lunedì 28 agosto 2023

L’UOMO CHE GUARDAVA PASSARE I TRENI

 
 

 
 
Georges Simenon
L’UOMO CHE GUARDAVA PASSARE I TRENI
Adelphi
Settima edizione settembre 1995
brossurato - 220 pagine -  lire 11.000

Georges Simenon, uno dei più grandi scrittori del XX secolo, non significa solo Maigret. Al contrario, i suoi romanzi migliori non hanno come protagonista il commissario parigino. Trovo straordinario questo "L'uomo che guardava passare i treni", la storia di Kees Popinga, grigio borghese che ha una linda casetta e una bella famigliola in Olanda, conduce una vita assolutamente monotona e rispettosa delle convenzioni. Fuma sempre i soliti sigari sulla solita bella poltrona, va sempre al solito circolo a giocare a scacchi facendo ritorno sempre alla solita ora, si veste sempre al solito modo, scambia poche parole con la moglie e con la figlia e con la donna di servizio, lavora in modo freddo e scrupoloso, non si lascia mai andare, è perfino moralista e guarda con disgusto i bar dove ci si ubriaca e i postriboli dove si scopa. Ha solo un vizio: guarda passare i treni, di notte, e si chiede chi siano e dove vadano i viaggiatori dietro le luci accese dei vagoni letto. Poi, una sera, tutto cambia.  Da qui in poi, occhio allo spoiler (lo scrivo per pridenza, ma si tratta di un romanzo molto noto, scritto nel 1938). 
Incontra il titolare della sua ditta che sta fuggendo con gli ultimi soldi rimasti, e scopre che per anni, sotto il suo naso, l'uomo ha truffato soci e dipendenti e ha portato la società alla bancarotta. L'uomo, prima di eclissarsi, gli rivela come il mondo non vada come lui creda. Lui è l'amante della moglie del farmacista e frequenta una prostituta ad Amsterdam. Tutti truffano tutti, tutti tradiscono tutti, e la stessa moglie di Kees potrebbe non essere fedele come lui crede: perchè se no sua figlia avrebbe i capelli e gli occhi scuri, lì in Olanda dove tutti, Kees compreso, sono biondi? Kees allora, come allucinato, fugge a Parigi. Smette di guardare passare i treni, ci sale sopra. A Parigi comincia a vivere fuori da ogni regola e convenzione, e finisce pure per uccidere una prostituta e viene braccato dalla polizia. A questo punto vale la pena di leggere la sua "confessione", scritta a un giornale parigino durante la latitanza, così come Simenon ce la presenta: "Pare che per sedici anni io sia stato un buon marito e un buon padre. Non è vero. Se non ho mai tradito mia moglie è perché si sarebbe subito saputo e la signora Popinga mi avrebbe reso la vita impossibile. Non avrebbe dato in escandescenze, avrebbe fatto quel che era solita fare quando, per avventura, compravo qualcosa che non era di suo gradimento oppure fumavo un sigaro di troppo. Passava due o tre giorni senza rivolgermi la parola, aggirandosi per casa con aria afflitta. Ho preferito evitare queste scene e ci sono riuscito, a patto di contentarmi, per sedici anni, di una sera la settimana dedicata agli scacchi e di una partita a biliardo di tanto in tanto. A casa mia, o per meglio dire a casa di mia moglie, per sedici anni ho invidiato quelli che escono la sera senza dire dove vanno, quelli che si vedono passare a braccetto di una bella donna, quelli che prendono un treno e vanno via. Quanto a essere stato un buon padre, non lo credo. Se si afferma che sono un buon padre solo perché invento per loro nuovi giochi, ci si inganna. Mi sono sempre annoiato. Ho continuato a lavorare per abitudine, marito di mia moglie e padre dei miei figli per abitudine, perché non so chi ha deciso che così doveva essere e non altrimenti. E se io, proprio io, avessi deciso altrimenti? Non si può immaginare fino a che punto, una volta presa questa decisione, tutto diventi semplice. Non occorre più occuparsi di quel che pensa il Tale o il Talaltro, di quel che è permesso, di quel che è proibito, dignitoso o meno, corretto o scorretto. Dicono che sono fuggito come un pazzo. Ma possibile che nessuno capisca come prima' qualcosa in me non funzionava? Non sono né pazzo né maniaco! Solo che a quarant'anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convenzioni né delle leggi perché ho scoperto un po' tardi che nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato. Per quarant'anni mi sono annoiato. Per quarant'anni ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare i dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli. Dite pure che sono pazzo, se questo vi fa piacere. I pazzi siete voi, come lo ero io prima di fuggire". Kees Popinga, al termine del romanzo, viene arrestato e chiuso in manicomio. Dove la moglie lo va a trovare regolarmente tutti i primi martedì del mese.


domenica 27 agosto 2023

MANUALE DEGLI INSULTI


 

Budello Budelli

MANUALE DEGLI INSULTI

Sperling & Kupfer

Prima edizione -  1995

brossurato - 70 pagine - lire 5000

 

Si tratta di un opuscolo di piccolo formato, volutamente simlile ai dizionarietti tascabili destinati ai turisti in viaggio all'estero. E infatti, almeno all'apparenza, si tratta proprio di un dizionario: anzi, di un prontuario di formule pronte all'uso simile a quelli Berlitz, che suggeriscono come si dice (e come si pronuncia) la frase giusta in ogni circostanza. Qui, divise per categorie ("Sull'aereoplano", "In albergo", "Al bar") le frasi suggerite sono però non formule di cortesia, ma allucuzioni oltreggiose tali da far sì che il turista italiano possa contumeliare il prossimo di lingua inglese. Turista, beninteso, grezzo e cafone, giacché è noto che gli italiani vanno all'estero apposta per "farsi riconoscere". Esempio: arrivato in albergo, il manuale consiglia al giramondo italiota che cosa dire per lamentarsi del condizionatore troppo rumoroso: "This fan is noiser than Cern atom-smasher in Switzerland". Cioè: "Questo ventilatore fa più rumore di un frantuma-atomi del Cern in Svizzera!". Oppure al bar: "Beer's hot like a cup of broth", "La birra è calda come una tazza di brodo".  C'è anche di peggio, naturalmente, e del resto uno che si firma Budello Budelli non poteva non indulgere nel volgare. Il tutto è comunque divertente, anche perchè le frasi, una dietro l'altra, non sono scollegate per simulare una vasta gamma di situazioni, ma formano una sorta di dialogo dal senso compiuto (dove manca la risposta dell'interlocutore, che è ugualmente chiarissima). L'autore, di cui ci viene detto che vive e lavora a Scandicci, dà al libercolo un gradevole vernacolarità che non può non divertire (nonostante gli evidenti limiti dell'estrema levità dell'iniziativa).

venerdì 25 agosto 2023

L’ESTATE DEI DISCHI VOLANTI

 

 


 

Bepi Vigna
L’ESTATE DEI DISCHI VOLANTI
Condaghes
Collana Il trenino Verde
Prima edizione dicembre 1997
brossurato – 116  pagine -  lire 11.800

Bepi Vigna (Baunei, Nuoro, 1957)  noto sceneggiatore di fumetti (ma anche giornalista, saggista, organizzatore di mostre ed eventi) nel 1997 ha trasfornato in romanzo breve destinato ai ragazzi lo spunto di sua sceneggiatura originariamente scritta per Nathan Never e pubblicata su un Almanacco della Fantascienza. Naturalmente Nathan non c’è e protagonisti sono quattro giovanissimi sardi con il gusto per le camminate in montagna, che un giorno durante un’escursione scoprono le tracce dell’atterraggio di un disco volante, o almeno questo è quel che sembra. Del resto i dischi volanti vengono avvistati anche in paese, e c’è addirittura un rapimento da parte degli alieni. Tuttavia, le apparizioni delle astronavi restano in secondo piano, mentre in evidenza c’è il primo amore fra due degli adolescenti protagonisti, Dario e Vivina, un qualcosa che viene presentato come più magico degli stessi UFO, e in effetti le pulsioni sessuali, al loro primo apparire, sono oggetti non identificati per tutti i giovanissimi. A un certo punto della storia, Dario e Vivina vengono creduti morti in un incendio scoppiato sull’altipiano, appiccato da una coppia di balordi, rimasti essi stessi vittima del loro gesto. Tornano in paese proprio mentre si celebra il loro stesso funerale. Gli alieni spariscono così come sono venuti, dopo aver restituito la vittima rapita. Sparisce anche l’estate e la storia d’amore fra Dario e Vivina, che è stata un’apparizione nel cielo durata il lampo di una stagione, come un cerchio nel grano di difficile decifrazione. Quando i due si rivedranno, molti anni dopo, nulla sarà più come prima. La lettura è molto piacevole e va considerato il target.


venerdì 18 agosto 2023

A CIASCUNO IL SUO

 
 


 
 
Leonardo Sciascia
A CIASCUNO IL SUO
Adelphi
brossurato, 2000
160 pagine, 10 euro


Di fronte a “A ciascuno il suo” (1966) di Leonardo Sciascia (1921-1989) bisogna resistere alla tentazione di considerarlo semplicemente un giallo. Perché in effetti del giallo ha tutti gli elementi: un duplice omicidio, delle indagini, degli indizi, un colpo di scena finale. Però, ci troviamo di fronte anche a un romanzo (un grande romanzo) che va ben al di là dei confini del genere e che, per certi versi, li scardina. Per esempio, i colpevoli la fanno franca. La verità, rivelata al lettore (o più precisamente lasciata intuire), non illumina la scena. Ufficialmente, il caso rimane insoluto e alle due morti da cui prende le mosse l’inchiesta se ne aggiunge una terza, quella dell’unica persona che era arrivata a capire come sono andate le cose, uccisa e sepolta in una zolfara nonostante il suo proposito di non rivelare niente a nessuno. Tuttavia, ed è questo uno dei punti di forza dello sconvolgente finale, nel piccolo e anonimo paese dell’entroterra siciliano in cui si svolgono i fatti, in parecchi, se non tutti, la verità la conoscono benissimo, ma lasciano fare, considerando che, in fin dei conti, a ognuno sia toccato ciò che gli spetta. “Unicuique suum”, a ciascuno il suo, appunto, come recita il motto stampato sotto la testata dell’ “Osservatore Romano”, il quotidiano della Santa Sede, dalle cui pagine sono state ritagliate le lettere che compongono una minaccia di morte fatta giungere tramite lettera anonima al farmacista Manno. Farmacista che viene appunto ucciso durate una battuta di caccia, insieme all’amico dottor Roscio che lo accompagnava. Un professore di storia e di latino, Paolo Laurana, nota la provenienza dei ritagli e si incuriosisce, perché sono pochi, gli vien fatto di pensare, quelli che, in un paese di provincia, hanno a disposizione un giornale così poco diffuso al di fuori degli ambiti ecclesiastici. Laurana comincia a interessarsi al caso e, mettendo insieme un indizio dopo l’altro, giunge a ricostruire i fatti spingendosi ben più in là delle fiacche indagini delle autorità che si arenano subito. Sciascia è abilissimo a ricostruire le atmosfere, descrivere le ambientazioni, dar vita ai personaggi, peraltro lasciando intendere il malaffare, i giochi di potere, il clientelismo, l’omertà, l’abitudine a farsi i fatti propri, senza mai citare apertamente la mafia, che c’è ma non se ne parla, non domina la scena ma permea e infesta il sottofondo di ogni realtà sociale ed economica. Una mafia ancora vecchio stampo (il romanzo è ambientato nel 1964) ma su cui si radica quella che si sarebbe sviluppata successivamente. C'è poi la vivida rappresentazione del piccolo microcosmo della provincia siciliana degli anni Sessanta. Gli incontri del professor Laurana con personaggi memorabili (preti politici, medici in pensione, vedove inconsolabili, falsi amici) sono caratterizzati da dialoghi di straordinaria efficacia, lo stile di Sciascia è apparentemente semplice e godibile ma al tempo stesso elegante, preciso, prezioso nella scelta di ogni parola. Sicuramente un capolavoro. Del giallo, certo, ma anche della letteratura.

giovedì 17 agosto 2023

LA CASA DEI FIAMMINGHI

 

Georges Simenon
LA CASA DEI FIAMMINGHI
Adelphi
Brossura, 1996,
138 pagine, 11 euro

I primi romanzi di Simenon con protagonista Maigret, quelli degli anni Trenta, hanno la caratteristica di spedire il Commissario a indagare in località diverse e distanti da Parigi (dove ha sede il suo ufficio, nel celebre Quai des Orfèvres). Non che non capiti anche in seguito, nel corso della serie, ma sicuramente agli inizi le trasferte erano più frequenti. Nel secondo episodio, l’indagine è ambientata lungo un canale che unisce la Senna alla Marna; nel sesto Maigret va a Concarneau; nel settimo a Guigneville; nell’ottavo in Olanda; il nono a Fecamp; l’undicesimo a Morsang; il tredicesimo a Saint-Fiacre, che è anche il paese natale del poliziotto. Arriviamo così a “La casa dei fiamminghi”, il quattordicesimo titolo, scritto nel 1932, che si svolge a Givet, una piccola località al confine con il Belgio. Simenon, non va dimenticato, era un belga di lingua francese, essendo nato a Liegi nel 1903, da un padre vallone e da una mamma fiamminga: di lei ci siano occupati in queste spazio commentando la “Lettera a mia madre”, composta dallo scrittore qualche tempo dopo la morte di lei, avvenuta nel 1970.

https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/2023/02/lettera-mia-madre.html
 

Recensendo via via parecchi gialli con Maigret, abbiamo ricostruito man mano un po’ tutti gli aspetti e le caratteristiche del personaggio, parlando del suo “metodo” psicologico nel condurre le inchieste così come dell’umanità che lo contraddistingue nonostante i modi talvolta burberi, annotando anche il suo essere una buona forchetta, un gran fumatore di pipa, un bevitore di birra e di Calvados in grado di reggere bene l’alcool, un marito fedele di una moglie devota. Ma, soprattutto, ogni volta si è inevitabilmente ribadita la grande capacità di narratore di Simenon, ipnotico nel catturare il lettore nelle sue storie e il suo straordinario talento nel ricostruire ambienti, intendendo non soltanto strade cittadine, quartieri o appartamenti, ma anche il contesto sociale ed umano in cui il Commissario si trova ad indagare, osservato con partecipazione senza mai sentenziare. Per questo bisogna guardarsi bene dal ritenere i casi di Maigret dei semplici polizieschi. Rimando perciò alle altre recensioni, rintracciabili cercando il nome dello scrittore nella categoria “Autori” del blog “Utili Sputi di Riflessione”.

https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/p/indice-autori.html

Ciò detto, posso serenamente passare a segnalare come, secondo me, “La casa dei fiamminghi” non vada considerato tra i migliori casi di Maigret. Intendiamoci: è un romanzo più che dignitoso, sicuramente di gran lunga più interessante della maggior parte dei gialli in cui ci si imbatte pescando a caso tra le detective stories. Però, il Commissario in trasferta è meno efficace del solito, non sembra seguire un filo preciso nello svolgere la sua inchiesta, resta in attesa degli eventi, si accontenta della soluzione data per buona dagli investigatori locali, lì a Givet dove si trova, pur sapendo che la verità è un’altra. A Givet, del resto, ci è finito a titolo personale, da solo (senza gli uomini della sua squadra), per un motivo un po’ bizzarro (per fare un favore a un amico), quindi si muove lungo l’argine della Mosa in piena facendo domande senza averne l’autorità. Restano vivide e coinvolgenti le descrizioni della località di confine, dei contrabbandieri, della diffidenza dei francesi verso i fiamminghi, i Peeters, che gestiscono una drogheria che serve soprattutto i numerosi battellieri olandesi. I Peeters sono accusati di aver ucciso (e occultato il corpo) di una ragazza messa incinta da uno di loro, vista entrare nella loro casa prima di scomparire, ma naturalmente alla base dei sospetti c’è anche l’invidia per il talento nei commerci dei fiamminghi, considerati ricchi mentre i francesi del luogo sono quai tutti poveri. Il ritratto collettivo dei anti personaggi assomiglia, alla fine, un quadro di Bruegel.

 

mercoledì 16 agosto 2023

L’AVVOCATA DELLE VERTIGINI


 

Piero Meldini
L’AVVOCATA DELLE VERTIGINI
Adelphi
1994, brossurato
128 pagine, 20.000


Un giallo decisamente insolito, questo in cui mi sono imbattuto per caso pescandolo in una bacheca di book crossing. Si tratta del romanzo di esordio in campo narrativo, di Pietro Meldini, riminese (classe 1941), saggista e psicanalista ma anche esperto di iconografia, che con “L’avvocata delle vertigini” vinse il Premio Bagutta come miglior opera prima. In seguito avrebbe scritto altri cinque romanzi (molto più nutriti l’elenco dei suoi saggi, di vario argomenti, partendo da una disamina dei rapporti tra Mussolini e Freud fino a un trattato sulla cucina romagnola). Perché ho cominciato dicendo che si tratta di un giallo decisamente insolito? Perché il protagonista, Vincenzo Dominici, è un agiografo da anni impegnato nella ricerca di documenti riguardanti una (inesistente, nella realtà) Beata Isabetta, protettrice di coloro che soffrono di vertigini, con lo scopo di scriverne una biografia. Le fonti sono, purtroppo per lui, piuttosto rare. Un giorno, però, l’archivista di una biblioteca gli fornisce un testo cinquecentesco, fino a quel momento sconosciuto, da lui trovato nascosto in una miscellanea, con una nota vergata a mano a mo’ di titolo che dice: “Vite Beate Issabecte”. Solo che il documento è illeggibile, perché scritto in codice. La decifrazione del testo finisce per rivelarsi sconvolgente per lo studioso: si tratta di un elenco di profezie riguardati chi lo tradurrà, che culminano con la morte di una donna innocente. Dominici stenta a crederci, ma una per una le profezie si avverano tutte, compresa quella riguardante la vittima senza colpa. Un monsignore bibliofilo, Berlinghieri, e il vescovo del luogo cercano di aiutare il giudice Bosio incaricato delle indagini, mentre l’agiografo pare caduto nel vortice della follia. Ciò che appare incredibile è che la profezia scritta in codice risulta davvero, senza dubbio alcuno, risalente al Cinquecento, e realmente descrive fatti piuttosto insoliti destinati ad accadere secoli dopo. La spiegazione congegnata da Meldini è intrigante e convincente, e vale il tempo speso per arrivarci. La contaminazione fra il giallo, l’arte e i misteri del passato risolti nel presente fa venire in mente “La tavola fiamminga” di Arturo Perez Reverte, che resta però diversi gradini superiore.



domenica 6 agosto 2023

ETERNITY – LA MORTE E' UN DANDY


 



Alessandro Bilotta
Sergio Gerasi
ETERNITY – LA MORTE E' UN DANDY
Sergio Bonelli Editore
2022, cartonato
72 pagine, 17 euro


Essendo del mestiere (faccio lo sceneggiatore di professione), quando leggo un fumetto mi viene istintivamente di pensare una fra queste tre cose, a seconda dei casi: avrei saputo scriverlo anch’io, oppure: io lo avrei scritto meglio, oppure: io non sarei mai riuscito a scriverlo. Probabilmente la terza eventualità è quella che capita più spesso, ma resta il fatto che io a un personaggio come Alceste Santacroce non ci sarei mai arrivato. Di fronte al primo volume della serie “Eternity” l’ho letto una prima volta incredulo tavola dopo tavola, tornando spesso indietro per capire se avevo compreso bene, e alla fine, richiuso il volume, l’ho riaperto e l’ho riletto da capo, rimanendo sbalordito dalla seconda lettura quanto dalla prima. A volte si spreca l’aggettivo “capolavoro” per qualcosa di cui, insomma, ci sarebbe da discutere. Nel caso de “La morte di un dandy”, invece, credo proprio che non si possa fare a meno di usarlo. Il problema è riuscire a spiegarlo e giustificarlo, inserendo, come ogni bravo recensore dovrebbe fare, l’opera in un contesto, in una produzione di qualcosa che gli somigli, in una appartenenza. In questo caso è difficile riuscirci. Forse bisogna partire dalla prefazione di Alessandro Bilotta, il quale non parla dell’opera ma di se stesso e il cui senso è raccontare la propria non appartenenza, a partire da una sindrome dell’abbandono che lo affligge: “Ho cercato a lungo dei maestri, soprattutto nel mio mestiere, una figura che si è andata spesso confondendo con quella del padre, forse rifà capolino l’abbandono; li ho cercati, ma non ne ho trovati, potrebbe c’entrare con quel discorso di non appartenenza. A ogni modo ho dovuto quindi imparare a fare da me e, se all’inizio la consideravo una disgrazia, poi mi sono convinto che chi nella vita ha avuto la fortuna di incontrare dei maestri non ha conosciuto la fortuna di non averne incontrati affatto”. Chi ha letto e amato la serie di Mercurio Loi (personaggio che compare in un paio di tavole anche nel primo volume di “Eternity”) sa che cosa aspettarsi da Bilotta: chiede moltissimo al lettore. Siamo di nuovo a Roma, ma non è più quella papalina, anche se non si capisce in quale epoca ci si trovi: in una scenografia vintage convivono elementi degli anni Sessanta e della contemporaneità, come a volerci dire che certe cose non cambiano mai o che viviamo in un eterno presente (o in un eterno passato). Ci sono i bar con i portacenere della Cinzano, le edicole e i giornali di carta; si dice che sono tornate di moda le TV in bianco e nero; ci sono fumetti e fotoromanzi ma anche gli influencer e le installazioni artistiche, ci sono le testate scandalistiche e i carabinieri con la bandoliera, automobili dalla foggia evergreen impossibili da datare, insegne al neon, tavolini sui marciapiedi, ristoranti in cui si può fumare, ma anche cellulari avveniristici. Soprattutto, ci sono tante feste con la cocaina da fiutare in euro arrotolati. Un mondo fatuo e ipocrita in cui Alceste Santacroce sguazza ma con malcelata noia e ostentato disgusto. E’ un dandy cacciatore di scandali sulle cui cronache mondane si basano le fortune di un settimanale di gossip chiamato “L’infinito”, diretto da Quinto Serafini. Costui in passato aveva fatto l’attore in una serie TV (del “servizio pubblico”) interpretando un certo Don Saturnino, educatore ed esempio della fanciullezza tutta, prima di essere scacciato perché tacciato di omosessualità, cosa di cui ride, avendo comunque una montagna di soldi. Alceste potrebbe forse ricordare il Jep Gambardella di "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, sennonché il personaggio di Bilotta sembra impenetrabile da ogni passione tranne quella per Falco Blu, un eroe dei fumetti di cui ha la collezione completa, l’unica cosa che gli dispiaccia di perdere quando il suo appartamento va a fuoco. Anche quando sembra innamorarsi di Lucrezia, performer e webstar che mostra già però le prime rughe, non esita a violare i segreti del suo cellulare per realizzare un nuovo scoop che porta a far dimettere un ministro. Non che la cosa gli piaccia, lo diverta, lo soddisfi. Pare in preda allo spleen esistenziale, a cui sopravvive chiudendosi in una sorta di atarassia sentimentale, che lo porta a frequentare locali affollatissimi ballando da solo, circondato da piccola gente da cui resta emotivamente lontano. L’imperturbabile Alceste, sigaretta perennemente in bocca o elegantemente tenuta fra le dita, ha l’unica faccia che possa rendere ragione del suo mal di vivere scontato vivendo leggiadro sopra le righe, quella di Jude Law, perfetta nella recitazione resa dallo stupefacente ed elegantissimo Sergio Gerasi, incredibilmente bravo nella ricostruzione di un mondo inesplorato e sincretico efficacemente colorato da Adele Matera, e nel dare mimica agli ipnotici e magistrali dialoghi dell’autodidatta Bilotta.