Francisco Coloane
Guanda
2010, brossura
176 pagine
Una frase di Alvaro Mutis in quarta di copertina dice: "Francisco Coloane è il Jack London dei nostri tempi". Basta leggere il primo racconto di questa antologia per capire he è vero. E letto quello, non si possono poi non leggere tutti gli altri (sono nove in tutto), per arrivare alla fine e convincersene definitivamente. Per "nostri tempi", si intende il Novecento, ovviamente, dato che lo scrittore cileno è vissuto tra il 1910 e il 2002 e il suo primo libro è del 1941. Nella sua bella introduzione, Luis Sepulveda ben spiega la situazione della letteratura cilena (e sudamericana in generale) prima di Coloane, con la maggioranza degli scrittori impegnati a scrivere "grandi romanzi" costruiti su imitazione di quelli della letteratura del Vecchio Continente e tesi a riaffermare le loro radici culturali inconfutabilmente europee.
Coloane invece è nato alla fine del mondo, nella Patagonia cilena, e si sente uomo australe, desideroso di raccontare il suo mondo, fatto di balenieri, di allevatori, di indios, di cercatori d'oro, di palombari e di meticci. Un mondo che lui conosceva bene, essendo stato marinaio ed esploratore, autore di carte nautiche e caposquadra in un ranch. Senza volersi dare nessuna aria di scrittore "impegnato", e dunque limitandosi a narrare storie con pochi fronzoli, ma in grado di arrivare dritte al cuore ed affascinare chiunque, Coloane presenta al pubblico i suoi libri, e il pubblico lo premia così scandalizza i critici, che si chiedono come possa avere successo uno scrittore dallo stile così asciutto, che non fa parte dell' establishment culturale, che propone personaggi tolti di peso dalla realtà di regioni povere, quasi disabitate, selvagge, dove la forza della natura supera di gran lunga quella degli uomini, dove non ci sono città ma solo accozzaglie di baracche. Una terra, quella di Coloane (nato nell'arcipelago di Chiloè) , dove il mare prendi a pugni le scogliere e il vento spazza l'erba delle grandi praterie fino a limitare di montagne altissime che sembrano scolpite con l'accetta, dove gli scogli aguzzi come denti recano i segni dei quotidiani naufragi, dove la neve restituisce a primavera i corpi degli scomparsi durante l'inverno, dove gli uomini a cavallo girano armati come i cowboy dell'Arizona ma non ci sono sceriffi a dare la caccia ai banditi. Non c'è accademismo, nel linguaggio di Coloane, e se ci fosse, sarebbe fuori luogo. "Nei miei racconti ho voluto esprimere l'anima dell'uomo cileno, soprattutto quello di Chiloè o della regione magellanea, confinato tra i mari, i golfi, le cordigliere frastagliate e i ghiacciai millenari del Sud, circondato dall'oceano più burrascoso del pianeta. In questo scenario grandioso vive un uomo debole quanto la brezza, e nello stesso tempo forte come il vento dell'Est". Non soltanto di atmosfere e di scenari sono fatti i racconti di Coloane, ma anche di personaggi e di trame intriganti. Talvolta, assolutamente western, come il primo della raccolta, che le dà il titolo "Terra del Fuoco". Basta leggerne l'inizio: "La sconfitta cavalcava al fianco di quei tre uomini che attraversavano il Pàramo al trotto veloce. L'ultimo scontro a fuoco con le forze di Julio Popper aveva avuto luogo sulle sponde del Rio Beta, e i nemici del cercatore d'oro arricchito, una settantina di avventurieri, erano ormai allo sbando". Sembra di vedere una scena di un film di John Ford.