domenica 27 marzo 2022

PERICLE IL NERO

 

 
 
 
 
Giuseppe Ferrandino
PERICLE IL NERO
Adelphi
1998, brossurato
150 pagine, 23.000 lire

L’edizione Adelphi del 1998, coronata da grande successo di pubblico e di critica, in realtà ripropone un romanzo già uscito cinque anni prima. Giuseppe Ferrandino, all’epoca noto soprattutto come sceneggiatore di fumetti, lo aveva infatti pubblicato nel 1993 con lo pseudonimo di Nicola Calata presso la Casa editrice Granata Press, diretta da Luigi Bernardi, piccola (anche se con proposte di qualità) e con distribuzione limitata. Così, “Pericle il Nero” passò quasi inosservato. Lo notarono però i francesi della Gallimard che, nel 1995, lo pubblicarono Oltralpe nella loro “Série Noire”, dove ebbe il meritato riconoscimento. Da qui la riproposta italiana targata Adelphi, con il vero nome dell’autore in copertina e una distribuzione capillare. Nel 2016 dal romanzo è stato tratto un film diretto da Stefano Mordini, con Riccardo Scamarcio nel ruolo del protagonista. Si tratta di un hard boiled napoletano, caratterizzato da un linguaggio originale per certi versi innovativo, con dialoghi incisivi. La scrittura ha forma colloquiale (ma non banale, né volgare)  escogitata per far parlare in prima persona Pericle Scalzone, balordo dei vicoli napoletani, al soldo di don Luigino, odioso boss della mala che si impossessa di pizzerie altrui minacciando e facendo violenza ai proprietari. Pericle racconta sé stesso e narra tutta la storia dal suo punto di vista, quello di un personaggio limitato e ottuso, ma proprio perché così gretto anche in grado di dar vita a una narrazione semplice e lineare. E’ soprattutto il linguaggio di Pericle l'invenzione che giustifica il successo del romanzo (intrigante comunque anche per la trama, per quanto semplice) ed evita il rischio rischia di farlo bollare come "di genere", etichetta che in Italia ha il valore di una lettera scarlatta. C’è da notare, riguardo al linguaggio, che Ferrandino ne inventa uno napoletano nel 1993, battendo quello siciliano di Andrea Camilleri che giunge con Montalbano nel 1994. Pericle è uno specialista nel sodomizzare su commissione le vittime di don Luigino, quelle che il boss vuole spaventare e umiliare ma non uccidere, almeno per il momento. Il capo lo manda a occuparsi di un prete che dall'altare ha tuonato contro la camorra. Pericle va, ma trova il prete con una certa Signorinella, figlia di camorristi creduta una specie di santa per le sue turbe psichiche religiose, ma finita esiliata dopo aver compiuto degli eccessi. Poiché Signorinella è stata bandita da Napoli, il fatto di averla vista mette Pericle in pericolo di vita: la donna lo avrebbe fatto uccidere perché non rivelasse del suo ritorno. Pericle così decide di ucciderla lui: la colpisce più volte con una sedia, la crede morta e fugge. Informa don Luigino e poi se torna tranquillamente a casa sua. Ma don Luigino si accorge che Reginella non è morta e vende la vita di Pericle per tenersi buona la di lei famiglia. Nella notte, dei sicari fanno irruzione in casa di Pericle, che fugge appena in tempo. Non vediamo nulla (il narratore è Pericle, e lui se la dà a gambe al primo rumore) ma sapremo che i killer hanno ucciso i  suoi famigliari (uno zio, sua moglie, un cugino). Così Pericle ruba una macchina e lascia Napoli. Poi, dopo una settimana, Pericle decide di tornare indietro. E' qui che c'è una svolta nel personaggio, perché se fino a ora ci era apparso un balordo senza cervello, e lo stesso doveva apparire a don Luigino, adesso la paura lo trasforma in un duro in grado di risolvere la difficile situazione. Tuttavia, il protagonista non riesce mai a esserci simpatico, squallido come certi vicoli della sua (meravigliosa) città.


sabato 26 marzo 2022

L'OCCHIO DEL MALE

 
 

 
Stephen King (Richard Bachman)
L'OCCHIO DEL MALE
Sperling & Kupfer
1996, cartonato
304 pagine, lire 29.900

Pubblicato originariamente con lo pseudonimo di Richard Bachman, il romanzo è poi tornato in libreria con il nome del suo vero autore, vendendo dieci volte di più. E' lo stesso Stephen King a scriverlo, in un saggio ("Perché ero Bachman") che arricchisce questa edizione. La storia è semplice e inquietante, con uno spunto che ricorda il classico "Tre millimetri al giorno" di Richard Matheson, ma declinato in chiave decisamente orrorifica da un maestro del genere. Un avvocato bello grasso, Billy Halleck, 113 chili per un metro e ottantotto, travolge e uccide con l'auto una vecchia zingara. Poi, complici un paio di suoi amici (tra cui il giudice) esce indenne dal processo. Ma il padre (106 anni!) dell'uccisa, Taduz Lemke, lancia una maledizione gitana contro Halleck e chi lo ha aiutato a farla franca. Gli altri muoiono uno con il corpo che si copre di scaglie e uno disfatto dalle pustole. Billy invece comincia a dimagrire, inesorabilmente. Del resto è questo quello che gli ha detto lo zingaro all'uscita del tribunale: "Dimagra!". I medici sono impotenti, non c'è nessuna spiegazione e nessuna cura scientifica all'implacabile dissolversi dei chili di Halleck. Che alla fine capisce come l'unica soluzione sia ritrovare Lemke e farsi togliere la maledizione. Questo, mentre la moglie Heidi  e il suo medico Houston, che lo credono pazzo e ipotizzano una anoressia psicosomatica, lo dichiarano interdetto e lo braccano per ricoverarlo a forza in una clinica. Halleck raggiunge, dopo lunghissime ricerche, il bivacco di Lemke, ma costui lo scaccia a malo modo, per niente disposto a perdonare. Lui non toglie mai le sue maledizioni, dice. Allora l'avvocato, ridotto pelle e ossa, e con il peso che scema di giorno in giorno, coinvolge un suo amico in odor di mafia, che ha un debito di riconoscenza con lui. Si tratta di mettere paura agli zingari avvelenando i loro cani, sparando contro le loro carrozze, minacciando le loro donne e i loro figli, con quella che è una maledizione dell' "uomo di città". La strategia ha successo, anche se Ginelli, l'italo-americano, deve intervenire più volte Alla fine Lemke itoglie la maledizione, proprio quando l'avvocato non ce la fa più. In qualche modo l'irriducibile vecchio sembra aver capito che una guerra non può durare in eterno e che Billy ha espiato abbastanza. Solo che la maledizione è una cosa viva, che se esce da un corpo deve entrare in un altro. Il finale è aperto a varie interpretazioni, ed è la parte più debole del romanzo, che già aveva perso qualche colpo con l'entrata in scena di Ginelli, mentre fino al primo incontro fra Halleck e Lemke il racconto era stato eccezionalmente teso e drammatico. Un librone, comunque, anhe se, in ogni caso, Bachman è meno "forte" di Stephen King.

venerdì 25 marzo 2022

M. IL FIGLIO DEL SECOLO

 

 
 
Antonio Scurati
M. IL FIGLIO DEL SECOLO
Bompiani
2018, brossurato
844 pagine, 24 euro


L’ho letto con angoscia. Non soltanto perché è tutto vero, ma anche perché si sa già come va a finire. Si assiste al susseguirsi di eventi che avrebbero potuto prendere una piega diversa, se solamente alcuni avessero capito o previsto come sarebbe andata, ma non ne sono stati capaci. “M. Il figlio del secolo”, vincitore del premio Strega 2019 e accolto con straordinario successo di pubblico, non è un vero e proprio romanzo, ma non è neppure un saggio storico o una biografia. L’autore, l’accademico napoletano Antonio Scurati (1969), lo definisce “romanzo documentario”. La M. del titolo è l’iniziale di Mussolini, di cui si racconta l’ascesa al potere in Italia negli anni che vanno dal 1919 al 1924, più o meno dalla fondazione dei “Fasci di combattimento” fino all’ omicidio di Giacomo Matteotti. Non è solo del duce che si parla ma, attraverso di lui, si descrivono le figure di molti altri personaggi: Matteotti, appunto, ma anche Gabriele D’Annunzio, Filippo Turati, Italo Balbo, Amerigo Dùmini, Nicola Bombacci, Luigi Facta, solo per citare alcuni dei protagonisti di quel tragico quinquennio. Tragico perché insanguinato da inauditi atti di violenza che lo Stato assente e incapace non seppe e non volle fermare. Nonostante la vittoria, la Prima Guerra Mondiale aveva lasciato ferite e strascichi. Da una parte gli interventisti, i reduci, gli Arditi, dall’altra parte quelli che giudicavano il conflitto appena concluso un massacro voluto dalle grandi potenze e auspicavano una rivoluzione russa anche in chiave italiana. Mussolini, un tempo socialista, era diventato interventista e per questo allontanato dai suoi compagni, finendo per fondare, nel 1914, un suo giornale, “Il popolo d’Italia”, a sostegno appunto dell’intervento in guerra, prima, e delle proprie ambizioni politiche, poi. Socialisti e fascisti arrivarono a scontrarsi frontalmente armi alla mano, senza che nessuno ponesse un freno alle violenze, alle vendette, ai raid. In breve prevalsero i fascisti, forgiati dalla guerra, cultori della forza, armati e addestrati, che si scatenarono in una impressionante serie di fatti di sangue: pestaggi, torture, omicidi (il prete Don Minzoni, il sindacalista Spartaco Lavagnini, solo per citare due nomi). Colpisce, leggendo “M. Il figlio del secolo”, la sostanziale impunità dei responsabili. La classe politica italiana viene impietosamente messa a nudo nella sua pochezza, incapacità, irresponsabilità: se Mussolini poté proporsi come l’uomo forte di cui l’Italia aveva bisogno è perché aveva a che fare con degli inetti. Scurati dedica ogni capitolo a un personaggio, una data e un luogo: narra gli eventi con piglio giornalistico, li segue come con una telecamera, non fa invettive o trancia giudizi: descrive come se i fatti accadessero sotto i nostri occhi. Spesso è M. il protagonista, pedinato anche nelle stanze da letto con le sue tante amanti (quella con più spessore, che emerge per intelligenza e dedizione, è Margherita Sarfatti). A supporto dei capitoli, estratti di articoli di giornale e di lettere. Leggendo si resta avvinti (e agghiacciati), e viene spontaneo rivedere in certi fatti sinistre analogie con la situazione dei giorni nostri.

domenica 20 marzo 2022

IL GIGANTE E LA MADONNINA

 

 

 


Luca Crovi
IL GIGANTE E LA MADONNINA
Rizzoli
2022, brossurato
192 pagine, 16 euro
 
Dopo "L'ombra del campione" (2018) e "L'ultima canzone del Naviglio", Luca Crovi riporta sulle scene il Commissario De Vincenzi, da lui fatto rivivere con nuove avventure inedite. De Vincenzi (forse qualcuno lo ricorda in vecchi sceneggiati televisivi interpretato da Paolo Stoppa) è un poliziotto milanese, di stampo maigrettiano, creato negli anni Trenta da Augusto De Angelis (1888-1944), protagonista di una ventina di romanzi interrotto dalla tragica morte dello scrittore, vittima di un pestaggio fascista (era da poco rientrato a Bellagio, dove viveva, dopo aver scontato una pena per motivi politici). Non allineato con il regime, come il Ricciardi di De Giovanni, è anche il De Vincenzi di Crovi, le cui nuove avventure sono ambientate nella Milano negli anni precedenti alla Guerra, quindi un po' più avanti rispetto alle storie raccontate da De Angelis. I tre romanzi croviani con il Commissario De Vincenzi hanno una caratteristica precipua: non sono polizieschi nudi e crudi, ma raccontano Milano com'era negli anni del Fascismo, vista però dal livello del marciapiede, della gente comune, della cronaca di costume, di quella rosa, di quella sportiva, di quella nera (nonostante vi si accenni, si parla poco di politica). Così, se ne "L'ombra del campione" uno dei personggi era Giuseppe Meazza (raccontato quando si allenava nei campetti o per strada), ne "Il gigante e la madonnina" compare Primo Carnera. Ma non solo lui. C'è anche Giuseppe Bignoli, alias il nano Bagonghi, artista del circo diventato famoso a livello internazionale e c'è Giovanni D'Anzi, il musicista (di orgini pugliesi) che compose la canzone milanese per ecellenza, "O mia bela Madunina". Ma si raccontano, con il pretesto delle indagini, decine di aneddoti (dal gran numero di suicidi dall'alto del Duomo, all'incendio della Stazione Centrale, al crollo degli spalti durante una partita di calcio). De Vincenzi diventa una specie di accompagnatore nella città meneghina della prima metà del secolo scorso. Il risultato? Sembra di esserci stati, di sentirne le voci, gli odori, i sapori. Crovi, che si è documentato su ogni particolare, è gradevolissimo e i brevi capitoli si divorano come le ciligie, uno tira l'altro.

sabato 19 marzo 2022

LA FORESTA DEGLI AGGUATI

 


 
 Guido Nolitta
Gallieno Ferri
LA FORESTA DEGLI AGGUATI
Sergio Bonelli Editore
cartonato, 2021
176 pagine, 34.90 euro


In occasione del sessantennale zagoriano (1961-2021) è giunto in libreria un volume di grande formato (28 x 37 cm), cartonato con 176 pagine, che ripropone in alta qualità di stampa e nuove scansioni dalle tavole originali, “La foresta degli agguati”, la prima avventura dell’eroe dalla casacca rossa. Uscita per la prima volta nel formato a striscia tipico dell’epoca (ma Zagor è l’ultimo bonelliano a giungere in edicola in quella veste), sceneggiata da Giuido Nolitta, alias Sergio Bonelli, disegnata da Gallieno Ferri questa storia è il punto di partenza di una saga che rappresenta uno dei più grandi successi editoriali del fumetto italiano. L’incontro e l’inizio della collaborazione di Nolitta con Ferri avvengono nel 1960. Dopo un periodo di tentativi e di abbozzi, nasce lo Spirito con la Scure, un character insolito, un ibrido tra il western, l’avventura di frontiera, le suggestioni di Tarzan, gli ingredienti horrpr-fantascientifici e quelli umoristici. Ferri racconta: «Ho un ottimo ricordo del primo incontro con Sergio. All’epoca chi si presentava a un editore si aspettava una figura austera, importante. Invece Bonelli era giovane, cordiale, non stava dietro a una scrivania, la casa editrice era ancora a livello famigliare. Ci trovammo subito in ottima sintonia. Bonelli ha visto i miei disegni, gli sono piaciuti immediatamente e ha detto “facciamo qualcosa insieme”. Poco tempo dopo abbiamo cominciato a parlare del personaggio, dell’ambientazione. C’è stato un progressivo aggiustamento dell’abbigliamento, sia per Zagor che per Cico. Insieme abbiamo concordato le caratteristiche dei due amici, che abbiamo messo a punto andando avanti. C’era davvero una simbiosi tra me e Bonelli». Sergio Bonelli, invece, ricorda così l’inizio della sua amicizia con il disegnatore di Zagor: «Tutto iniziò quando Gallieno Ferri venne a offrirmi la sua collaborazione. Lui era quasi sconosciuto in Italia in quanto lavorava per la Francia: mi portò delle prove che mi sembrarono subito molto buone. Io, non avendo niente da fargli fare, decisi di inventargli qualcosa. Allora furoreggiavano i personaggi della Dardo, Capitan Miki e il Grande Blek, che si rivolgevano a un pubblico di bambini molto più giovani di quelli che leggevano Tex, che in quel periodo non era davvero un successo strepitoso. Avevano trame più semplici, più fantasiose, anche se più improbabili rispetto a quelle di mio padre. Non a torto, dunque, il nostro distributore mi disse: “Il tuo Tex è troppo difficile: perché non fai un personaggio più adatto ai bambini?”. E io, avendo Ferri sottomano, mi sono messo al lavoro ed è nato Zagor».
La saga dello Spirito con la Scure comincia con l’incontro fra Zagor e Cico, destinati a diventare amici inseparabili. Scopriremo soltanto in seguito, attraverso numerose storie raccontate in flashback, quali sono stati gli antefatti che hanno portato l’eroe di Darkwood a vestire i panni del giustiziere e Felipe Cayetano Lopez Martinez y Gonzales a lasciare il natio Messico. Per il momento, tutto ciò che è accaduto prima non ci viene raccontato, e non si dà Zagor senza Cico: è qualcosa che la dice lunga sull’importanza del pancione all’interno della serie. Il messicano non è soltanto la tradizionale spalla comica tipica dei fumetti western o avventurosi degli anni Cinquanta (come erano, per esempio, Salasso o Doppio Rhum per Capitan Miki): rappresenta anche il punto di vista del lettore all’interno della serie, come il dottor Watson per Sherlock Holmes, ed è la pietra di paragone per valutare il coraggio e la forza dell’eroe: là dove Cico, come tutti noi, vorrebbe darsela a gambe, lo Spirito con la Scure si getta invece nei pericoli. Ma, in realtà, più spesso di quanto si possa immaginare o prevedere, il Piccolo Uomo dal Grande Ventre (come presto gli indiani della foresta cominceranno a chiamarlo) si rivela di grande aiuto per Zagor e in più occasioni gli salva la vita. Sempre, tuttavia, allenta la tensione nel corso della storia riuscendo a caratterizzare le avventure realizzate da Nolitta & Ferri come un perfetto mix di dramma e umorismo. Al suo primo apparire, Cico ha ancora un grande sombrero messicano, che ben presto gli verrà tolto, perché “da solo riempiva un’intera vignetta”, come spiega il disegnatore.
Quando lo Spirito con la Scure fa sua prima apparizione, a pagina 14 di questo volume, non ha ancora l’aspetto che gli vedremo assumere nel giro di qualche avventura. Lo vediamo infatti con i lineamenti del volto ancora non ben definiti (Ferri racconta di essersi ispirato all’attore Robert Taylor), un bracciale ai polsi, una casacca con un’aquila stilizzata in modo approssimativo. Nella prima serie a striscia del 1961, addirittura, la foresta in cui l’eroe vive non ha ancora un nome e soltanto in seguito (per la precisione, nel 1964 con l’avventura “Lo squadrone fantasma”), Nolitta l’avrebbe ribattezzata Darkwood. Una foresta ben strana, visto che racchiude in se tutti gli scenari dell’avventura (la palude, le montagne, il deserto, i fiumi, i laghi), e dunque una geniale invenzione narrativa. Benché collocata idealmente tra la Pennsylvania e l’Ohio (in questo volume vediamo citato Fort Pitt, attorno a cui si sarebbe sviluppata Pittsburgh), a Darkwood ci sono alberi con le liane, come nelle foreste tropicali, e dunque Zagor può volare di ramo in ramo alla maniera di Tarzan. Ma il suo costume e il sacro rispetto che hanno per lui gli indiani lo fanno assomigliare anche all’Uomo Mascherato. Due eroi di cui sia Nolitta che Ferri erano grandi lettori e da cui trassero ispirazione per creare, tuttavia, un personaggio nuovo e originale, con caratteristiche proprie.
Le avventure di Zagor non sono propriamente western, quanto piuttosto “eastern”. Si svolgono cioè non nel classico Sud-Ovest che fa da sfondo alla maggior parte delle storie di Tex, ma nel tipico scenario da “Ultimo dei Mohicani”. Quindi in una regione e in un’epoca del tutto diverse. E diverse sono infatti anche le tribù indiane in cui ci imbattiamo fin dall’inizio: non gli Apaches, i Navajos o i Cheyennes, ma i Delaware, una popolazione algonkina, contrapposta a quelle irochesi, come per esempio i Mohawk. Il primo capo indiano caratterizzato come “cattivo” nella serie di Zagor (che pure si connoterà per essere spesso, e antesignanamente, dalla parte dei pellerossa), Kanoxen, è un appunto un Delaware: non a caso, questa tribù (al pari di altre, quali i Cayugas) sarà spesso nemica dello Spirito con la Scure. Il tratto di Ferri risente ancora dell’influsso delle produzioni francesi a cui si era dedicato in precedenza, ma rapidamente lo stile de disegnatore ligure troverà una strada propria e originale: “La foresta degli agguati” dimostra comunque tutta la sua potenza evocativa dando vita a scenari di foresta davvero indimenticabili, su cui si sarebbe poi fondato l’immaginario zagoriano. Allo stesso tempo, non può sfuggire il talento umoristico del disegnatore nel dar vita alle gag di Cico immaginate da Nolitta. Il volume, uscito anche con vatiant cover in una edizione de-luxe a tiratura limitata, è corredato da una illustratissima introduzione firmata da Graziano Frediani.