venerdì 21 settembre 2018

I DELITTI DEL MONDO NUOVO



Leonardo Gori
I DELITTI DEL MONDO NUOVO
Hobby & Work
Prima edizione gennaio 2002
Collana Giallo & Nero
Postfazione di Franco Cardini
cartonato - 380 pagine -  lire 30.000

In quarta di copertina, la frase “uno scrittore di gialli che non delude”. Se “Nero di maggio” poteva essere etichettato come “giallo”, a questo nuovo romanzo sicuramente l’etichetta sta stretta. Non è un giallo nonostante ci siano dei delitti misteriosi e dei colpevoli, insospettabili, da scoprire. In copertina, una scritta dice: “Mistery”.  Il che aggiusta il tiro, indubitabilmente. In verità, secondo me, il genere (ma “letteratura di genere” in Italia suona male, non per colpa della letteratura di genere ma dei critici che storcono la bocca di fronte ai generi) è il feuilleton.  Il feuilleton è un termine francese che indica il romanzo a puntate nell’appendice di un giornale. Pubblicato a puntate, il feuilleton utilizza ogni mezzo per tenere viva la curiosità dei lettori: predilige le avventure di cappa e spada, i grandi affreschi storici, le vicende commoventi e le storie d’amore. Nei “Delitti del Mondo Nuovo” (qui recensito nella sua prima edizione, ma ce ne sono state altre) c’è, indubbiamente, tutto questo. La vicenda si svolge in Toscana nel 1776, dopo un breve prologo in America ambientato nell’anno precedente, in piena Guerra di Indipendenza. Protagonista del romanzo è il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena che, se si trattasse di un giallo, potrebbe essere identificato addirittura come l’investigatore. La figura di Pietro Leopoldo è ricostruita con acutezza e spessore, sorretta da una rigorosa documentazione che ci restituisce una figura umana vera, vivida, credibile e molto moderna. Dunque c’è una corte, ci sono le spie, ci sono gli intrighi, i passaggi segreti, i messaggi cifrati, i fatti d’arme. Non solo, ma i fatti si susseguono incalzanti, e la narrazione si interrompe spesso sul più bello, lasciando in sospeso il filo teso di una vicenda, per riprendere quello di un altra. Non è un romanzo a puntate, ma è costruito come se lo fosse. Ciò non significa sminuire i meriti del romanzo, tutt’altro. Anche se in Italia la parola “feuilleton” ha una accezione ingiustamente negativa (come “fumetto”), in realtà scrissero feuilleton Honorè del Balzac, Victor Hugo, Theophile Gautier, George Sand, Alessandro Dumas ed Eugene Sue. Un feuilleton è un capolavoro come “I tre moschettieri”. Il primo romanzo d’appendice, per convenzione, è il Robinson Crusoe di Daniel De Foe, apparso sul “London Post” nel 1719.  Parlando dei Tre Moschettieri, viene subito alla mente “Il Club Dumas”, e dunque uno scrittore a cui si può avvicinare Gori, e cioè Artruro Perez Reverte. Chi abbia letto un qualunque romanzo di Perez Reverte sa di come sia abile a mescolare il mistero con la Storia con la S maiuscola, il giallo con l’intreccio erudito. Pérez-Reverte ha la capacità rara di essere colto ma accattivante, erudito ma non pedante, letterario ma non pesante, di spessore ma non prolisso. Sa scrivere bene, ma mette la sua penna al servizio della storia (e dunque del lettore) e non del bello stile fine a sé stesso (e non, dunque, della sua vanagloria).  Il "Richelieu" del “Club Dumas” è l'io narrante, vale a dire un professore universitario studioso di Dumas e dei romanzi di appendice, la cui filosofia è del tutto condivisibile, come il suo disprezzo per i romanzi in cui l'autore non parla altro che di sé stesso, e si crogiola nel proprio bello scrivere. Uno dei mali di molta letteratura italiana (e non) è appunto l’essere fine a se stessa, l’essere esercizio di bello stile, del dire ma non del raccontare. Troppo spesso alla letteratura è mancata la trama, è mancato l’intreccio, è mancata la storia, sono mancati i fatti. In Gori, la trama c’è. I fatti sono raccontati in modo serrato, la costruzione è avvincente, l’intreccio tutt’altro che banale.
Il delitto di un ingegnere impegnato nella costruzione della nuova e ardita strada granducale destinata a collegare Firenze con Modena attraverso il valico dell’Abetone, scatena una serie di fatti di sangue sulle montagne pistoiesi nei dintorni di Cutigliano. Il granduca Pietro Leopoldo, abituato a occuparsi in prima persona di ciò che avviene nel suo regno, si reca sul posto per rendersi conto di quanto stia avvenendo. Ma strada facendo, cade in una imboscata tesa da chi aveva architettato tutto per attirarlo in trappola e ucciderlo. Solo per caso gli viene risparmiata la vita, e il brigante slavo chiamato Lupo, incaricato di eliminarlo, finisce per salvarlo allorché si rende conto che le idee illuminare del sovrano rendono preziosa, per la gente come lui, la sua opera riformatrice. Il complotto teso a eliminare Pietro Leopoldo, che solo nel colpo di scena finale viene rivelato in tutta la sua complessità e nelle sue sofisticate motivazioni, voleva impedire che il Granduca potesse divenire Re delle Colonie Ribelli del Nord America, com’era negli accordi segreti con Jefferson e Washington. Pietro Leopoldo era in contatto con i rivoluzionati americani al punto da collaborare a scrivere la Dichiarazione di Indipendenza (a cui del resto contribuì non poco anche il fiorentino Filippo Mazzei) e il progetto dei capi ribelli e del Granduca prevedeva non che, a indipendenza ottenuta, si costituisse una federazione repubblicana ma una monarchica retta da un sovrano illuminato e democratico, in modo da consentire un passaggio meno traumatico dal regno di re Giorgio verso una nuova ma futura Repubblica destinata a instaurarsi solo quando i tempi fossero stati maturi.  Le idee di Pietro Leopoldo erano infatti del tutto tese all’avvento del “Mondo Nuovo” che avrebbe soppiantato l’Ancient Regime. Egli credeva che gli uomini nascessero tutti liberi e tutti uguali, e che ognuno avesse il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità, com’è scritto nella costituzione americana. Il complotto ai suoi danni, benché sventato, gli impedisce comunque di dare tempestive comunicazioni a Jefferson della sua definitiva disponibilità a collaborare e dunque la rivoluzione finisce come la storia ci insegna e con Pietro Leopoldo rimasto al suo posto, a Firenze. Solo nelle ultime pagine scopriamo però che il complotto non era stato ordito, come era lecito supporre, dai reazionari, dai nobili, dagli imperiali o dagli inglesi. Al contrario: a capo c’è addirittura Robespierre, che intendeva impedire comunque l’instaurazione in America di una monarchia seppur illuminata, perché la Rivoluzione fosse completa.  Da notare. infine, come i romanzi di Gori siano sempre ambientati in momenti di passaggio della Storia, all’alba di eventi nuovi. Qui sta per arrivare la Rivoluzione Francese. Così, in “Nero di Maggio”, si era nel 1938, stava per arrivare la bufera. 
Da notare che uno dei personaggi, un popolano della Montagna Pistoiese, si chiama Burattini. Del resto il mio nome figura in una nota insieme a quelli di chi ha fornito all'autore un qualche tipo di consulenza (la mia è stata limitatissima).


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