lunedì 28 luglio 2025

OTTO MONDI

 


Marco Tonarelli
OTTO MONDI
Melchisedek
2024, brossura
420 pagine, 24 euro

Pratese, classe 1972, Marco Tonarelli è un avvocato con la passione per la scrittura e “Otto mondi” è la sua opera prima. Cultore di filosofia, mitologia, esoterismo e delle tematiche misteriose in generale, ha riversato nel suo romanzo l’intero campo dei propri interessi e in ogni capitolo si fanno riferimenti a fatti storici, leggende e credenze, luoghi esistenti e continenti perduti, antichi ermetismi e scuole filosofiche, personaggi reali e sorprendenti incarnazioni di minacciose entità immaginarie - ameno, si spera che immaginarie lo siano, visto che il confine mito e realtà viene inteso come molto sottile. Confine che l’autore probabilmente sposta più indietro di quanto potremmo essere disposti a fare noi, ma non è necessario credere agli antichi astronauti o alle teorie (in verità molto affascinanti) di Graham Hancock per leggere un romanzo d’avventura alla Dan Brown. Tonarelli propone  più piani di interpretazione e ogni lettore può scegliere quello che gli è più congeniale. Volendo usare la chiave  di lettura dell’evoluzione spirituale, “Otto mondi” esplora temi profondi come la contrapposizione tra il trascendente e la realtà materiale, l'evoluzione della coscienza umana, il controllo occulto della società e la ricerca della verità nascosta dietro ai miti. La narrazione intreccia elementi di thriller, fantascienza e storia alternativa, suggerendo che molti monumenti antichi e tradizioni spirituali celino conoscenze tecnologiche e cosmologiche avanzate ereditate da civiltà extraterrestri. Il tutto mescolando archeologia megalitica e fantarcheologia, fantascienza e mitologia, new age ed esoterismo, la leggenda della linea di San Michele e la credenza nei flussi energetici sotterranei che attraversano la Terra,  l'alchimia e la numerologia (soprattutto legata al significato esoterico del numero otto), ma anche non banali riferimenti alla fisica quantistica. Un prezioso glossario finale fa da guida alla lettura. 
I punti di riferimento sono i già citati Dan Brown e Graham Hancock, ma se ne ritrovano altri in Martin Mystére (un personaggio a fumetti molto caro a Tonarelli), James Redfield (“La profezia di Celestino”) e Indiana Jones. “Otto mondi”, insomma, può essere inteso come romanzo iniziatico così come racconto d’avventura pieno di colpi di scena, lo è stile accessibile e scorrevole, adatto sia al lettore in cerca di evasione sia a quello più attento ai simbolismi, c’è una buona coerenza interna e una lodevole chiarezza nell’esposizione delle dottrine esoteriche. Alcuni passaggi esplicativi risultano didascalici, ma sono funzionali all’obiettivo divulgativo, l’intreccio ha un efficace equilibrio tra fiction e concetti sapienziali. L’autore dimostra passione e competenza, e trasmette al lettore il fascino della ricerca interiore e della conoscenza perduta. 
Il romanzo inizia con  il protagonista, il giovane avvocato Andrea Tusco, che ricorda l'infanzia legata al nonno Riccardo, il quale gli raccontava storie affascinanti su Ermete Trismegisto, il "Tre volte Grande”, introducendolo al principio ermetico "come in alto, così in basso". Questo ricordo diventa fondamentale quando, al compimento dei trent'anni, Andrea riceve una convocazione da un notaio che gli consegna un lascito del nonno: una lettera sigillata con ceralacca e un cofanetto di legno contenente una moneta d'oricalco. La lettera rivela verità sconvolgenti sulla famiglia Tusco e sulla Confraternita dei Figli di Thoth, un'organizzazione segreta nata ad Atlantide per preservare le antiche conoscenze e opporsi a una minacciosa razza che da millenni domina segretamente l'umanità. Da qui inizia una sarabanda di avventure che portano Andrea Tusco da Lucca a Torino, dal Cairo al Castel del Monte, castello non per caso di forma ottagonale, scelto come luogo simbolico carico di significato esoterico e geometrico. Al viaggio geografico, nello spazio, si alternano flashback, viaggi nel tempo, in cui si narrano avvenimenti avvenuti millenni o secoli prima del nostro presente. Infine, nel romanzo è presente un riferimento diretto a Gavinana, descritto come un luogo simbolico della memoria e delle radici legato alla storia familiare del protagonista. Si dà il caso che il piccolo borgo sulla Montagna Pistoiese sia anche il luogo dove sono nato anch’io e a pagina 58 mi si cita come buon amico di Andrea Tusco e si descrive la mia casa. Tuttavia, giuro, non è per questo che parlo bene del romanzo di Marco.


domenica 27 luglio 2025

LA LUNA DI CARTA



 
Andrea Camilleri
LA LUNA DI CARTA
Sellerio
2005, brossurato
280 pagine, 11 euro

“La luna di carta”, pubblicato nel 2005, è il nono romanzo della serie (che ne conta una trentina) dedicata dallo scrittore siciliano Andrea Camilleri (1925-2019) al suo fortunato personaggio del commissario Salvo Montalbano. Fortunato per il grande successo di pubblico in libreria, per le tante traduzioni in mezzo mondo, per i dati di ascolto della serie televisiva, perfino per l’omaggio fatto all’autore dalla Disney con la creazione del personaggio di Topalbano (Camilleri, peraltro, è stato anche sceneggiatore di fumetti, oltre che autore teatrale e televisivo). Fortunato, però, anche per l’invenzione del particolare linguaggio con cui vengono narrate le sue storie, una sorta di grammelot (come quello usato da Dario Fo) in versione sicula, in cui contano i suoni che comunicano il significato anche in mancanza di una corrispondenza lessicale sul dizionario, o come l’esperanto, una lingua inventata a tavolino partendo da parole esistenti forgiate e utilizzate in funzione della comprensione. Il gioco letterario di Camilleri funziona talmente bene che il lettore non siciliano si chiede se il narratore de “La luna di carta” stia effettivamente parlando la lingua che si sente a Palermo o a Catania, che miracolosamente risulta intellegibile al primo sguardo anche dai non nativi dell’isola, mentre poi, approfondendo la questione, si scopre che si tratta di “vigatese”, l’idioma di Vigata, la cittadina immaginaria (nell’altrettanto immaginaria provincia di Montelusa) inventata dallo scrittore per fare da sfondo alle inchieste di Montalbano (si dice che corrisponda a Porto Empedocle, di dove Camilleri è nativo). Una lingua, dunque, che non esiste, in cui la struttura della lingua italiana si mescola con termini di vari dialetti siciliani. L’autore spiega così la faccenda: “Si tratta di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c'è dietro”. Nel primo romanzo con protagonista Montalbano, “La forma dell’acqua” (1994) il “vigatese” si limitava a poche frasi e parole, ne “La luna di carta”, undici anni dopo, invece imperversa. Di primo acchito la lettura può sembrare ostica, poi ci si abitua e la si apprezza. Cito come esempio il brano in cui Camilleri giustifica, tramite i ricordi del commissario, il titolo del romanzo: “Quann'era picciliddro, una volta sò patre, per babbiarlo gli aveva contato che la luna 'n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto.”
Undici anni sembrano passati anche per Salvo, che durante questa inchiesta comincia a essere turbato dall’idea di invecchiare, segno che Camilleri intende far avvertire i segni del tempo al suo personaggio, come Simenon con Maigret (che a un certo punto va in pensione). Il paragone con Maigret sembra estendibile anche ad altre caratteristiche della serie. Innanzitutto il “metodo” investigativo, non deduttivo ma psicologico, attento alle sensazioni a pelle e agli ambienti sociali. Poi, lo svelamento del privato del protagonista, seguito a mangiare e bere con gusto, sotto la doccia e sul letto. Quindi, il teatrino di comprimari ricorrenti e ben caratterizzati (Agatino Catarella, centralinista del commissariato, è una autentica macchietta). Lo scontroso dottor Pasquano, che esegue le autopsie, sembra corrispondere al dottor Moers del romanzi di Simenon, e lo stesso si può dire del magistrato Tommaseo paragonabile al giudice Ernest Coméliau. Va ricordato, a questo proposito, come Camilleri sia stato il delegato di produzione RAI dell’adattamento televisivo delle inchieste del commissario Maigret (1964-1972), interpretato da Gino Cervi.
Ci sono alcune similitudini fra il primo romanzo di Montalbano, “La forma dell’acqua”, e questo “La luna di carta”. Innanzitutto, la trama alquanto (eufemismo per parecchio) torbida: addirittura, i due cadaveri su cui si indaga vengono ritrovati entrambi con i pantaloni abbassati e i genitali esposti agli sguardi. Poi (e qui si perdoni il piccolo spoiler) i colpevoli degli omicidi non finiscono in prigione ma muoiono prima di essere arrestati, e Montalbano avalla versioni addomesticate nei sui rapporti ufficiali. Quindi, colpisce la quantità di donne seducenti e disinibite sulle cui caratteristiche Camilleri si compiace di indugiare, con apprezzamenti che oggi potrebbero sembrare sessisti, mettendo di continuo Salvo in condizione di sudare freddo e deglutire di frequente, cercando di non cedere alla tentazione in quanto ritiene di dover essere fedele alla sua compagna lontana (vive a Genova), Livia Burlando, di cui si parla poco. Le due donne principali de “La luna di carta” sono Elena e Michela, rispettivamente l’amante e la sorella di Angelo Pardo, informatore farmaceutico ed ex medico radiato dall’Ordine per aver praticato un aborto clandestino (peraltro su una ragazza da lui stesso messa incinta, e sottoposta all’intervento dopo essere stata sedata a tradimento). Pardo viene trovato ucciso a casa sua con un colpo di pistola in fronte e con una mutandina femminile in bocca. L’indagine di Montalbano si intreccia con quella dei suoi colleghi che si occupano di un traffico di droga, peraltro tagliata male al punto da causare vittime illustri tra i notabili locali. La soluzione del giallo è sorprendente quanto basta, la lettura stimolante e divertente per il susseguirsi di situazioni, i dialoghi interessanti e brillanti. Mi sono dispiaciuto, però, per le reiterate riflessioni giustizialiste (eufemismo per forcaiole) del protagonista, che probabilmente esprime le opinioni dell’autore, mentre dovrebbero valere la presunzione di innocenza e il dubbio pro reo.


mercoledì 23 luglio 2025

TATA'



Valérie Perrin
TATA’
Edizioni e/o
2024, brossura
608 pagine, 21 euro

Non tutte le ciambelle riescono col buco, e questo quarto romanzo della scrittrice francese Valérie Perrin (1967) è probabilmente quello che le è venuto un po’ più stortignaccolo. Il precedente, “Tre”, invece era decisamente bello: ne avevamo parlato in questo stesso blog.
Dicendo che “Tatà” delude le aspettative comunque va da sé che le aspettative erano alte, visto il talento dell’autrice e la sua abilità di costruire intrecci intriganti di pari passo alla caratterizzazione e all’approfondimento psicologico dei personaggi. La Perrin riesce, insomma, a dar vita a trame avvincenti con misteri da chiarire e ingegnosi colpi di scena senza che le si possa attribuire una etichetta di genere, raccontando di personaggi calati nella realtà della vita quotidiana e nei loro legami famigliari e amicali. Un equilibrio delicato che, però, con “Tatà” si è sbilanciato. Il desiderio di costruire un meccanismo in grado di sorprendere il lettore con impreviste rivelazioni che si susseguono la porta a dar vita a una architettura inutilmente complicata e difficile da credere. Lo stesso difetto di Joël Dicker ne “La verità sul caso Harry Quebert”,anche se, dal punto di vista della qualità della scrittura, la francese surclassa lo svizzero. 
Eppure l’inizio di “Tatà” è promettente:  Agnès, una regista cinematografica di successo che vive il personale dramma di una crisi coniugale, riceve la notizia della morte della zia Colette Septembre. Il fatto è che Colette era già stata dichiarata morta tre anni prima. Agnès si reca nel suo paese natale, a Gueugnon, una cittadina della Borgogna a nord della Francia, per indagare: dopo aver riconosciuto il cadavere della zia, defunta per cause naturali, serve scoprire chi è sepolto, dunque, al posto suo, nella tomba che reca il suo nome e perché la vecchietta abbia deciso di fingersi morta nascondendosi da tutti nei suoi ultimi anni di vita. Le indagini di Agnès ricostruiscono pezzo per pezzo la vita di Tatà Colette e, con la sua, quella dell’intera loro famiglia, dagli anni dell’occupazione nazista della Francia ai giorni nostri, ovvero quelli del romanzo, ambientato nel 2010 nella sua parte principale. Tutto ciò che la regista credeva di sapere sui genitori e i parenti viene rimesso in discussione, e la Perrin esplora la complessità dei legami famigliari, che vanno al di là dei vincoli biologici. Nell’intreccio trovano posto anche le figure di un gruppo di amici d’infanzia che Colette ritrova a Gueugnon, e che la aiutano nella ricerca della verità. L’indagine alterna vari piani temporali saltando di decennio in decennio e tornando indietro, e la narrazione viene affidata a voci diverse, perché attraverso alcune decine di audiocassette la stessa Tatà racconta (ma con una lentezza esasperante) gran parte di ciò che Agnès vuol sapere (se la regista le avesse ascoltate tutte di fila o se la zia, come sembrerebbe più logico, avesse spiegato tutto in una cassetta sola, facendola breve, la faccenda sarebbe stata più credibile. Oppure sarebbe bastata una lettera. Invece, Agnés si fa durare l’ascolto per tutto il romanzo arrivando all’ultima registrazione giusto in fondo al libro. Alla verità, che nella vita reale tutti vorrebbero sapere subito, si giunge in modo frammentato. Ed è poco convincente che la protagonista, di fronte alle cassette audio che potrebbero rivelargli tutto, pensi: “Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio”. La sospensione dell’incredulità nel lettore vacilla e viene messa a dura prova. 
Le perplessità aumentano quando ci viene presentatala figura di Blanche, che personalmente ho trovato indigesta e poco credibile. Come poco credibile sono i rapporti fra Blanche e suo padre e quelli fra Colette e sua madre, genitori degeneri decisamente sopra le righe. Soprattutto il papà di Blanche è davvero fuori registro, al punto da assomigliare allo Zalachenko padre di Lisbeth Salander nella saga di “Millennium” (lui sì, però, in grado di creare la suspension of disbelief). Il lettore apprende del perché Blanche debba nascondersi da un vecchietto novantenne e resta di stucco riflettendo sul fatto che sarebbe bastato rivolgersi alla polizia per risolvere ogni problema. Ma accadimenti tirati per i capelli si susseguono per tutto il romanzo e riguardano ogni personaggio: tra quelli più incredibili, l’improbabile storia d’amore fra un diciottenne campione di calcio e la già matura Colette, umile calzolaia – ma anche il matrimonio improvviso, interreligioso, tra un amico di Agnès e una ragazza conosciuta poche settimane prima, nel corso delle indagini. I buoni sentimenti e la correttezza politica imperversano, il potere salvifico dell’amicizia è la panacea di ogni male, il racconto è pieno di morali della favola e il guaio è che non si traggono, ci vengono spiegati.



lunedì 21 luglio 2025

IVANHOE

 
 


Walter Scott
IVANHOE
Rizzoli
1988, brossurato
544 pagine, 10.500 lire

Si dice che Walter Scott (1771-1832) sia stato il primo autore di bestseller appositamente costruiti per raggiungere il più vasto pubblico possibile. Benedetto Croce addirittura scrive che “nel trattare dello Scott conviene, in primo luogo, aver l’occhio all’ufficio sociale che egli ha adempiuto: ufficio che fu semplicemente quello di un produttore industriale, intento a fornire il mercato di oggetti dei quali era altrettanto viva la richiesta quanto legittimo il bisogno. Egli ebbe il genio dell’intrapresa industriale a ciò corrispondente”. “Intrapresa” che fu coronata da una straordinaria fortuna. Personalmente, nel giudizio crociano non ci vedo niente che svilisca l’autore, anzi, viva gli autori che scrivono per il loro pubblico. Si dice anche che Walter Scott abbia inventato, o perlomeno portato in auge, il romanzo storico, che, come nota il Carducci, “non ha nulla a che fare col romanzo cavalleresco e col poema romanzesco”. “Ivanhoe” (1819), la sua opera di maggior successo (ma si potrebbe citare anche “Rob Roy”) non ha per ambientazione un medioevo fantastico, ma si cala nella realtà dell’Inghilterra attorno al 1194, avendo per sfondo luoghi riconoscibili e per protagonisti alcuni personaggi storici (come Riccardo Cuor di Leone e suo fratello Giovanni). Non solo: Scott sceglie di affrontare un argomento spinoso come l’invasione dell’Inghilterra da parte dei Normanni che sottomettono i Sassoni. Lo fa, peraltro, cercando di documentare minuziosamente la sua ricostruzione delle usanze, degli abiti, degli stati d’animo dell’epoca, occupandosi anche di mettere a confronto le rivendicazioni degli sconfitti e le strategie politiche dei colonizzatori, ma anche gli scontri politici attorno alla rivendicazione della corona, rendendo parte del racconto anche le crociate. Prima di “Ivanhoe” lo scrittore, nato a Edimburgo, aveva scritto soltanto di cose scozzesi, e forti furono i suoi dubbi e i suoi timori allargandosi anche a quelle inglesi, al punto he inizialmente pubblicò la sua opera sotto lo pseudonimo di Laurence Templeton. Un’altra cosa ripetuta è che Alessandro Manzoni trasse proprio da Walter Scott la determinazione di scrivere anche lui un romanzo calato nella realtà storica, quella lombarda dei Seicento, “I promessi sposi”. Il Manzoni lo fa in modo diverso, più sofisticato e con intenti pedagogici, ma di certo dello scrittore scozzese dice: “il mondo aspettava ansiosamente e divorava avidamente i romanzi di Scott”, riconoscendogli anch’egli una valenza letteraria e culturale di primo piano, quella che si deve inevitabilmente a ogni autore che abbia la fortuna di essere ascoltato e avere influenza sui suoi lettori.  Tre cose che mi hanno colpito: la prima, rappresentazione (che non pare condivisa dal narratore) di un odioso antisemitismo, che si ritrova, per fare un esempio, anche nelle pagine di Dickens, ambientate nella Londra della prima metà dell’Ottocento, segno che il pregiudizio cristiano contro gli ebrei ha attraversato i secoli. La seconda: la presenza, fondamentale e tutt’altro che accessoria, di Robin Hood e della sua banda (Frate Tuc compreso), anche se all’arciere viene cambiato il nome in Locksley. Infine: “Ivanhoe” viene a torto considerato come un romanzo per ragazzi, forse per la componente avventurosa, le scene di battaglia, gli assalti al castello, i tornei cavallereschi, il mistero che circonda la figura il Cavaliere Nero che alla fine (spoiler) si rivela essere Riccardo Cuor di Leone tornato dalla Crociata. Tuttavia molti aspetti e contenuti del romanzo sono tutt’altro che destinati a lettori particolarmente giovani: i riferimenti storici e politici, la discriminazione verso gli ebrei e soprattutto verso la sfortunata Rebecca, l’odio fra Sassoni e Normanni che vede alla fine una possibilità di fusione tra i due popoli con il matrimonio (spoiler) fra Ivanhoe e Rowena e via dicendo. Il linguaggio di Walter Scott, anche nella versione integrale, resta piacevole da leggere nonostante certe prolissità dovute soprattutto alla minuzia delle descrizioni. Indimenticabili e ottimamente caratterizzati certi personaggi come il buffone Wamba, il servo Gurth, il castellano Cedric, lo sbruffone principe Giovanni, l’Eremita (Frate Tuc), l’usuraio Isaac, la vecchia e folle Urfrida, e i cattivi De Bracy, Bois-Guilbert e Front-de-Boeuf. “Ivanhoe” non sarà “I promessi sposi” ma ci si diverte a leggerlo.



sabato 19 luglio 2025

SHANGRI-LA



Alberto Becattini
Marco Ciardi
SHANGRI-LA
Carocci Editore
2025, brossura
142 pagine, 17 euro


“Il mito fra storia, arte e letteratura”, aggiunge il sottotitolo, inquadrando meglio l’argomento. Ma qualcosa in proposito ci dice anche il nome di uno dei due autori, quel Marco Ciardi (professore di Storia della Scienza presso l’Università di Firenze), che fra i tanti libri pubblicati ne annovera alcuni dedicati alla sterminata letteratura sulla mitologia atlantidea e altri sulla nascita di leggende quali quelle degli antichi astronauti e sulla vasta letteratura pseudoscientifica legata alla fantarcheologia, sempre tracciando precise ricostruzioni su come certe credenze siano nate e abbiano poi lasciato il segno nell’immaginario collettivo attraverso la letteratura, il cinema, i fumetti. Se nel caso di Atlantide il mito trae origine da racconti narrati fin dalla notte dei tempi e finiti negli scritti di Platone, lasciando il dubbio in qualcuno che qualche cosa di vero potesse esserci alla base, esaminando la vicenda di Shangri-La, invece, tutto dovrebbe essere molto chiaro: la città nascosta tra le montagne dell’Himalaya è stata immaginata da uno scrittore inglese James Hilton (1900-1954) in un romanzo del 1933 intitolato “Orizzonte perduto”. L’origine del mito potrebbe insomma essere paragonata a quella, altrettanto letteraria, della creatura di Frankenstein, dovuta alla penna di Mary Shelley nel 1818, argomento affrontato sempre da Marco Ciardi, con Pierluigi Gaspa, in un saggio intitolato “Frankenstein, il mito tra scienza e immaginario” (2018). Però, mentre del mostro della Shelley nessuno ha seriamente ipotizzato la reale esistenza, qualcuno ha invece sostenuto che Hilton abbia attinto a fonti reali e che Shangri-La potrebbe sorgere davvero là dove lo scrittore, documentatosi su libri di viaggiatori che hanno visitato il Tibet, ha indicato che si trovi. “Lost Horizon” è un romanzo che si inserisce nel fortunato filone dei “mondi perduti”, genere che vede tra i capostipiti il “Viaggio al centro della Terra” di Jules Verne (1864), “Le miniere di Re Salomone” di Henry Rider Haggard (1885) e “The Lost Word” di Arthur Conan Doyle (1912). Hilton immagina Shangri-La come una cittadella costruita, in una valle sconosciuta alle mappe ufficiali, attorno a un monastero tibetano, una vera e propria comunità utopica i cui abitanti sono dediti all’arte e alla filosofia e si sono dati il compito di preservare e tramandare le opere della cultura e della conoscenza della civiltà. Ci sono biblioteche, strumenti musicali, archivi di ogni tipo. Inoltre, a Shangri-La (il “La” significa “valico” e dunque segnala un passaggio tra il mondo reale e un universo parallelo) il tempo scorre più lentamente e non si invecchia, ma uscendone gli anni trascorsi fra nella valle incantata si recuperano tutti immediatamente. Il romanzo è ambientato nel 1931, e ha per protagonista un diplomatico inglese di nome Hugh Conway, il quale, insieme ad altri passeggeri di un aereo che sorvola l’Himalaya, viene coinvolto in un atterraggio di fortuna tra le nevi del Tibet, il cui impatto è abbastanza violento da provocare la morte del pilota. I naufraghi dell’aria, dopo aver disperato di salvarsi per le bufere e la temperatura estrema delle montagne tra cui sono finiti (privi anche di coordinate geografiche così come della possibilità di chiedere aiuto), vengono soccorsi dagli abitanti di Shangri-La che li accolgono nella loro città dotata di riscaldamento centralizzato e di tutti i comfort moderni, così come di terre fertili coltivate. Il romanzo, che risponde al desiderio universale di pace e alla speranza di progresso in anni difficili, ottiene un grande successo (non immediato ma a partire dall’edizione americana del 1934). Ciardi e Becattini raccontano poi con dovizia di particolari le traversie e le disavventure di Frank Capra nel realizzare il film “Orizzonte perduto”, uscito in una prima versione nel 1937, poi in una rielaborata nel 1942 e quindi in una più beve nel 1952. In ogni caso, l’adattamento cinematografico di Capra è solo il primo di una incredibile e lunghissima serie di film, radiodrammi, riduzioni teatrali e televisive, versioni a fumetti, composizioni musicali. Di ogni influenza lasciata nella cultura di massa da “Lost Horizon” nell’arte e nella fiction, Alberto Becattini (straordinario compilatore di bibliografie) dà conto da par suo, affiancando la disamina storico-letteraria fornita da Marco Ciardi (anche se è facile immaginare una sovrapposizione di ruoli tra i due). A me ha colpito molto scoprire come la residenza vacanziera del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, tra i boschi del Maryland, fosse stata da lui battezzata proprio “Shangri-La”, e soltanto in seguito (e un po’ ci dispiace) abbia cambiato nome in “Camp David”.