Stephen King
CUORI IN ATLANTIDE
Sperling & Kupfer
Prima edizione gennaio 2000
cartonato - 600 pagine
lire 34.900
"Cuori in Atlantide", di Stephen King, è uno straordinario affresco della vita nella provincia americana tra il 1960 e il 2000, attraverso le vite parallele (ma anche intersecantesi) di un gruppo di ragazzi nati nei bigotti e moralistici Fifties e cresciuti nei decenni successivi, quelli invece della contestazione. Il libro è costruito con una giustapposizione di racconti imperniati su personaggi diversi, che però compaiono in tutte le storie in posizioni diverse e magari secondarie. Il primo racconto è il più lungo e l’unico con gli ingredienti del fantastico: racconta di un ragazzo dell’immaginaria e sonnolente cittadina di Harwich, Bobby Garfield, orfano di padre e ostaggio di una madre nevrotica, e ne segue il passaggio dall’infanzia all’adolescenza (all’inizio lo vediamo emozionato per la tessera che gli dà l’accesso alla sezione degli “adulti” della biblioteca pubblica). Il passaggio è visto come un susseguirsi di prove iniziatiche, con l’aiuto di un angelo custode dall’aspetto di un vecchio venuto da un’altra dimensione (e qui i riferimenti – che purtroppo infastidiscono, – sono al ciclo kinghiano della “Torre Nera”). Ma il racconto più bello in assoluto, e più coinvolgente, non ha niente di fantastico e di orrorifico, ed è quello che dà il titolo alla raccolta: “Cuori in Atlantide”. Siamo in un campus universitario americano negli anni Sessanta, all'epoca della Guerra del Vietnam, e ci viene descritta la presa di coscienza da parte dei giovani studenti della "generazione perduta" del dramma della guerra (anche chi non voleva mettere in discussione la guerra doveva farci i conti: non superare gli esami voleva dire partire per la giungla). Sconvolge la descrizione di come un gioco a carte ("cuori") invasi a tal punto un gruppo di studenti da far dimenticare loro la necessità di studiare e quindi li precipita all’inferno, in Atlantide (così veniva chiamato, appunto, il Vietnam nel gergo dell'epoca). C’è probabilmente la metafora della droga, c’è sicuramente quella del desiderio di autodistruzione nell’obnubilamento tipico di una certa fase della crescita (e del male di vivere di tutte le età). C’è anche la descrizione del dramma di una società piena di contraddizioni che si scopre lacerata mentre fino a pochi anni prima aveva vissuto nel mito dell’unità delle sue componenti. I conflitti generazionali si rivelano esplosivi e minano alle fondamenta i valori comuni e preconfezionati su cui ci era illusi di aver costruito un castello che si rivela di sabbia. La crescita (l’evoluzione) della società corrisponde a quella degli individui che da bambini si fanno uomini, e donne. Gli altri tre racconti sono brevi e meno interessanti, ma servono a concludere l’affresco. “Willie il cieco”, ambientato negli Anni 80, racconta di un reduce del Vietnam che non ha combattuto quasi per niente ma del Vietnam ha fatto il suo mestiere giacché ogni giorno si traveste da barbone e chiede l’elemosina fingendosi infermo di guerra, mentre fuori dall’orario di “lavoro” ha una cosa da borghese benestante: la carità gli permette di vivere bene (e gli ideali di una intera generazione possono andare a farsi benedire). Nella nota finale, l’autore ringrazia alcune persone, fra cui la moglie, per averlo aiutato a “trovare il coraggio” di scrivere questo libro. Segno che quel che King racconta lo ha davvero sentito, e vissuto.
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