige état sale” è del 1948, l’ordine mondiale è diverso, ma le storture sovietiche evidentemente, agli occhi dell’autore, restano le stesse. Kafkiana è del resto la detenzione del protagonista, il diciannovenne Frank Friedmaier, in un istituto scolastico trasformato dall’esercito occupante in un luogo di prigionia, di tortura e di esecuzione. 
Tuttavia non sono né la guerra, né l’occupazione nemica l’argomento principale della narrazione, a cui si limitano a dare un contesto, a giustificare il clima di alienazione e di povertà degli inquilini del casamento dove vive Frank e del contesto urbano circostante. Alla base dello straordinario romanzo di Simenon c’è il disagio pressoché psicotico del giovane Friedmaier, figlio senza padre della tenutaria di una casa di appuntamenti celata dietro l’apparenza di una attività di manicure, convinto che diventare adulto significhi superare prove di iniziazione che egli stesso si impone, soprattutto non provare empatia verso nessuno, giudicando ogni legame e ogni sentimento quali segni di debolezza. Il tipo di prove che lo illudono di essere un uomo sono uccidere senza motivo, per esempio, o attirare una ragazza innamorata di lui in una trappola per farla stuprare da un altro. Ma anche ostentare rotoli di banconote ricavate smerciando refurtiva, sfidando la sorte contro ogni prudenza, o maltrattare le donne che lavorano per la madre e la madre stessa, Lotte. Soprattutto, giudicare tutto senza importanza, provocare chiunque, desiderare che qualcosa succeda per poterla affrontare. Finché, gli occupanti lo imprigionano: Frank è convinto di potersela cavare sopportando qualunque tortura, beffandosi dei suoi carcerieri. Qualcosa però gli fa cambiare idea e rimpiangere una vita che avrebbe potuto avere se avesse capito prima. Simenon, con la sua scrittura priva di ogni magniloquenza, fatta di frasi brevi, “entra nella testa di questo personaggio al limite fra l’abiezione e una paradossale innocenza” (come si legge in quarta di copertina) e ci consegna una delle sue opere migliori.



venerdì 9 maggio 2025

LE VOCI DELL’ACQUA

 

 
 
Tiziano Sclavi
Werther Dell’Edera
LE VOCI DELL’ACQUA
Feltrinelli Comics
2019, brossurato
100 pagine, 16 euro

“La prima graphic novel firmata da Tiziano Sclavi”, recita la scritta in quarta di copertina. Non so se altri fumetti di Sclavi come “Là, nel selvaggio West” o “Roy Mann” possano essere considerati “graphic novel” precedenti, ma certamente “Le voci dell’acqua” lo è di più, perlomeno nell’accezione del termine che va per la maggiore. Allo stesso tempo, il volume illustrato da Werther Dell’Edera rispecchia, in ogni singola sequenza, la personale e disperata poetica, intrisa di umorismo nero, dello sceneggiatore pavese così come si è sempre manifestata dalla creazione di Dylan Dog in poi, ma con prodromi anche precedenti. Stravos, “perché è così che si chiama il nostro personaggio”, è l’unico senza ombrello in una città su cui piove sempre, e si muove fra gli altri che invece l’ombrello ce l’hanno e sembrano non accorgersi di niente, neppure dell’arrivo degli alieni. Lui invece sente le voci, ma “solo quando scorre l’acqua”. “Si chiama schizofrenia”, gli dice un amico neurologo. E aggiunge: “Non esistono veri farmaci per la schizofrenia, si usano gli antipsicotici, anche se con scarsi risultati”. Stravos getta la ricetta appena uscito dallo studio del medico, ma il mondo attorno a lui, quello che non sente le voci, non sembra meno psicotico di lui. Lungo il suo vagare senza un motivo (“continua ad andare in un ufficio nella compagnia di assicurazioni di cui è un impiegato, ma non sa perché lo fa”) incrocia personaggi anonimi che vanno incontro a destini assurdi, e sogna di sorvolarli osservando dall’alto “questo oscuro mondo d’angoscia, questo nero universo di dolore”. Stravos è evidentemente (in un racconto in cui però niente è evidente) vittima di un difetto dell’evoluzione: “sapere di dover morire è un tragico errore biologico che porterà inevitabilmente all’estinzione dell’umanità”. C’è chi si ripara sotto l’ombrello delle illusioni e crede alle promesse fatte per sempre, e chi disilluso capisce che “anche sempre ha una fine”. E’ questo che dicono le voci dell’acqua, forse.

 

mercoledì 7 maggio 2025

IL CUORE DI LOMBROSO

 


 
Davide Barzi
Francesco De Stena
IL CUORE DI LOMBROSO
Sergio Bonelli Editore
2021, cartonato
130 pagine, 20 euro

Impossibile, per parlare di questo libro, non partire da Umberto Eco e dal memorabile “Elogio di Franti”, contenuto nel suo “Diario Minimo” (1963), in cui il semiologo piemontese si diverte, ma con assoluta serietà, a esaminare le figure di alcuni personaggi del “Cuore” (1886) di De Amicis, ipotizzando cosa sarebbero diventati crescendo e rivalutando quella dell’ “infame” Franti. Secondo Eco, Derossi muore in guerra, coperto di medaglie, dopo essersi arruolato volontario; Votini spia per l’OVRA; Garrone fa il macchinista dei treni; Enrico è Senatore del Regno; Nobis è divenuto federale, e via dicendo.  Davide Barzi, nella sua postfazione, racconta di aver conosciuto i personaggi deamicisiani prima grazie alla versione a cartoni animati della Nippon Animation trasmessa in TV, in Italia, nei primi anni Ottanta, poi nel quasi contemporaneo adattamento televisivo di Luigi Comencini. Anche lui, come Eco, ci propone un flashforward sul futuro dei ragazzi di “Cuore”, che è ambientato nel 1882, e li immagina adulti una decina di anni dopo. Protagonista del racconto a fumetti, però, non è il maestro Perboni, il primo personaggio a entrare in scena, né Enrico Bottini, né Ernesto Derossi, né tutti gli altri, ma Cesare Lombroso (1835-1909) famoso (e forse anche un po’ famigerato) medico, antropologo e criminologo, noto soprattutto per certe teorie che non riuscì mai a dimostrare riguardo le comuni e determinanti caratteristiche anatomiche dei delinquenti, e purtroppo non altrettanto conosciuto (almeno dal grande pubblico) per altri studi che pure compì. Barzi non manca di mettere benevolmente alla berlina Lombroso per le sue convinzioni sulla fisiognomica ma, nel contempo, lo propone come animato da un profondo desiderio di conoscenza, non privo di una bonaria umanità, mosso da ideali di giustizia e, soprattutto, disposto a rischiare la pelle per risolvere un caso di omicidio. La vittima è Enrico, l’io narrante di “Cuore”. Le circostanze della morte lasciano intendere che qualcuno stia minacciando l’intera classe che fu del maestro Giulio Perboni, e dunque nel corso dell’indagini il professor Lombroso, che si è scelto come assistente e guardia del corpo il robusto Garrone, incontra quasi tutti gli ex alunni della Sezione Baretti, e perfino la “maestrina dalla penna rossa”, la Delcati, rivelando qual è stato il loro destino. Il tutto, ben inserito in una Torino di fine Ottocento ricostruita in maniera documentata e convincente dall’ottimo Francesco De Stena, abile anche nella recitazione dei personaggi e nei costumi che vengono loro messi addosso. Il racconto a fumetti venne pubblicato originariamente nel dicembre 2017 sul n° 63 della collana “Le Storie”, destinata alle edicole. Esiste un sequel molto ben riuscito, realizzato dagli stessi autori, e intitolato “Il naso di Lombroso”: ne abbiamo parlato anche in questo spazio(basta cliccare sul titolo per leggere la recensione). Ci siamo occupati pure di Edmondo De Amicis, e non a proposito di “Cuore” ma del suo “Amore e ginnastica” (anche in questo caso, c’è un link).



venerdì 2 maggio 2025

M. LA FINE E IL PRINCIPIO

 


 
 
Antonio Scurati
M.
LA FINE E IL PRINCIPIO
Bompiani
2025, brossurato
410 pagine, 24 euro

Si conclude con questo quinto volume la sconvolgente biografia di Benito Mussolini narrata da Antonio Scurati (1969) in forma di “romanzo documentario” (la definizione è dell’autore). Sconvolgente perché non si può non rimanere turbati da una narrazione asettica come una autopsia, che suscita sdegno ed emozioni proprio per la sua fredda esposizione di fatti non soltanto reali (alla fine di ogni capitolo c’è un corredo di documenti storici a supporto di quanto appena raccontato), ma anche incredibilmente vicini nel tempo e nell’eredità che hanno lasciato. 
Scurati ha iniziato la sua impresa nel 2018, con il primo volume della pentalogia, intitolato “M. Il figlio del secolo” (Premio Strega 201). Di Mussolini, nel primo tomo, si racconta l’ascesa al potere in Italia negli anni che vanno dal 1919 al 1924, più o meno dalla fondazione dei “Fasci di combattimento” fino all’ omicidio di Giacomo Matteotti. Non è solo del Duce che si parla ma, attraverso di lui, si descrivono le figure di molti altri personaggi: Matteotti, appunto, ma anche Gabriele D’Annunzio, Filippo Turati, Italo Balbo, Amerigo Dùmini, Nicola Bombacci. 
Nel 2020 esce il secondo volume, “M. L’uomo della Provvidenza”, che narra gli avvenimenti dal 1924 al 1932. Vi si racconta il consolidamento del regime attraverso la progressiva soppressione delle più elementari regole democratiche e l’accentramento del potete nelle sole mani del Duce, che arriva a sottrarsi addirittura dal controllo del Partito Fascista, il cui Consiglio diventa un mero esecutore della volontà di autocrate, mentre sotto di lui si assiste a una guerra fra fazioni (Farinacci contro Giampaoli e Belloni, Arnaldo Mussolini contro Achille Starace).
Nel 2022 esce la terza parte della biografia. “M. Gli ultimi giorni dell’Europa” racconta avvenimenti accaduti tra il 3 maggio 1938 (inizio della visita di Adolf Hitler in Italia con il suo arrivo a Roma) e il 10 giugno 1940 (data infausta dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco del nazisti).  Per quanto fosse evidente ciò a cui si andava incontro, così come erano evidenti la follia di Hitler e la perdita di lucidità del Duce, nessuno di coloro che potevano fare qualcosa per evitare l’entrata in guerra, lo fece. Sgomento e incredulità anche di fronte alle ignobili leggi razziali, di fronte alle quali troppi furono complici. Tanti i personaggi sulla scena, da Galeazzo Ciano, ministro degli esteri privo di spessore, a Claretta Petacci, cresciuta nel mito di Mussolini e divenuta la sua ultima fiamma, dall’ambasciatore a Berlino Bernardo Attolico (a cui si deve uno degli ultimi tentativi di scongiurare in coinvolgimento italiano nel conflitto) a Edda, figlia del Duce, fervente filonazista.
Ed ecco, nel 2024, il quarto volume,“M. L’ora del destino” che racconta gli avvenimenti che vanno dal giugno 1940 al luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo, con l’appoggio del Re, esautora Mussolini e proclama Primo Ministro Pietro Badoglio, il quale, parlando via radio, dichiara: “la guerra continua”. 
Cliccando sui titoli potete leggere le recensioni pubblicate su questo blog.
Le oltre quattrocento pagine di questo  ultimo tomo sono, forse, per quanto strano possa sembrare, le meno potenti, rispetto a quelle dei volumi precedenti, non soltanto perché i fatti (quelli che vanno dall’estate del 1943 al 29 aprile 1945, con dissolvenza su Piazzale Loreto) sono in gran parte molto noti, a differenza di quelli, per esempio, del volume iniziale, ma anche perché manca il protagonista. Mussolini non c’è più, se non in effige. Imprigionato dal nuovo governo italiano (quello di Badoglio), liberato dai tedeschi e praticamente da loro tenuto in ostaggio, il Duce non è più lui. E’ invecchiato di vent’anni, testimonia chi lo vede. E’ depresso, fiacco, impotente. Per quanto gli ultimi fascisti lo incitino a mettersi di nuovo alla loro testa, e magari guidarli nel ridotto della Valtellina, dove in molti reduci delle camicie nere vogliono cercare la “bella morte”, l’uomo temporeggia, non decide, non si scuote, finisce per fare la fine del topo. Molta più tempra sembra avere Claretta Petacci, che lo segue ovunque fino a condividerne il destino. Per quanto Scurati documenti con minuzia evento dopo evento, non ci mostra la fucilazione dei due. Forse perché non è ancora ben chiaro come andò, forse perché bastano i fatti di piazzale Loreto,  riguardo ai quali l’autore non dimostra compiacimento. Utile appendice, la sezione intitolata “Le morti”, in cui si ritrovano i protagonisti di venticinque anni di storia italiana, da Alessandro Pavolini a Margherita Sarfatti (che personaggio, lei), tracciandone il destino. Fulminante la dedica iniziale: “A tutti quelli che ancora credono nella democrazia. Si Preparino a lottare”. E fulminante la frase finale: “Il cadavere tornerà, io tornerò, perché i morti non pesano soltanto, i morti sopravvivono”.



domenica 27 aprile 2025

WES SHERMAN

 
 
 
 
Raffaele Della Monica
WES SHERMAN
Cut-Up Publishing
Cartonato, 2024
180 pagine, 29.90

Immaginatevi la scena. Un prolifico e meticoloso disegnatore di fumetti passa tutta la giornata a disegnare le sceneggiature che gli arrivano dalla Casa editrice, e lo fa con tutta la cura e l’attenzione che gli viene richiesta da collaborazioni prestigiose e da lettori esigenti. Otto, dieci ore con la matita, il pennino, il pennello in mano. Giunge la sera, è ora di staccare. Uno sbadiglio, una stiracchiata, magari uno spuntino, poi l’autore si chiede: “cosa posso fare, adesso, per rilassarmi un po’?”. Semplice: riprende a disegnare, ma storie sue, di cui elabora anche il testo e i dialoghi e che pertanto gli permettono di andare, con la fantasia, esattamente dove vuole e non dove lo porta lo sceneggiatore di turno. Quel fumettista esiste e si chiama Raffaele Della Monica. Per anni, sono stato abituato a ricevere da lui volumi autoprodotti e stampati in poche copie distribuite in regalo agli amici, con storie a fumetti realizzate per divertimento. La maggior parte di quei racconti erano western e avevano per protagonista lo sceriffo Wes Sherman. Conosco pochi disegnatori con la voglia di disegnare di Raffaele, e di disegnare di tutto e di più, dai personaggi Disney ad Alan Ford, passando con disinvoltura dall’umorismo all’horror, da “Only West Baby” (serie di sua ideazione) a Gordon Link, Tex, Mister No, Zagor. 
 
A proposito di Zagor, conoscendo il forte desiderio di Della Monica di illustrare testi propri, l’ho assecondato inserendo nella saga un’avventura scritta e disegnata tutta da lui, “Braccati!”, lo Zenith Bis dell’estate 2023. E’ cosa assai rara che una storia dello Spirito con la Scure venga scritta e disegnata dalla stessa persona: in passato (all’inizio degli anni Sessanta) era accaduto soltanto con Gallieno Ferri, creatore grafico del personaggio. Eppure, avendo seguito per tanti anni la carriera di Raffaele, essendogli diventato amico, ho capito che poteva riuscirci benissimo, cosa che in effetti è accaduta. Un anno dopo, finalmente, grazie a Cut-Up Publishing, quattro storie di Wes Sherman, finora lette soltanto da pochissimi, vengono raccolte in volume. Storie che sono la quintessenza del western più classico, di cui evidentemente l’autore ha nostalgia. 
 
Ne ho parlato con Raffaele che mi ha risposto senza staccare la matita dal foglio. Ho preso appunti e in pratica lui vorrebbe che spiegassi quanto segue: «Wes, è leale, ligio al dovere e deciso. Non ama uccidere, ma se capita, lo fa senza scrupoli. Ha una assistente (Arleen), poco attraente e un po' maschiaccio. Una tipa tosta che lo sostituisce quando non c'è. Wes non è credente e spesso discute con il reverendo Mc Nelly del possibile Aldilà. Di volta in volta, Wes si avventura nei tipici paesaggi del West, senza precisi riferimenti. Le sue avventure hanno inizio con "L'oro di Luke", realizzato anni fa. Mi piace non dargli una precisa collocazione storica. Le sue sono avventure senza tempo. Mia intenzione è stata di fare una serie di storie semplici e assolutamente leggibili, con sentimenti autentici. Ne' dalla parte dei bianchi, ne' dalla parte degli indiani. Solo dalla parte dei buoni». Mi sembra giusto. Continua a fare fumetti, Raffaele. E ogni tanto facciamone ancora qualcuno insieme.

L’editore ha chiesto a me di scrivere la prefazione. Riporto qui sotto la biografia professionale di Della Monica compilata per quel testo introduttivo. Vi segnalo anche la mia recensione per il volumetto che raccoglie la serie “Only West, Baby!”: 
 
 
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L’esordio di Della Monica su Alan Ford avvenne con “Superciukissimo” (dopo alcune prove come inchiostratore e il rifacimento di “Ostix” per la collana “Il Gruppo TNT”). Da quel momento in poi lanciai gridolini isterici di giubilo ogni volta che uscivano albi illustrati dal salernitano: “Bellegambe Betty”,  “Una rosa per Bob”, “Il Numero Uno è morto” i miei preferiti, tra la ventina che portano la sua firma. Presto cominciai ad apprezzare un altro giovane disegnatore che venne ad affiancarsi a Raffaele, Giuliano Piccininno, anche lui di Salerno (o giù di lì: di Giffoni Valle Piana): tutti e due sarebbero finiti a lavorare con me a Zagor, un personaggio della Sergio Bonelli Editore. Ma questa è un’altra storia. Ci serve accennare a Piccininno, parlando di Della Monica, perché entrambi avevano frequentato la stessa palestra fumettistica, quella di un gruppo di autori salernitani riuniti attorno a una rivista amatoriale chiamata “Trumoon”, il cui primo numero è del 1981. Non a caso, nella seconda vignetta di tavola 76 dell’Alan Ford n° 171, su una parete di un bar leggiamo un cartellone pubblicitario che dice: “Trumoon Beer”. Sempre non a caso, Della Monica e Piccininno tra il 1985 e il 1986 si fanno aiutare con le chine da noi (accreditati) sugli albi alanfordiani, di Giuseppe De Nardo, Luigi Siniscalchi e Roberto De Angelis, tutti ragazzi (all’epoca) della banda salernitana solita riunirsi in Via Bastioni. “Trumoon”, il cui primo numero è datato 1981, su cui si sono fatti le ossa tutti gli autori della cosiddetta “scuola salernitana”, fra i quali, oltre ai nomi già citrati, figuravano anche Bruno Brindisi, Luigi Coppola e Daniele Bigliardo. Fra i personaggi nati dall’attività del gruppo ci sono gli scalcinati eroi western della serie comica “Texas Strangers”, disegnata da Raffaele con una grande verve umoristica (ci torneremo fra poco). Giuliano Piccininno, nella sua prefazione a una ristampa di questa breve saga, ricorda: "Via Bastioni è una stradina del centro storico di Salerno all'ombra della cattedrale romanica dove, nel 1977, un gruppo di ragazzi sconsiderati decise di aprire uno studio per produrre fumetti".  Tra il 1985 e il 1987, lasciato Alan Ford, Della Monica entra a far parte dello Staff di If: essendo molto versatile, disegna con disinvoltura per testate diversissime fra loro, come “Cucador”, “Masters of the Universe”, “Intrepido” e “Topolino”.  Il disegnatore aiuta quindi Franco Bignotti nella rifinitura di un episodio di Mister No, sempre per Mister No, realizza le matite inchiostrate da Roi e infine comincia a fare tutto da solo. Dopo una breve parentesi con una storia di Martin Mystère, Raffaele passa a Tex. In seguito, per un breve periodo lascia la Bonelli in favore della Dardo e di “Gordon Link” (una serie horror scritta da Gianfranco Manfredi), ma vi fa ritorno per dedicarsi a Zagor, Magico Vento e Shangai Devil. Ma è proprio nello staff dello Spirito con la Scure che il tratto pulito ed efficace del salernitano trova la sua collocazione più consona e proficua, divenendo negli anni un punto di riferimento per i lettori e per i colleghi illustratori. Lo testimonia ancor di più, però la caparbietà con cui convinse i suoi amici di “Trumoon” ad assecondarlo con un esperimento editoriale riconducibile sotto l’etichetta “Only West, Baby”. Raffaele Della Monica aveva una gran voglia di diventare editore di se stesso sulla scorta di ciò che aveva fatto Wally Wood in America (il paragone è di Giuseppe De Nardo). L'esperimento non ottenne i risultati sperati (e che avrebbe meritato) e i numeri usciti furono solo tre. C'è da chiedersi perché, nel 1990, gli autori dei "Only West Baby" abbiano voluto dedicarsi appunto solo al western: "Basta con questo West! Buttiamoci sui supereroi", consiglia Piccininno in una vignetta autoironica. La risposta, probabilmente, è che al cuore non si comanda, e Della Monica è innamorato del genere western. Quello più classico, avventuroso, pieno di polvere da paro e zoccoli di cavalli. Tant’è vero che, pur avendo da disegnare di tutto e di più, e impelagato fino al collo con le consegne delle tavole di Zagor, Raffaele ha continuato imperterrito a tempo perso (dice lui), a scrivere e illustrare storie del West, e a pubblicare in tiratura limitatissima, solo per gli amici, in pratica, le avventure di un suo eroe, Wes Sherman. In altre parole: dopo aver disegnato tutto il giorno, giunto a sera Della Monica si rilassa disegnando roba sua. In realtà fa anche dell’altro: dipinge. Quadri astratti, ma anche ceramiche con vedute della costiera sorrentina e persino affreschi con soggetti religiosi (chiedete al parroco del suo paese). La verità è che disegnatori si nasce e ancor di più fumettisti. Si finisce per vivere a fumetti, pensare a fumetti, sognare a fumetti. Sto scrivendo troppo per una prefazione ma, che volete, anche scrittori di fumetti, e sui fumetti, si nasce e io lo nacqui.




sabato 26 aprile 2025

IL DESERTO DEI TARTARI

 

 
Dino Buzzati
Michele Medda
Pasquale Frisenda
IL DESERTO DEI TARTARI
Sergio Bonelli Editore
Cartonato, 2024
180 pagine, 25 euro

La prima cosa da precisare è che “riduzione a fumetti” non si dice. Il fumetto non “riduce” niente, racconta con altri codici e con altre tecniche (e, ovviamente, con altri autori, in altri spazi, su altri supporti). Men che mai si può parlare di “riduzione” di fronte alla versione a fumetti del “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati a opera di Michele Medda e Pasquale Frisenda. Definirlo “versione”, ma anche “adattamento”, rendono l’idea del tipo di lavoro compiuto dallo sceneggiatore sardo e dal disegnatore milanese sul romanzo buzzatiano, pubblicato nel 1940 e da allora considerato uno dei capolavori della letteratura italiana e mondiale. Tuttavia sussiste sempre il sospetto che “adattare” per il cinema, per il teatro o per il fumetto un testo letterario significhi farne il riassunto, fornirne il bignamino. E’ innegabile che certe volte è così. Tuttavia, in certi altri casi, le due opere, quella adattata e quella che ne è l’adattamento, finiscono per rifulgere entrambe di luce propria. Peraltro, “Il deserto dei tartari” rappresenta un banco di prova impegnativo al punto da darsi per vinti in partenza: sembra una montagna troppo difficile da scalare. Eppure, “qui si parrà la tua nobilitate”. Medda e Frisenda ci consegnano la loro Fortezza Bastiani, luogo fuori dal tempo (e dalla geografia) da cui sembra impossibile riuscire a fuggire perché chiunque, una volta entrato, perde la voglia di andarsene, castello kafkiano dove tutto è regolamento senza logica, e niente è più illogico delle regole militari. Una fortezza raccontata guardando Buzzati ma da testimoni che parlano un’altra lingua, in grado però di evocare e suscitare le medesime suggestioni, anzi, altre impercettibilmente diverse, ma a osservare meglio percettibilissime. Non è l’intreccio drammatico il punto di forza del romanzo (sebbene il dramma non manchi), non ci sono scene d’azione e battaglie, mancano perfino gli avversari da combattere. Eppure lo sceneggiatore riesce ad avvincere sfruttando alla perfezione gli strumenti messi a disposizione dalla nona arte, altrettanto perfettamente assecondato dal bianco e nero, e dal grigio, del disegnatore, capace di ricostruire scenari e moti d’animo con uguale maestria. Se era una sfida, è finita alla pari tra Buzzati e i due fumettisti. Belle, colte e raffinate la prefazione di Michele Masiero e la postfazione di Gianmaria Contro.