venerdì 22 febbraio 2019

FREDERIC REMINGTON



Sofia Craze

FREDERIC REMINGTON

Crescent Books

Edizione originale USA 1989

cartonato - 112 pagine

Che belli questi libri di grande formato (27 x 37 cm), quando si tratta di riprodurre quadri di straordinaria potenza espressiva come quelli di Frederic Remington! La magia dei dipinti di Remington, tutti o quasi oli su tela raffiguranti scene western, consiste principalmente nel fatto che ciascuno di essi racconta una storia, ed è una storia avvincente, intrigante, piena di risvolti e di emozioni. Non per sminuire i pittori figurativi che si dilettano in nature morte o in paesaggi bucolici, ma vedendo un quadro “Frends or Enemy”, del 1890, dove uno scout indiano a cavallo nella neve vede da lontano i fuochi di un accampamento e aguzza gli occhi per scoprire se si tratti di amici o nemici… beh, siamo davvero in un altro mondo. Nato il 4 ottobre 1861 a Canton, nello stato di New York, Remington cominciò a dipingere il West nel 1882. Il volume raccoglie 67 tavole a colori di altrettanti eccezionali opere a olio, e 25 illustrazioni in bianco e nero fra cui fotografie d’epoca del pittore e di alcune sue stupefacenti sculture, sempre aventi per soggetto i cavalli, gli indiani, i soldati e i cowboys. Scene militari, vita tra i cavalli e le mandrie (stupendo “The Stampede”, del 1908), raffigurazioni di indiani, questi i temi preferiti da Remington, che come pittore è assai più maturo di George Catlin, che ebbe il vantaggio di essere un precursore ma fu di certo meno dotato.  Vale la pena di tracciare, per come la so, una breve cronistoria dei pittori del West, appunto da Catlin a Remington. 

Quella degli artisti del pennello ispirati dagli scenari western, intendendo tutti quelli a Ovest del Mississippi, a partire dall’acquisto della Louisiana dalla Francia, da parte degli Stati Uniti, nel 1803, fu una vera e propria scuola, ricca di talenti. La necessità  di conoscere ed esplorare gli immensi territori da poco acquisiti, che avevano più che raddoppiato il territorio federale, suggerì al governo di Washington di inviare numerose spedizioni con il compito di cartografare le nuove regioni e mappare la dislocazione delle tribù indigene. Al seguito di queste missioni si unirono artisti invitati a raffigurare in schizzi a matita o con acquarelli i paesaggi, la fauna, la flora e i villaggi delle popolazioni locali. Questi disegni fornirono le prime informazioni iconografiche sulle terre ancora sconosciute che si offrivano alla colonizzazione bianca, ed esaltarono l’immaginazione degli americani delle città dell’Est. Ben presto altri artisti cominciarono a viaggiare per proprio conto diretti verso occidente, obbedendo a un desiderio personale oppure spronati da committenti che chiedevano quadri con gli scenari grandiosi delle Grandi Praterie, le Montagne Rocciose o i canyon e le mese del Sud Ovest. 

I primi ritratti di pellerossa realizzati dal vivo da un pittore, che poi li espose nelle Gallerie d’Arte di grandi metropoli come New York, Londra e Parigi, furono quelli di George Catlin.  Nato in Pennsylvania nel 1796, dopo aver esercitato per breve tempo la professione di avvocato, Catlin si dedicò alla pittura e, nel 1830, si trasferì a St. Louis, nell’attuale Missouri. In questa città ebbe la ventura di conoscere proprio William Clark, che vi si era stabilito al termine delle sue avventurose esplorazioni che lo avevano reso amico di numerosi pellerossa. Erano infatti tanti gli indiani che venivano e fargli visita e Catlin, vedendoli, ne fu affascinato al punto da chiedere loro di posare per dei ritratti. Nel 1832, il pittore volle intraprendere un viaggio nelle terre dei nativi, soprattutto in direzione delle Grandi Praterie. Raggiunse dunque Fort Union, che oggi è nel North Dakota, e lì ebbe l’occasione di dipingere guerrieri e squaw dei Piedi Neri, degli Assiniboin, dei Cree e dei Crow, le cui tribù erano stanziate attorno al Forte. Quindi, proseguendo il viaggio, Catlin raggiunse i Mandan e si fermò a lungo nel loro villaggio, al punto da poter dipingere e annotare ogni aspetto della loro vita sociale. Fu il primo bianco ad assistere alla cerimonia della Danza del Sole, un rituale di purificazione che prevedeva il digiuno e l’autoflagellazione per invocare le divinità ed entrare in contatto con loro. Nel 1833, a Pittsburg vennero esposti in una mostra i primi quadri del pittore raffiguranti capi indiani e scene di vita nei loro villaggi. Da quel momento la fama di Catlin crebbe in America e anche in Europa, si intensificarono i suoi viaggi e si moltiplicarono le sue mostre.

Karl Bodmer (1809-1893), artista svizzero, e Alfred Jacob Miller (1810-1874), nativo invece di Baltimora, si ispirarono all’opera di Catlin e, come lui, si occuparono principalmente di raffigurare pellerossa. La loro visione dei nativi fu sostanzialmente romantica: gli indiani vivevano in un paesaggio incontaminato, cacciavano i bisonti, si facevano guerra tra loro ignorando la minaccia degli uomini bianchi e trascorrevano il tempo in uno scenario bucolico in cui nulla lasciava presagire il dramma della decimazione e della deportazione nelle riserve. 

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le cose cominciarono a cambiare. Nelle opere di pittori come Seth Eastman (1808-1875), William Ranney (1813-1857). Charles Deas (1818-1867) e Carl Wimar (1828-1862) le tribù dei nativi attaccano le carovane, scalpano i trappers e combattono con i soldati dell’esercito. Il sentimentalismo precedente lascia il posto alla cronaca storica e, per certi versi, alla “celebrazione” del “progresso” portato dall’avanzare della Civiltà nelle terre di frontiera.  

Ma i pittori che più molti altri seppero raccontare, con straordinaria efficacia e modernità, la conquista del West (al punto di essere ancora oggi attualissimi), furono Frederic Remington (1861-1909) e Charles Marlon Russell (1864-1926).  Nato nel nord dello stato di New York il primo, originario di Saint Louis il secondo, rifiutarono entrambi l’idea che l’arte dovesse “celebrare” qualcosa, e trovavano discutibile la retorica propagandistica del “destino manifesto” dell’uomo bianco chiamato a portare la fiaccola della verità nelle tenebre dell’errore. Così, ciascuno alla propria maniera e percorrendo strade diverse, si sforzarono (riuscendoci benissimo) di mostrare la realtà nuda e cruda, in opere in grado di suscitare contrastanti sentimenti da punti di vista differenti, perché la verità non è una sola ma è sfaccettata. Il West di Remington e Russell è vivo, emozionale,  e se raffigura uno scontro fra un bianco e un indiano non prende posizione, lasciando allo spettatore il compito di giudicare da che parte stare. 

domenica 17 febbraio 2019

IL CINEMATOGRAFO






Emmanuel Toulet
IL CINEMATOGRAFO INVENZIONE DEL SECOLO
Universale Electa/Gallimard
1994 194 pagine
brossurato - lire 20000

Questo volume della mai abbastanza lodata collana Universale della Electa/Gallimard (una sorta di enciclopedia monografica composta da illustratissimi, agili ed esaurienti volumetti formato tascabile) racconta la nascita del cinema e i primi anni della sua storia. Dopo aver passato in rassegna le varie apparecchiature che già negli anni precedenti alla prima proiezione pubblica  (il  28 dicembre 1895 a Parigi) avevano fatto da battipista, il saggio di Toulet racconta di come i fratelli Lumiere fossero arrivati a mettere a punto e a perfezionare la loro macchina  e dell'impatto che essa ebbe sulla società dell'epoca. L'invenzione è attribuita a entrambi, mentre è certo che sia dovuta a una intuizione di Louis, mentre Auguste avrebbe collaborato solo nella fase di realizzazione pratica del primo apparecchio.  Appare evidente come i fratelli Lumiere abbiano, alla fine, raggiunto per primi un risultato a cui in molti tendevano e verso il quale la tecnica aveva già fatto passi da gigante. Esisteva già la fotografia, esistevano già dispositivi in grado di proiettare immagini, esistevano già apparecchi che simulavano il movimento di immagini statiche: si trattava solo (se "solo" è l'avverbio adatto) di far aprire e chiudere un otturatore fotografico in modo da impressionare una pellicola con un certo numero di fotogrammi al secondo, e di far scorrere questa pellicola in modo coordinato dietro l'otturatore stesso. I Lumiere ci riuscirono per primi. Quindi, vengono prese in esame le innovazioni stilistiche dei primi registi, chiamati a risolvere per la prima volta i problemi di inquadratura, montaggio, di effetti speciali. In pochi anni furono codificate quasi tutte le convenzioni narrative che ancora oggi gli spettatori danno per scontate assistendo alla proiezione di un film. Il libro della Electa/Gallimard, stampato su carta lucida, è corredato da numerosissime fotografie d'epoca.

venerdì 15 febbraio 2019

IL SENSO DI SMILLA PER LA NEVE



Peter Høeg
SENSO DI SMILLA PER LA NEVE
Mondadori
1995
cartonato, 450 pagine 

Un trhiller davvero insolito, questo del danese Peter Høeg  precursore del successo internazionale del giallo scandinavo, che si svolge  in parte a Copenaghen, in parte a bordo di una nave diretta in Groenlandia.  Fino a metà romanzo, il racconto di Høeg è un giallo magistrale. Da un certo punto in poi, come vedremo sembra di aver cambiato libro, di stare leggendo un'altra storia. La trama prende l'avvio dalla morte di un bambino, Esajas, figlio di una vedova mezza intontita dall'alcool. Il ragazzino è caduto dal tetto innevato del suo palazzo. Fra i primi soccorritori c'è Smilla, sua vicina di casa e molto legata ad Esajas: Smilla è di origine groenlandese (come il bambino e sua madre) e ha una innata sensibilità per leggere le tracce sulla neve. Si accorge subito che Esajas non è caduto perché si è sporto troppo mentre giocava (ammesso che si potesse giocare su un tetto innevato) ma perché fuggiva da qualcuno che voleva afferrarlo. La polizia si mostra intenzionata ad archiviare il caso come morte accidentale. Smilla invece si convince che si tratta di omicidio e comincia a indagare in proprio. La narrazione avviene in prima persona e al presente. La figura della protagonista non emerge subito, ma va delineandosi man mano che la lettura procede. Si tratta indubbiamente di un personaggio interessante: una donna non più giovanissima, solitaria e molto chiusa, figlia di una cacciatrice groenlandese e di un medico bianco divenuto chirurgo di fama internazionale. La madre è morta in un incidente di caccia, il padre vive nel jet set. Smilla ha studiato ed è una esperta dei problemi del ghiaccio nelle terre polari: non ha un lavoro fisso, vive con ciò che gli passa il padre e con occasionali lavori di consulenza, aggregandosi a spedizioni scientifiche.  Il rapporto fra Smilla e il padre è conflittuale, ma non privo di rimorsi e voglia di superare le difficoltà, da entrambe le parti. Le nevrosi di Smilla e la durezza del suo carattere derivano in gran parte dal disadattamento dovuto allo spostamento forzato che le fu imposto quando era bambina dalla Groenlandia fino in Danimarca, dove i groenlandesi sono considerati come una specie di razza inferiore. Tutti questi elementi, uniti all'incalzare del giallo, rendendo il romanzo oltremodo avvincente e interessante fino a oltre metà, come dicevamo. Poi, a un certo punto, Smilla scopre che la morte di Esajas potrebbe essere collegata con una misteriosa spedizione presso il ghiacciaio groenlandese di Gela Alta a cui partecipò il padre del ragazzo, in seguito alla quale l'uomo morì. C'è qualcosa di importante nascosto fra i ghiacci, e un gruppo di persone, nascondendo le proprie attività dietro il paravento della Società per la Criolite (una azienda mineraria), da molti anni cerca di recuperarlo. Solo che gravi e misteriosi imprevisti mandano continuamente a monte le loro operazioni. Quando Smilla scopre che il gruppo sta di nuovo per partire per la Groenlandia, anche lei si imbarca sulla loro nave facendosi assumere come membro dell'equipaggio, decisa a scoprire di che cosa si tratti. Ecco: a questo punto il romanzo cambia faccia. Diventa avventura marinaresca, il trhiller si fa forse più serrato ma si svolge in alto mare, e quando la nave giunge al ghiacciaio di Gela Alta sembra (quasi) di leggere Clive Cusserl. Segue spoiler: attenzione. La nave deve recuperare un meteorite che irradia energia, attorno al quale si è sviluppata una colonia di microrganismi mortali per l'uomo. Chi si immerge nel ghiaccio fuso per cercare di imbracare il meteorite, muore: come il padre di Esajas. Il ragazzo era in possesso di un nastro registrato che documentava la faccenda e le responsabilità, e per questo è stato inseguito sul tetto da chi voleva recuperarlo. Avvincente.

giovedì 14 febbraio 2019

PERCHE'?




Philippe Vandel
PERCHE'?
Longanesi
1995, 274 pagine 
brossurato, 18.000 lire


Il francese Philippe Vandel è giornalista televisivo, autore e conduttore di fortunate trasmissioni. Questo è il suo secondo libro, grande successo in Francia (all'epoca della sua prima uscita) in Francia. Il volumetto, pubblicato da Longanesi in piccolo formato, in effetti è gradevole. Rientra a tutti gli effetti nel genere "trivia", cioè nel campo delle curiosità, delle notizie singolari, del nozionismo non catalogabile nelle scienze ufficiali: l'autore risponde a 120 domande apparentemente sciocche, alle quali esiste tuttavia una risposta interassente da dare. L'idea non è nuova: sulla "Settimana Enigmistica" appare da decenni una rubrica analoga in cui i curatori spiegano i perché di questo o di quello. Ugualmente, su "Tutto Martin Mystere", Alfredo Castelli (noto tuttologo e cultore di "trivia") rispondeva "a tutto". E su riviste tipo "Focus" vengono fornite risposte attendibili e chiare a quesiti di ordine scientifico. Raccogliendo insieme queste risposte qualunque editore potrebbe pubblicare un libro come questo della Longanesi. Però, a dire il vero, Vandel ha selezionato 120 domande molto particolari: non ha cercato di rispondere a domande "serie" come potrebbe essere quella sul perché la luna mostra sempre la stessa faccia o sul come mai l'acqua del mare sia salata e quella dei fiumi invece no. Sono state scelto 120 domande davvero  curiose e singolari: "Perché di un marito tradito si dice che ha le corna?"; "Perché i coltelli di lusso hanno la punta rotonda?", "Perché l'ordine dei tasti della macchina da scrivere non è alfabetico?". Il  merito dell'autore, che si sforza di fornire risposte attendibili ma ha il torto di volerle mettere troppo in burla, sta in proprio in questa scelta. Carino da avere, da rileggere,  o da usare per sfoggiare una cultura enciclopedica. Ah, un'ultima cosa: dei mariti traditi si dice che hanno le corna perché gli animali che le hanno possono vedere quelle degli altri ma non le proprie.

domenica 10 febbraio 2019

ISOLE NELLA CORRENTE




Ernest Hemingway
ISOLE NELLA CORRENTE
Oscar Mondadori
Introduzione di Fernanda Pivano
2000, brossurato
530 pagine -  lire 15.000

“Isole nella corrente” è l’ultimo romanzo di Hemingway, uscito postumo dopo la sua morte, avvenuta nel 1961. Mary Hemingway, la figlia, si è occupata di curarne l’edizione raccogliendo i testi lasciati incompiuti dal padre. “Charles Scribner  Jr. e io abbiamo preparato insieme per la pubblicazione il manoscritto di Ernest – scrive Mary Hemingway-  A parte le normali correzioni nella grafia e nella punteggiatura, abbiamo operato alcuni tagli, perché io ero certa che Ernest stesso li avrebbe eseguiti. Il libro è interamente di Ernest. Noi non abbiamo aggiunto nulla”. A lettura avvenuta, si sente che il libro è davvero di Hemingway. C’è dentro la sua anima, ci sono anche fatti veri della sua vita, raccontati come solo lui poteva fare, anche se attribuiti a un protagonista, il pittore Thomas Hudson, che è chiaramente la sua controfigura. E c’è anche una vaga, ma continua, angoscia esistenziale che sfocia in riflessioni sul suicidio, chiaramente prodromiche al suicidio dell’autore stesso. Dunque, gli elementi autobiografici sono tanti, predominanti addirittura sull’intreccio romanzesco che anzi è poco sviluppato. Fernanda Pivano ricostruisce, nella sua lunga e interessante introduzione, la genesi delle tre parti dell’opera, pensate in tempi diverse e destinazioni diverse. In effetti, “Isole nella corrente” non è un romanzo unitario. “Nel primo episodio – scrive la Pivano – Bimini, il protagonista è presentato nella sua casa e nelle varie scene della sua vita abituale, nella quale si muovono soprattutto il suo amico scrittore Roger Davis e il padrone di un bar soprannominato Bobby. E’ tra questi personaggi che si svolgono alcuni tipici dialoghi hemingwayani: dialoghi da duri, pronunciati nel corso di azioni da duri, venati del sottofondo di malinconia tipica dei duri. Mentre avvengono questi dialoghi, il pittore sta aspettando l’arrivo dei suoi tre figli che vengono a trascorrere con lui una vacanza. Poi arrivano i figli, uno nato dalla prima moglie e due dalla seconda, e il pittore può mostrare senza ritegno le proprie qualità paterne, sia per l’amore col quale li circonda, sia per la sua abilità nell’allevarli da duri; nel corso di una caccia al pescespada uno dei tre ragazzi è descritto come in un vero e proprio rito di iniziazione, circondato dall’attenzione degli adulti e impegnato nella sua azione in un clima di rispetto e intensità quasi mistica”. In effetti, la scena della pesca, lunghissima, è non solo bella ma anche esemplificativa delle caratteristiche dell’opera intera: la scrittura comunica l’autore più che la trama di una storia. Dopo che i figli sono ripartiti, “il pittore riceve un telegramma che gli comunica la morte in un incidente d’auto dei due figli minori e della loro madre. L’ultima scena di questo primo episodio mostra il pittore in viaggio su una nave mentre legge i necrologi”. Il secondo episodio, Cuba, è ambientato a Cuba all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Anche qui, tornano i temi cari a Hemingway. Belle le descrizioni del suo gatto, del suo rapporto con il bere, ma anche del succedersi delle sue storie d’amore, ciascuna destinata a lasciare comunque un segno. In pratica, però, non succede niente. Il terzo episodio, In Mare, “descrive il pittore mentre comanda la sua imbarcazione di irregolari americani alla ricerca di alcuni marinai tedeschi dispersi”. Nel corso dell’ultimo scontro, Hudson viene ferito, “forse mortalmente”. Questo terzo racconto è il più avventuroso e quello che ha più trama in senso romanzesco. Gli avvenimenti narrati fanno riferimento, di nuovo, a un episodio autobiografico. Lo spiega la Pivano: “Il riferimento è sicuramente quello alla perlustrazione compiuta da Hemingway nel mare di Cuba durante la Seconda Guerra Mondiale”. 

venerdì 8 febbraio 2019

MISTER NO REVOLUTION: VIETNAM



Michele Masiero
Matteo Cremona
MISTER NO REVOLUTION: VIETNAM
Sergio Bonelli Editore
2018, cartonato
146 pagine, 21 euro

"Cosa sarebbe successo se...". Nei fumetti americani si usa l'espressione "What If" (c'era addirittura una serie Marvel chiamata così, dove si presentavano versioni alternative dei fatti riguardanti i supereroi di Stan Lee). Dunque, che cosa sarebbe successo se Jerry Drake, l'antieroe creato da Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli) forse nato 25 anni dopo rispetto alla sua "biografia ufficiale" che lo vuole soldato nella Seconda Guerra Mondiale e poi pilota di piper a Manaus, in Amazzonia? Michele Masiero immagina Jerry, giovane nella New York degli anni Sessanta, che non vuol fare la rivoluzione al servizio di nessuna ideologia, ma vivere la propria vita cercando solo con quella di cambiare il mondo, chiamato dal governo degli Stati Uniti a combattere in Vietnam come tanti (troppi) altri della generazione perduta. Nel Sud Est asiatico si guadagna comunque il soprannome di Mister No. Questo primo volume di una serie cartonata (ce ne saranno altri in cui lo vedremo confrontarsi con altre realtà della società americana di quel periodo, fatta di forti contrasti) mostra, in sequenze alternate, sia le drammatiche vicende belliche in cui Mister No si trova coinvolto in Vietnam, sia il periodo precedente alla partenza, in cui vive una struggente storia d'amore con una ragazza chiamata Maryann, vittima della droga. Prima della partenza per il fronte, Jerry assiste alle proteste di piazza contro la guerra e valuta la possibilità di disertare e fuggire in Canada. Ma rinuncia e parte per il fronte proprio per il drammatico epilogo della storia con Maryann. In Vietnam viene fatto prigioniero e assiste a sevizie terribili ma resiste e sopravvive. Il volume, da cui è stata tratta anche una miniserie da edicola, è un crudo, angosciante, a tratti straziante. Il protagonista è credibile, il racconto coinvolgente, i disegni bellissimi (colori compresi. di Luca Saponti e Giovanna Niro). Resta da chiedersi se sia davvero Mister No e un suo omonimo. La filosofia del personaggio è rispettata, senza dubbio, ma manca la spensieratezza del Jerry Drake che canta guidando il suo aeroplano. Del resto, però, questo è un "What If". E l storia non è ancora finita.

domenica 3 febbraio 2019

TRA VIA VALPARAISO E IL WEST



Antonio Alessandro

TRA VIA VALPARAISO E IL WEST
Aracne
2018, brossurato
220 pagine, 16 euro

"C'era una volta un bambino segretamente convinto che i soldatini avessero un'anima. Affascinato da una favola che narrava l'amore tra un soldatino di piombo senza una gamba e la ballerina di un carillon, si era persuaso che i soldatini, inanimati di giorno, di notte prendessero vita e protetti dall'oscurità diventassero protagonisti di storie che nessuno avrebbe mai visto". Quel bambino, autore del libro "Tra via Valparaiso e il West" di cui quelle citate sono le prime righe, si chiama Antonio Alessandro, classe 1962, direttore sanitario di una clinica calabrese: un distinto signore della mia stessa età, che ancora oggi gioca con i soldatini.  Della passione per questo particolare tipo di giocattoli, ai giorni nostri oggetto di collezione, avevo già parlato commentando un altro libro, "Fatti della stessa pasta". In quel caso, si parlava di soldatini di "pasta", una sorta di cartapesta, usata in anni precedenti a quelli di cui tratta invece Antonio Alessandro: i soldatini di plastica della storica ditta Nardi. Soldatini che ho amato molto anche io, da bambino, perché diversi dagli altri: belli, colorati, smontabili, resistenti, eleganti nella proporzioni delle anatomie e nelle pose, precisi nei dettagli e plausibili nella ricostruzione della foggia delle divise e delle armi. Di grande qualità, anche al tatto, nonostante si potessero facilmente acquistare nel negozio sotto casa, e fossero alla portata di tutte le tasche. Il fatto che i soldatini Nardi potessero essere smontati e ricostruiti in pose diverse (erano sostituibili la base, il cavallo, il busto, l'arma impugnata) e fossero colorati in modo impeccabile, rendeva i soldatini Nardi affascinanti e "giocabili".

L'autore ricostruisce la storia della casa di produzione, nata a Milano nel 1946 per iniziativa di Guido e Gaetano Nardi, supportati dall'imprenscindibile scultore dei prototipi in gesso , il signor Marino. Nel 1962 la sede venne spostata, dalle precedenti collocazioni, in Via Valparaiso 4: da qui il titolo del libro, che cita Guccini ("Tra la via Emilia e il West"). Nel 1971, in seguito alla morte dei fondatori, la società passa nelle mani di Francesco Nardi, figlio di Guido. Finché, nel 1979 un incendio appiccato da un piromane manda in fumo tutto lo stabilimento distruggendo non solo la linea di produzione, scorte di materie plastiche e il magazzino ma anche gli stampi in metallo e i prototipi di gesso da cui si ricavavano i soldatini, polverizzando 2500 modelli e rendendo impossibile la ripresa della produzione.  
Molte serie Nardi facevano riferimento all'immaginario western, ma c'erano anche marines, alpini, bersaglieri, sommozzatori, così come vennero prodotti scenari su cui collocarli.
Antonio Alessandro documenta tutto con belle foto, ma il suo non è un arido catalogo per collezionisti: vengono commentate le pose e i costumi, così come le particolarità, si confrontano i pezzi Nardi con quelli della "concorrenza", si fanno ipotesi su falsi e imitazioni, si esaminano le tecniche commerciali e le pubblicità, si intervistano i Nardi. Un libro bello da vedere e da leggere, frutto di autentica passione. C'è un sito, curato dall'autore, che si può visitare: www.soldatininardi.it