domenica 11 febbraio 2024

I PROMESSI SPOSI

 
 

Alessandro Manzoni
I PROMESSI SPOSI
Giunti
brossura, 2016
642 pagine, 5.90 euro

Ho riletto, per la quarta volta nella mia vita, “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Ne ho ricavato la medesima impressione riferita da Marcello Fois nel suo breve saggio “Renzo, Lucia e io” (Add edizioni), che ha per sottotitolo “Perché, per me, I Promessi Sposi sono un romanzo meraviglioso". Il problema che molti hanno con il capolavoro manzoniano deriva probabilmente dall’obbligo scolastico che ne impone la lettura e il commento. Se si riuscisse a liberarsi dall’idea che le sue pagine siano imposte dai programmi di studio e si leggessero come faremmo con un qualunque romanzo più o meno coevo (di Balzac, Hugo, Dumas, Melville) ne potremmo che rimanerne conquistati (al netto dei bastian contrari). 
Ora, se volessi approfondire ogni aspetto dell’opera, per il poco che so e mi riesce, rischierei di interrompere qui la lettura di questi appunti da parte dei miei venticinque lettori. Perciò mi limiterò ad annotare le considerazioni e le impressioni colte al volo mentre mi venivano in mente nel rileggere la storia di Renzo Tramaglino e di Lucia  Mondella. Eviterò dunque di raccontare la rava e la fava partendo da Fermo Spolino e Lucia Zarella (quei “Fermo e Lucia” protagonisti della prima versione del romanzo che Manzoni completò nel 1823 e che rimase inedita fino al 1915). Nulla dirò sulla prima edizione de “I promessi sposi” apparsa nel 1827 dopo una riscrittura e della definitiva “Quarantana” (del 1840), frutto della “risciacquatura dei panni in Arno” che è quella che oggi leggiamo, in cui sono evidenti i tentativi dell’autore di eliminare tutto ciò che gli sembrava indigesto nei francesismi e nei lombardismi dei quali aveva fatto uso in precedenza, con il preciso intento di creare, mettendola a disposizione di tutti attraverso lo strumento del romanzo, una lingua condivisa. 
Si potrebbe, ma non lo farò, accennare alle nevrosi dello scrittore di cui resta traccia nelle sue pagine (sulla vita personale di don Lisander va letto “La famiglia Manzoni”, di Natalia Ginzburg, di cui ci siamo occupati in questo spazio anni addietro), sulla sua conversione e la sua religiosità, sulla concezione del Male e della Provvidenza, sulla modernità dei personaggi e sul modo di indagarne la psicologia, arrivando ad approfondire il tema della vicinanza o della simpatia dello scrittore verso le masse popolari vessate dai nobili e dai potenti. Ancora più interessante sarebbe indagare su ciò che c’è di vero e di inventato, sull’identità dell’Innominato, sulle biografie storiche della Monaca di Monza e del cardinale Federigo. Ma mi trattengo e vengo al dunque. Primo punto: “I Promessi sposi” meritano davvero di essere letti? Indubbiamente sì. Sono facili da leggere? Se non ci lascia scoraggiare dalle quattro pagine iniziali dell’Introduzione, in cui il Manzoni finge di ricopiare un antico manoscritto che racconta una storia del Seicento (le vicende cominciano il 7 novembre 1628 e finiscono tre anni dopo), sicuramente sì. Una volta entrati nel mood, è tutto molto avvincente. 
Sicuramente il Manzoni è scrittore assai più gradevole e ancor oggi comprensibili della maggior parte dei romanzieri ottocenteschi italiani (D’Azeglio e Guerrazzi per dirne due che mi sono provato a leggere anch’io). La prima parte è addirittura divertente, piena di dialoghi brillanti e annotazioni spiritose, sembra di leggere il Collodi, e ci sono scenette da teatro vernacolare (si parla di umorismo manzoniano). I personaggi sono quasi tutti strepitosi o degni d’interesse, da don Abbondio a don Rodrigo, da padre Cristoforo ad Agnese, da Gertrude all’Innominato (che a dispetto del Manzoni tutti sanno essere un certo Conte del Sagrado), dal Conte Zio a Perpetua, da Federigo Borromeo a donna Prassede e suo marito don Ferrante. Per non parlare dei bravi, il Griso e il Nibbio su tutti. Forse in questa galleria di figure memorabili quelli a spiccar di meno sono proprio Renzo e Lucia. Lucia, soprattutto, lagnosa e insopportabile, ma alla quale tutto si perdona perché se non avesse attirato l’attenzione di don Rodrigo non ci sarebbe stato il resto del racconto. Bisogna, in realtà, farsi andar bene anche che alla base di tutto ci sia un capriccio di questo tipo: un nobilastro concupisce una giovane contadina e scommette con suo cugino che l’avrà. Pare che il Manzoni abbia attinto lo spunto da Walter Scott e da “Ivanohe” (1819), solitamente indicato come il primo romanzo storico della letteratura (il genere in cui le vicende dei personaggi si intrecciano con quelle della nazione). Mi sono sempre chiesto perché Renzo e Lucia non siano stati sposati fin da subito da padre Cristoforo o da un qualunque prete dicesse messa nel convento di Pescarenico, visto il rifiuto di farlo di don Abbondio, ma le cose hanno preso subito una brutta piega con la separazione dei due sposi promessi e poi si è messa in moto tutta una serie di disgrazie, così che ciò che si poteva risolvere meglio prima non si è potuto aggiustare poi. Renzo e Lucia disturbano un poco anche perché sembrano mancare, in loro, il desiderio e l’attrazione: mai una volta, che io rammenti, in cui si parli d’amore, mai si ricordino languidi baci, mai si accenni a un contatto fisico. Non dico che il Manzoni, figlio del suo tempo, avrebbe dovuto indulgere in qualche passaggio erotico, ma certamente si poteva alludere di più, visto anche il titolo del romanzo e vista l’acutezza con cui lo scrittore indaga nei moti d’animo dei suoi personaggi. L’unico momento in cui Lucia pensa qualcosa che riguardi il sesso, è quando fa il voto di castità trovandosi prigioniera dell’Innominato. 
Resta il dubbio anche sull’aspetto di Lucia: per aver fatto colpo su don Rodrigo la si può immaginare più formosa o avvenente delle altre ragazze della zona, però quando, nel finale del romanzo, la famiglia Tramaglino si trasferisce in territorio bresciano, il Manzoni lamenta il fatto che Lucia fosse derisa perché bruttina, al punto che Renzo deve rispondere così alle malelingue: “Chi v’ha detto che fosse bella? E’ una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la guardate. N’avete delle belle donne: guardate quelle!”. E le cose vanno a tal punto che Renzo e Lucia si convincono a cambiar paese. 
A proposito del finale, colpisce che al matrimonio (in conclusione, celebrato da don Abbondio) si accenni a malapena di straforo: “Venne quel benedetto giorno, i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa dove furono sposati”. Tutto qui. Dopo queste poche annotazioni di perplessità non si può che restare affascinati da tutto il resto. 
Milano e la Lombardia sotto il dominio spagnolo sono descritti con efficacia e verosimiglianza, frutto di una straordinaria documentazione. Le scene dei tumulti per il pane e la descrizione degli effetti della carestia del 1629 sono memorabili, ma ancor di più è formidabile la ricostruzione dei mesi del 1630 in cui imperversa la peste. Lo scrittore, forte delle ricerche fatte negli archivi seicenteschi sulle tracce di memoriali e atti ufficiali, ci trascina attraverso veri e propri gironi infernali sconvolgendoci con scene potenti come quella della madre di Cecilia o del tradimento del Griso. Alla luce dei complottismi e dell’irrazionalità che hanno contrassegnato gli anni della pandemia si resta sgomenti nel riconoscere l’attualità della follia popolare che vedeva congiure per sterminare la popolazione nella penuria di grano o l’opera degli untori nel diffondersi del contagio della peste. Il delirio complottista della “caccia all’untore” viene approfondito dal Manzoni in un’altra sua opera, “La storia della colonna infame” (1840). Le pagine dedicate alla peste valgono da sole la lettura dell’intero romanzo, se ne esce a pezzi ma migliori.







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