lunedì 24 febbraio 2025
SUPPLEMENTO AL DIZIONARIO ITALIANO
venerdì 31 maggio 2024
STUDIO ITALIA
STUDIO ITALIA
Helvetia Editrice
2023, brossura
128 pagine, 11 euro
A volte capita di imbattersi in certi libri assolutamente per caso e affacciarsi, grazie a essi, su mondi o universi sconosciuti. E’ successo a me con “Studio Italia”, che mi è finito per le mani senza averlo cercato, che ho cominciato a leggere con perplessità ma che alla fine si è rivelato in grado di solleticare interesse e curiosità. L’autore, Piersandro Pallavicini (professore ordinario di chimica all’Università di Pavia, scrittore e critico letterario, commediografo), è nato come me nel 1962 e di sé scrive: “Ero il secchione perfetto: adoravo stare in laboratorio, leggevo solo fumetti e romanzi di fantascienza, ascoltavo musica fuori moda”. Poi, assecondato anche dalla compagna Manola, scopre le frange più avanzate dell’arte contemporanea e ne rimane folgorato. Ecco, arrivato a questo punto, leggendo una lista di nomi a me sconosciuti (lo confesso a mio disdoro) di artisti, riviste, correnti, scuole, gallerie avrei potuto battere in ritirata e non proseguire la lettura. Invece, ho continuato: perché Pallavicini è gradevole da leggere e non si inoltra in dotte disquisizioni (aliene ai profani) sull’interpretazione, le dinamiche o l’esegesi della produzione artistica d’avanguardia, terreno su cui probabilmente non avrei potuto seguirlo senza prima aver percorso un training di avvicinamento, ma racconta la sua personale esperienza di collezionista. E quindi batte un terreno di cui percepisco il fascino, essendo da sempre raccoglitore seriale di albi a fumetti e tavole originali, libri e dischi. Soprattutto Pallavicini descrive una pratica che trova una certa corrispondenza anche nell’universo parallelo dei fumettisti: lo “studio visit”. Cioè la pratica, descritta come comune tra appassionati e collezionisti di arte contemporanea, di andare a trovare l’artista dove lavora. Quindi conoscerlo di persona, vederlo mentre crea le opere, discutere delle sue tecniche e delle sue quotazioni, ma anche bere con lui un bicchiere di vino, scambiare opinioni sull’arte e sul mondo. Pallavicini racconta nove incontri ravvicinati con altrettanti artisti (Velasco Vitali, Federico Lombardo, Adelisa Selimbasic, Iva Lulashi, Giovanni Frangi, Daniele Galliano, Luca Pignatelli, Laura Paperina, Valentina D’Amaro), presentandoli come persone prima che come autori e descrivendo i loro laboratori o atelier. Non sempre la visita si conclude con l’acquisto di un dipinto o di un disegno, che spesso hanno prezzi fuori portata, tuttavia viene spiegata la dinamica delle gallerie a cui le opere vengono affidate, il metodo con cui si quotano, le tecniche per concludere buoni affari al di fuori dei circuiti ufficiali (su eBay, per esempio). Traspare dal racconto la gioia successiva a ogni acquisizione, con il collezionista che rimira il pezzo di cui è entrato in possesso, oppure il desiderio irresistibile di dare la caccia a un autore che sembra irraggiungibile. Ecco, sensazioni che, nel mio piccolo e in tutt’altro ambito, conosco bene anch’io.
domenica 7 gennaio 2024
LA TAVOLA FIAMMINGA
Arturo Pérez-Reverte
LA TAVOLA FIAMMINGA
Bompiani
Brossurato, 1999
320 pagine - lire 26.000
Grande scrittore, Pérez-Reverte (1951), fin dagli esordi. “La tavola fiamminga” è del 1990, terza opera narrativa dopo “L’ussaro” (1986) e “Il maestro di scherma” (1988). Abilissimo nelle ricostruzioni storiche (di grande successo il ciclo del suo “Capitan Alatriste”), l’autore spagnolo eccelle anche nel giallo. Lo dimostra appunto in questa sua opera in cui le indagini per scoprire un assassino costituiscono l'asse portante e assolutamente dominante della narrazione. Tuttavia, per quanto la storia di detection costituisca l'oggetto del romanzo, non si tratta di un giallo tradizionale. Del resto, a posteriori, è facile capire che non avrebbe potuto esserlo: Pérez-Reverte è un autore con una propria cifra stilistica personale e inconfondibile, e le sue trame poggiano sempre su una robusta documentazione e su una straordinaria cultura, quasi una erudizione, per rimanda continuamente al passato, alla letteratura, alla musica, alla pittura. Se nel "Club Dumas" al centro del romanzo ci sono i libri antichi, qui c'è una tavola dipinta alla fine del Quattrocento da un pittore fiammingo, Pieter Van Huys, raffigurante due giocatori di scacchi e una dama in nero che li osserva dallo sfondo. Julia, la restauratrice chiamata a intervenire sul quadro in vista di un'asta miliardaria scopre che lo stesso pittore, cinquecento anni prima, aveva celato sotto i colori una scritta: "Quis necavit equitem", e cioè: chi ha ucciso il cavaliere? Ricostruendo la storia del quadro e identificando le figure, storiche, che vi compaiono, Julia appura che uno dei due personaggi maschili era morto da poco quando la tavola fu dipinta, ucciso misteriosamente per colpa di una congiura di palazzo. Poiché la vittima fu amico del pittore, è chiaro che Van Huys volle indicare chi lo aveva ucciso proprio utilizzando il quadro. Un vecchio amico di Julia, un antiquario omosessuale di nome Cesar, ritiene che la soluzione dell'enigma sua nella scacchiera che compare nel dipinto, e mette la ragazza in contatto con Munoz, esperto scacchista. Costui, sia pure con qualche difficoltà, ricostruisce la partita che si sta giocando nel quadro e scopre chi é che ha "mangiato" l'unico cavallo, quello bianco, che manca nella scacchiera raffigurata. Si scopre chi è stato giocando la partita a ritroso e si giunge alla soluzione del giallo di cinque secoli prima. Però, intanto, qualcuno interessato al quadro uccide anche nel presente, attorno a Julia, e ben presto è chiaro che è qualcuno che continua a identificarsi con colui che "mangia" personaggi facilmente identificabili con altri pezzi, come Menchu Roch, attempata ninfomane gallerista, amica di Julia, il cui cognome significa appunto "Torre”. Molto cerebrale la spiegazione del perché e del percome, al pari della descrizione delle mosse degli scacchi, fatte con il corredo di schemi illustrati, e l'illustrazione della filosofia sottile della partita che si sta giocando. Tutto assolutamente intrigante.
venerdì 5 marzo 2021
LETTERE DALLA FINE DEL MONDO
Giorgio Vallortigara
LETTERE DALLA FINE DEL MONDO
La nave di Teseo
2021, brossurato
288 pagine, 18 euro
Scrive Massimiliano Parente a pagina 250: "Se questo nostro epistolario diventerà un libro, mi aspetto già le critiche che gli saranno mosse, perché a recensirlo saranno comunque persone credenti, letterati credenti, scienziati non credenti ma che non vogliono offendere le credenze, e comunque irreparabilmente ottimisti, oppure ruffiani. Tu te la caverai, perché hai un linguaggio gentile che sembra (sembra!) lasciare delle aperture, io no, perché non ho mezzi termini, e dunque sarò definito, come sempre, nichilista, materialista, eccetera, tutte queste belle invenzioni degli spiritualisti (sebbene non abbia mai visto uno spiritualista dire le sue idee spiritualiste facendo a meno della materia del suo cervello)". E in effetti è così: benché entrambi (uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore) siano su posizioni simili riguardo al trascendente (Vallortigara è autore anche di un saggio, "Nati per credere", in cui si studiano i meccanismi biologici della fede), il modo di porsi e proporsi dei due è differente. Parente è sempre lo straordinario e irrefrenabile polemista di "Scemocrazia" (ne ho parlato qui http://utilisputidiriflessione.blogspot.com/.../scemocraz...), vittima di un pessimismo cosmico che gli fa sembrare (come dargli torto, del resto?) senza senso l'esistenza umana e il cosmo intero, senza possibilità di appello, e assurdi, se non grotteschi, i peana in onore della vita, da lui intesa come nient'altro che un divenire casuale privo di scopo. Vallortigara, senza cercare di dare alla realtà un senso che non ha, gioca però a fare l'antropologo nel villaggio degli indigeni. Scrive: "Una volta si diceva: o fai l'antropologo o fai il missionario. Se aderisci ai riti della tribù, le credenze le puoi studiare dall'interno (e aderire ai riti non significa riconoscercisi), e questo è il lavoro dello scienziato. Diverso è fare il missionario, il quale le credenze della tribù aspira a cambiarle. Non sono interessato a fare il missionario. Questione di gusti. Mi interessa, e molto, capire perché le persone credono quello che credono, ma non sento alcuna spinta a modificarne le credenze". Vallortigara non crede che la vita abbia un senso a priori, ma che glielo diamo noi perpetuandola. Il senso della vita è viverla. Il dibattito fra i due è vivace e talvolta elettrizzante, con continue citazioni letterarie e rimandi a esperimenti di studiosi riguardanti le convenzioni sociali e le credenze più diffuse (rapporti tra i sessi, atteggiamenti antiscientifici, la morte, l'amore, la bellezza, l'arte), spiegate su basi biologiche. Parente rifiuta di datare le sue lettere con il calendario che conta gli anni dalla nascita di Cristo e lo da dal 1859, anno della pubblicazione de "L'origine della specie" di Charles Darwin, e quindi il 2020 AD diventa il 161 DD. Del resto, come dice Richard Dawkings, più volte citato, di fronte alle eterne domande "chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?" bisognerebbe eliminare tutte le rispose date prima di Darwin. Una lettura stimolante, che invita a leggere la ricca bibliografia a cui rimandano le note.
sabato 24 ottobre 2020
MICHELANGELO BUONARROTI
MICHELANGELO BUONARROTI
Edizioni Paoline
brossurato, 1959
190 pagine, 780 lire
Di solito sono di bocca buona e i libri che recensisco mi piacciono quasi tutti, in toto o in buona parte. Mi è difficile, però, dire alcunché di positivo in questa scalcagnata biografia di Michelangelo Buonarroti. Già dalle prime righe è facile intuire che non è proprio il rigore accademico a sostenere il testo. Descrivendo l'infanzia dell'artista, l'autore esordisce così: "Appena mosse i primi passi, il bamberottolo sgambettava per l'aia. Talora si divertiva con gli anitroccoli e con le tortorelle. Il pacchierotto cresceva robusto e vispo da sembrare il moto perpetuo". Bamberottolo? Pacchierotto? Anitroccoli e tortorelle? Dopodiché si procede per aneddoti da spigolature della Settimana Enigmistica. Si sottolinea ogni tre per due l'estrema religiosità di Michelangelo e lo si raffigura come il più devoto dei devoti, tutto teso verso l'estasi mistica. Che il Buonarroti sia stato credente, non ci sono dubbi, ma la sua fu una fede tormentata. Di questo non si rende conto. A chi contestava la giovinezza della Vergine della Pietà, apparentemente di minor età del Cristo suo figlio, secondo il biografo Michelangelo avrebbe obiettato che dipendeva dalla sua castità, perché le caste si conservano giovani più a lungo delle non caste. L'interpretazione di qualsiasi opera d'arte viene volta in modo da risultare edificante. Parlando delle rime amorose si precisa che sono rivolte verso Vittoria Colonna, verso cui il Buonarroti avrebbe provato, beninteso, solo "amore platonico"; non tenta neppure accennando una interpretazione omosessuale di quel versi, in realtà indirizzati ad almeno un paio di intimi amici - e molto espliciti. Il colmo lo si raggiunge quando, accennando a un dipinto giudicato "indecente", raffigurante Leda, si sottolinea come "andò perduto". "Ecco il destino di certe opere non eseguite secondo le leggi della morale cattolica: esse cadono, o presto o tardi, tra le mani di chi, per coscienza e provvidenzialmente le distrugge affinché non facciano del male": questo il commento del Pilla. Pilla che si dilunga sull'arte di Michelangelo, giustamente esaltandolo sia come pittore, che come scultore, che come architetto, che come poeta, ma che sbarella clamorosamente quando deve trattare di storia e di politica. Michelangelo, ad esempio, da fiorentino qual era, fu un repubblicano o un filo mediceo? Ah, saperlo. A un certo punto, decidendo di non poter tacere almeno del contributo dato dall'artista alla difesa di Firenze durante l'assedio del 1529-1530, quando progettò le fortificazioni della città, il Pilla spiega che i Medici tornarono al potere a causa del tradimento di Malatesta Baglioni (mercenario perugino incaricato della difesa delle mura urbane) segretamente accordatosi con il papa Leone X in favore della restaurazione medicea. Ma assolutamente no! Leone X fu sì, un papa dei Medici, ma morì nel 1521. Ai tempi dell'assedio a cui partecipò Michelangelo era papa Clemente VII, altro pontefice mediceo, ma siamo una decina d'anni dopo. Ovviamente, il Pilla nulla dice della poco onorevole fuga del Buonarroti quando la situazione si fece critica, neppure per elogiare il suo ritorno dopo l'ultimatum dei fiorentini che, se non fosse rientrato, gli avrebbero confiscato i beni. Leggendo svarioni simili vien da dubitare di tutto. Quasi certamente Eugenio Pilla doveva essere un prete o comunque un religioso (D. Eugenio Pilla, viene indicato) e il fatto che la biografia sia edita dai Paolini serve forse a giustificare in minima parte la "faziosità" confessionale del testo. Ma di sicuro ci sono studiosi e biografi in abito talare che licenziano testi di assoluto rigore. Ecco, diciamo che l'autore non è fra questi.
venerdì 10 maggio 2019
GUSTAV KLIMT
venerdì 22 febbraio 2019
FREDERIC REMINGTON
Sofia Craze
FREDERIC REMINGTON
Crescent Books
Edizione originale USA 1989
cartonato - 112 pagine
Che belli questi libri di grande formato (27 x 37 cm), quando si tratta di riprodurre quadri di straordinaria potenza espressiva come quelli di Frederic Remington! La magia dei dipinti di Remington, tutti o quasi oli su tela raffiguranti scene western, consiste principalmente nel fatto che ciascuno di essi racconta una storia, ed è una storia avvincente, intrigante, piena di risvolti e di emozioni. Non per sminuire i pittori figurativi che si dilettano in nature morte o in paesaggi bucolici, ma vedendo un quadro “Frends or Enemy”, del 1890, dove uno scout indiano a cavallo nella neve vede da lontano i fuochi di un accampamento e aguzza gli occhi per scoprire se si tratti di amici o nemici… beh, siamo davvero in un altro mondo. Nato il 4 ottobre 1861 a Canton, nello stato di New York, Remington cominciò a dipingere il West nel 1882. Il volume raccoglie 67 tavole a colori di altrettanti eccezionali opere a olio, e 25 illustrazioni in bianco e nero fra cui fotografie d’epoca del pittore e di alcune sue stupefacenti sculture, sempre aventi per soggetto i cavalli, gli indiani, i soldati e i cowboys. Scene militari, vita tra i cavalli e le mandrie (stupendo “The Stampede”, del 1908), raffigurazioni di indiani, questi i temi preferiti da Remington, che come pittore è assai più maturo di George Catlin, che ebbe il vantaggio di essere un precursore ma fu di certo meno dotato. Vale la pena di tracciare, per come la so, una breve cronistoria dei pittori del West, appunto da Catlin a Remington.
Quella degli artisti del pennello ispirati dagli scenari western, intendendo tutti quelli a Ovest del Mississippi, a partire dall’acquisto della Louisiana dalla Francia, da parte degli Stati Uniti, nel 1803, fu una vera e propria scuola, ricca di talenti. La necessità di conoscere ed esplorare gli immensi territori da poco acquisiti, che avevano più che raddoppiato il territorio federale, suggerì al governo di Washington di inviare numerose spedizioni con il compito di cartografare le nuove regioni e mappare la dislocazione delle tribù indigene. Al seguito di queste missioni si unirono artisti invitati a raffigurare in schizzi a matita o con acquarelli i paesaggi, la fauna, la flora e i villaggi delle popolazioni locali. Questi disegni fornirono le prime informazioni iconografiche sulle terre ancora sconosciute che si offrivano alla colonizzazione bianca, ed esaltarono l’immaginazione degli americani delle città dell’Est. Ben presto altri artisti cominciarono a viaggiare per proprio conto diretti verso occidente, obbedendo a un desiderio personale oppure spronati da committenti che chiedevano quadri con gli scenari grandiosi delle Grandi Praterie, le Montagne Rocciose o i canyon e le mese del Sud Ovest.
I primi ritratti di pellerossa realizzati dal vivo da un pittore, che poi li espose nelle Gallerie d’Arte di grandi metropoli come New York, Londra e Parigi, furono quelli di George Catlin. Nato in Pennsylvania nel 1796, dopo aver esercitato per breve tempo la professione di avvocato, Catlin si dedicò alla pittura e, nel 1830, si trasferì a St. Louis, nell’attuale Missouri. In questa città ebbe la ventura di conoscere proprio William Clark, che vi si era stabilito al termine delle sue avventurose esplorazioni che lo avevano reso amico di numerosi pellerossa. Erano infatti tanti gli indiani che venivano e fargli visita e Catlin, vedendoli, ne fu affascinato al punto da chiedere loro di posare per dei ritratti. Nel 1832, il pittore volle intraprendere un viaggio nelle terre dei nativi, soprattutto in direzione delle Grandi Praterie. Raggiunse dunque Fort Union, che oggi è nel North Dakota, e lì ebbe l’occasione di dipingere guerrieri e squaw dei Piedi Neri, degli Assiniboin, dei Cree e dei Crow, le cui tribù erano stanziate attorno al Forte. Quindi, proseguendo il viaggio, Catlin raggiunse i Mandan e si fermò a lungo nel loro villaggio, al punto da poter dipingere e annotare ogni aspetto della loro vita sociale. Fu il primo bianco ad assistere alla cerimonia della Danza del Sole, un rituale di purificazione che prevedeva il digiuno e l’autoflagellazione per invocare le divinità ed entrare in contatto con loro. Nel 1833, a Pittsburg vennero esposti in una mostra i primi quadri del pittore raffiguranti capi indiani e scene di vita nei loro villaggi. Da quel momento la fama di Catlin crebbe in America e anche in Europa, si intensificarono i suoi viaggi e si moltiplicarono le sue mostre.
Karl Bodmer (1809-1893), artista svizzero, e Alfred Jacob Miller (1810-1874), nativo invece di Baltimora, si ispirarono all’opera di Catlin e, come lui, si occuparono principalmente di raffigurare pellerossa. La loro visione dei nativi fu sostanzialmente romantica: gli indiani vivevano in un paesaggio incontaminato, cacciavano i bisonti, si facevano guerra tra loro ignorando la minaccia degli uomini bianchi e trascorrevano il tempo in uno scenario bucolico in cui nulla lasciava presagire il dramma della decimazione e della deportazione nelle riserve.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le cose cominciarono a cambiare. Nelle opere di pittori come Seth Eastman (1808-1875), William Ranney (1813-1857). Charles Deas (1818-1867) e Carl Wimar (1828-1862) le tribù dei nativi attaccano le carovane, scalpano i trappers e combattono con i soldati dell’esercito. Il sentimentalismo precedente lascia il posto alla cronaca storica e, per certi versi, alla “celebrazione” del “progresso” portato dall’avanzare della Civiltà nelle terre di frontiera.
Ma i pittori che più molti altri seppero raccontare, con straordinaria efficacia e modernità, la conquista del West (al punto di essere ancora oggi attualissimi), furono Frederic Remington (1861-1909) e Charles Marlon Russell (1864-1926). Nato nel nord dello stato di New York il primo, originario di Saint Louis il secondo, rifiutarono entrambi l’idea che l’arte dovesse “celebrare” qualcosa, e trovavano discutibile la retorica propagandistica del “destino manifesto” dell’uomo bianco chiamato a portare la fiaccola della verità nelle tenebre dell’errore. Così, ciascuno alla propria maniera e percorrendo strade diverse, si sforzarono (riuscendoci benissimo) di mostrare la realtà nuda e cruda, in opere in grado di suscitare contrastanti sentimenti da punti di vista differenti, perché la verità non è una sola ma è sfaccettata. Il West di Remington e Russell è vivo, emozionale, e se raffigura uno scontro fra un bianco e un indiano non prende posizione, lasciando allo spettatore il compito di giudicare da che parte stare.
sabato 16 dicembre 2017
COCO' DELL'ARTE IL DESIDERIO
sabato 21 gennaio 2017
MAI 'NA GIOIA
venerdì 5 agosto 2016
AVVICINATEVI ALLA BELLEZZA
AVVICINATEVI ALLA BELLEZZA
di Giovanni Capecchi
Maria Cristina Masdea
Valerio Tesi e Grazia Tucci
Giorgio Tesi Editrice
2015, brossurato
150 pagine)