Visualizzazione post con etichetta arte. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta arte. Mostra tutti i post

lunedì 24 febbraio 2025

SUPPLEMENTO AL DIZIONARIO ITALIANO

 

Bruno Munari
SUPPLEMENTO AL DIZIONARIO ITALIANO
Corraini Editore
2024, brossurato
120 pagine
 
 
Senza questo supplemento, il vostro dizionario di italiano è incompleto. Come tutti sanno, infatti, gli italiani non si esprimono soltanto con le parole ma anche (a volte soprattutto) con le mani, con l'espressione degli occhi o del volto, talora con l'atteggiamento di tutto il corpo. Bruno Munari (1907-1998), che pubblicò questo aureo libretto per la prima volta nel 1963, sottolinea per esempio che la risposta "no" assume diversi significati se si alzano le sopracciglia, se si pronuncia guardando da un'altra parte, se si sporge il labbro inferiore, se si rivolge verso un oggetto la mano aperta, eccetera. Un primo catalogo di gesti fu pubblicato a Napoli nel 1832 dal canonico Andrea de Jorio, con il titolo "La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano" (maestri in materia, infatti, i partenopei). Si trattava di un tomo di 380 pagine di testo con sole 19 illustrazioni. Munari, centotrentuno anni dopo, può avvalersi di una cinquantina di fotografie per definire una selezione (minima e indispensabile) di altrettante pose del corpo e delle mani, scartando quelle oscene e volgari.  Ogni foto è corredata da una breve descrizione tradotta in quattro lingue, a uso e consumo di visitatori stranieri. 
Qualche esempio delle voci (cercate di immaginare come tradurreste voi con la mimica): "E' un dritto", "Io non so niente", "Silenzio",  "Non me ne importa",  "Pieno di gente", "Minaccia", "Rabbia", "Se l'intendono". 
Non si può non annotare come il "Supplemento al dizionario italiano" sia soltanto uno dei libri geniali, insoliti, creativi di Bruno Munari, come i "Libri illeggibili" (in cui le parole spariscono per lasciare spazio alla fantasia) o quelli "tattili". Artista poliedrico nato come pittore futurista Munari è poi diventato fucina di idee e di forme diverse di espressione, dai lavori di grafica alle installazioni delle “macchine inutili”.  C’è lui dietro la grafica di collane di libri che ho frequentato nelle mie letture, ma sarebbe lunghissimo esaminarne la sterminata prodzione artistica, letteraria, saggistica, fotografica, di design. 
 
 
 

venerdì 31 maggio 2024

STUDIO ITALIA

 

 
Piersandro Pallavicini
STUDIO ITALIA
Helvetia Editrice
2023, brossura
128 pagine, 11 euro

A volte capita di imbattersi in certi libri assolutamente per caso e affacciarsi, grazie a essi, su mondi o universi sconosciuti. E’ successo a me con “Studio Italia”, che mi è finito per le mani senza averlo cercato, che ho cominciato a leggere con perplessità ma che alla fine si è rivelato in grado di solleticare interesse e curiosità. L’autore, Piersandro Pallavicini (professore ordinario di chimica all’Università di Pavia, scrittore e critico letterario, commediografo), è nato come me nel 1962 e di sé scrive: “Ero il secchione perfetto: adoravo stare in laboratorio, leggevo solo fumetti e romanzi di fantascienza, ascoltavo musica fuori moda”. Poi, assecondato anche dalla compagna Manola, scopre le frange più avanzate dell’arte contemporanea e ne rimane folgorato. Ecco, arrivato a questo punto, leggendo una lista di nomi a me sconosciuti (lo confesso a mio disdoro) di artisti, riviste, correnti, scuole, gallerie avrei potuto battere in ritirata e non proseguire la lettura. Invece, ho continuato: perché Pallavicini è gradevole da leggere e non si inoltra in dotte disquisizioni (aliene ai profani) sull’interpretazione, le dinamiche o l’esegesi della produzione artistica d’avanguardia, terreno su cui probabilmente non avrei potuto seguirlo senza prima aver percorso un training di avvicinamento, ma racconta la sua personale esperienza di collezionista. E quindi batte un terreno di cui percepisco il fascino, essendo da sempre raccoglitore seriale di albi a fumetti e tavole originali, libri e dischi. Soprattutto Pallavicini descrive una pratica che trova una certa corrispondenza anche nell’universo parallelo dei fumettisti: lo “studio visit”. Cioè la pratica, descritta come comune tra appassionati e collezionisti di arte contemporanea, di andare a trovare l’artista dove lavora. Quindi conoscerlo di persona, vederlo mentre crea le opere, discutere delle sue tecniche e delle sue quotazioni, ma anche bere con lui un bicchiere di vino, scambiare opinioni sull’arte e sul mondo. Pallavicini racconta nove incontri ravvicinati con altrettanti artisti (Velasco Vitali, Federico Lombardo, Adelisa Selimbasic, Iva Lulashi, Giovanni Frangi, Daniele Galliano, Luca Pignatelli, Laura Paperina, Valentina D’Amaro), presentandoli come persone prima che come autori e descrivendo i loro laboratori o atelier. Non sempre la visita si conclude con l’acquisto di un dipinto o di un disegno, che spesso hanno prezzi fuori portata, tuttavia viene spiegata la dinamica delle gallerie a cui le opere vengono affidate, il metodo con cui si quotano, le tecniche per concludere buoni affari al di fuori dei circuiti ufficiali (su eBay, per esempio). Traspare dal racconto la gioia successiva a ogni acquisizione, con il collezionista che rimira il pezzo di cui è entrato in possesso, oppure il desiderio irresistibile di dare la caccia a un autore che sembra irraggiungibile. Ecco, sensazioni che, nel mio piccolo e in tutt’altro ambito, conosco bene anch’io.

domenica 7 gennaio 2024

LA TAVOLA FIAMMINGA

 


 

Arturo Pérez-Reverte

LA TAVOLA FIAMMINGA

Bompiani

Brossurato, 1999

320 pagine -  lire 26.000

 

Grande scrittore, Pérez-Reverte (1951), fin dagli esordi. “La tavola fiamminga” è del 1990, terza opera narrativa dopo “L’ussaro” (1986) e “Il maestro di scherma” (1988). Abilissimo nelle ricostruzioni storiche (di grande successo il ciclo del suo “Capitan Alatriste”), l’autore spagnolo eccelle anche nel giallo. Lo dimostra appunto in questa sua opera in cui le indagini per scoprire un assassino costituiscono l'asse portante e assolutamente dominante della narrazione. Tuttavia, per quanto la storia di detection costituisca l'oggetto del romanzo, non si tratta di un giallo tradizionale. Del resto, a posteriori, è facile capire che non avrebbe potuto esserlo: Pérez-Reverte è un autore con una propria cifra stilistica personale e inconfondibile, e le sue trame poggiano sempre su una robusta documentazione e su una straordinaria cultura, quasi una erudizione, per rimanda continuamente al passato, alla letteratura, alla musica, alla pittura. Se nel "Club Dumas" al centro del romanzo ci sono i libri antichi, qui c'è una tavola dipinta alla fine del Quattrocento da un pittore fiammingo, Pieter Van Huys, raffigurante due giocatori di scacchi e una dama in nero che li osserva dallo sfondo. Julia, la restauratrice chiamata a intervenire sul quadro in vista di un'asta miliardaria scopre che lo stesso pittore, cinquecento anni prima, aveva celato sotto i colori una scritta: "Quis necavit equitem", e cioè: chi ha ucciso il cavaliere? Ricostruendo la storia del quadro e identificando le figure, storiche, che vi compaiono, Julia appura che uno dei due personaggi maschili era morto da poco quando la tavola fu dipinta, ucciso misteriosamente per colpa di una congiura di palazzo. Poiché la vittima fu amico del pittore, è chiaro che Van Huys volle indicare chi lo aveva ucciso proprio utilizzando il quadro. Un vecchio amico di Julia, un antiquario omosessuale di nome Cesar, ritiene che la soluzione dell'enigma sua nella scacchiera che compare nel dipinto, e mette la ragazza in contatto con Munoz, esperto scacchista. Costui, sia pure con qualche difficoltà, ricostruisce la partita che si sta giocando nel quadro e scopre chi é che ha "mangiato" l'unico cavallo, quello bianco, che manca nella scacchiera raffigurata. Si scopre chi è stato giocando la partita a ritroso e si giunge alla soluzione del giallo di cinque secoli prima. Però, intanto, qualcuno interessato al quadro uccide anche nel presente, attorno a Julia, e ben presto è chiaro che è qualcuno che continua a identificarsi con colui che "mangia" personaggi facilmente identificabili con altri pezzi, come Menchu Roch, attempata ninfomane gallerista, amica di Julia, il cui cognome significa appunto "Torre”. Molto cerebrale la spiegazione del perché e del percome, al pari della descrizione delle mosse degli scacchi, fatte con il corredo di schemi illustrati, e l'illustrazione della filosofia sottile della partita che si sta giocando. Tutto assolutamente intrigante.

venerdì 5 marzo 2021

LETTERE DALLA FINE DEL MONDO


 
 
Massimiliano Parente
Giorgio Vallortigara
LETTERE DALLA FINE DEL MONDO
La nave di Teseo
2021, brossurato
288 pagine, 18 euro

Scrive Massimiliano Parente a pagina 250: "Se questo nostro epistolario diventerà un libro, mi aspetto già le critiche che gli saranno mosse, perché a recensirlo saranno comunque persone credenti, letterati credenti, scienziati non credenti ma che non vogliono offendere le credenze, e comunque irreparabilmente ottimisti, oppure ruffiani. Tu te la caverai, perché hai un linguaggio gentile che sembra (sembra!) lasciare delle aperture, io no, perché non ho mezzi termini, e dunque sarò definito, come sempre, nichilista, materialista, eccetera, tutte queste belle invenzioni degli spiritualisti (sebbene non abbia mai visto uno spiritualista dire le sue idee spiritualiste facendo a meno della materia del suo cervello)". E in effetti è così: benché entrambi (uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore) siano su posizioni simili riguardo al trascendente (Vallortigara è autore anche di un saggio, "Nati per credere", in cui si studiano i meccanismi biologici della fede), il modo di porsi e proporsi dei due è differente. Parente è sempre lo straordinario e irrefrenabile polemista di "Scemocrazia" (ne ho parlato qui http://utilisputidiriflessione.blogspot.com/.../scemocraz...), vittima di un pessimismo cosmico che gli fa sembrare (come dargli torto, del resto?) senza senso l'esistenza umana e il cosmo intero, senza possibilità di appello, e assurdi, se non grotteschi, i peana in onore della vita, da lui intesa come nient'altro che un divenire casuale privo di scopo. Vallortigara, senza cercare di dare alla realtà un senso che non ha, gioca però a fare l'antropologo nel villaggio degli indigeni. Scrive: "Una volta si diceva: o fai l'antropologo o fai il missionario. Se aderisci ai riti della tribù, le credenze le puoi studiare dall'interno (e aderire ai riti non significa riconoscercisi), e questo è il lavoro dello scienziato. Diverso è fare il missionario, il quale le credenze della tribù aspira a cambiarle. Non sono interessato a fare il missionario. Questione di gusti. Mi interessa, e molto, capire perché le persone credono quello che credono, ma non sento alcuna spinta a modificarne le credenze". Vallortigara non crede che la vita abbia un senso a priori, ma che glielo diamo noi perpetuandola. Il senso della vita è viverla. Il dibattito fra i due è vivace e talvolta elettrizzante, con continue citazioni letterarie e rimandi a esperimenti di studiosi riguardanti le convenzioni sociali e le credenze più diffuse (rapporti tra i sessi, atteggiamenti antiscientifici, la morte, l'amore, la bellezza, l'arte), spiegate su basi biologiche. Parente rifiuta di datare le sue lettere con il calendario che conta gli anni dalla nascita di Cristo e lo da dal 1859, anno della pubblicazione de "L'origine della specie" di Charles Darwin, e quindi il 2020 AD diventa il 161 DD. Del resto, come dice Richard Dawkings, più volte citato, di fronte alle eterne domande "chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?" bisognerebbe eliminare tutte le rispose date prima di Darwin. Una lettura stimolante, che invita a leggere la ricca bibliografia a cui rimandano le note.

sabato 24 ottobre 2020

MICHELANGELO BUONARROTI

 


 

Eugenio Pilla
MICHELANGELO BUONARROTI
Edizioni Paoline
brossurato, 1959
190 pagine, 780 lire

Di solito sono di bocca buona e i libri che recensisco mi piacciono quasi tutti, in toto o in buona parte. Mi è difficile, però, dire alcunché di positivo in questa scalcagnata biografia di Michelangelo Buonarroti. Già dalle prime righe è facile intuire che non è proprio il rigore accademico a sostenere il testo. Descrivendo l'infanzia dell'artista, l'autore esordisce così: "Appena mosse i primi passi, il bamberottolo sgambettava per l'aia. Talora si divertiva con gli anitroccoli e con le tortorelle. Il pacchierotto cresceva robusto e vispo da sembrare il moto perpetuo". Bamberottolo? Pacchierotto? Anitroccoli e tortorelle? Dopodiché si procede per aneddoti da spigolature della Settimana Enigmistica. Si sottolinea ogni tre per due l'estrema religiosità di Michelangelo e lo si raffigura come il più devoto dei devoti, tutto teso verso l'estasi mistica. Che il Buonarroti sia stato credente, non ci sono dubbi, ma la sua fu una fede tormentata. Di questo non si rende conto. A chi contestava la giovinezza della Vergine della Pietà, apparentemente di minor età del Cristo suo figlio, secondo il biografo Michelangelo avrebbe obiettato che dipendeva dalla sua castità, perché le caste si conservano giovani più a lungo delle non caste. L'interpretazione di qualsiasi opera d'arte viene volta in modo da risultare edificante. Parlando delle rime amorose si precisa che sono rivolte verso Vittoria Colonna, verso cui il Buonarroti avrebbe provato, beninteso, solo "amore platonico"; non tenta neppure accennando una interpretazione omosessuale di quel versi, in realtà indirizzati ad almeno un paio di intimi amici - e molto espliciti. Il colmo lo si raggiunge quando, accennando a un dipinto giudicato "indecente", raffigurante Leda, si sottolinea come "andò perduto". "Ecco il destino di certe opere non eseguite secondo le leggi della morale cattolica: esse cadono, o presto o tardi, tra le mani di chi, per coscienza e provvidenzialmente le distrugge affinché non facciano del male": questo il commento del Pilla. Pilla che si dilunga sull'arte di Michelangelo, giustamente esaltandolo sia come pittore, che come scultore, che come architetto, che come poeta, ma che sbarella clamorosamente quando deve trattare di storia e di politica. Michelangelo, ad esempio, da fiorentino qual era, fu un repubblicano o un filo mediceo? Ah, saperlo. A un certo punto, decidendo di non poter tacere almeno del contributo dato dall'artista alla difesa di Firenze durante l'assedio del 1529-1530, quando progettò le fortificazioni della città, il Pilla spiega che i Medici tornarono al potere a causa del tradimento di Malatesta Baglioni (mercenario perugino incaricato della difesa delle mura urbane) segretamente accordatosi con il papa Leone X in favore della restaurazione medicea. Ma assolutamente no! Leone X fu sì, un papa dei Medici, ma morì nel 1521. Ai tempi dell'assedio a cui partecipò Michelangelo era papa Clemente VII, altro pontefice mediceo, ma siamo una decina d'anni dopo. Ovviamente, il Pilla nulla dice della poco onorevole fuga del Buonarroti quando la situazione si fece critica, neppure per elogiare il suo ritorno dopo l'ultimatum dei fiorentini che, se non fosse rientrato, gli avrebbero confiscato i beni. Leggendo svarioni simili vien da dubitare di tutto. Quasi certamente Eugenio Pilla doveva essere un prete o comunque un religioso (D. Eugenio Pilla, viene indicato) e il fatto che la biografia sia edita dai Paolini serve forse a giustificare in minima parte la "faziosità" confessionale del testo. Ma di sicuro ci sono studiosi e biografi in abito talare che licenziano testi di assoluto rigore. Ecco, diciamo che l'autore non è fra questi.

venerdì 10 maggio 2019

GUSTAV KLIMT



Serge Sabarsky - Autori Vari
GUSTAV KLIMT
Artificio
Prima edizione 1995
Brossurato  -  230 pagine -  35.000 lire

Serge Sabarsky introduce con un suo interessante saggio un'ampia disamina dell'opera artistica di Gustav Klimt, condotta con l'intervento di altri critici su aspetti specifici della sua produzione e con la riproduzione fotografica di alcuni capolavori del maestro viennese. Sabarsky, il cui scritto è il più chiaro ed esaustivo fra quelli contenuti all'interno del volume (peraltro tutti lodevoli), inquadra la figura di Klimt nella Vienna di fine Ottocento e del primo Novecento, ripercorrendo le tappe della sua straordinaria carriera, dai suoi inizi manieristici e pertanto lodati dalla critica "ufficiale" ed esaltati perfino dall'Imperatore, fino alla sua "secessione" dai binari dell'arte più tradizionale verso nuove forme e nuovi esiti. I Secessionisti Viennesi, cioè il gruppo di artisti che seguì Klimt, si dotarono presto di un padiglione per l'esposizione delle loro opere, che Klimt affrescò all'interno: lì dentro si susseguirono le mostre degli aderenti alla corrente artistica, sempre suscuitando l'entusiasmo del pubblico e la freddezza della critica. Klimt fu un artista singolare per la sua capacità di essere pittore e disegnatore, così come grafico e ritrattista, spontaneo e complicato, sensuale e trascendente, erotico e spirituale nello stesso tempo.  Ecco le parole di Klimt riguardo alla sua "secessione": "Né mai parteciperò a una mostra ufficiale. Voglio liberarmi. Voglio uscire da queste sgradevoli insulsaggini che ritardano il mio lavoro, per riprendermi la mia libertà. Voglio oppormi al modo in cui, nella nazione austriaca, vengono trattate le cose dell'arte. Ci si scaglia in ogni occasione contro la vera arte e i veri artisti. Solo ciò che è fiacco e falso viene sempre protetto. Lo Stato non ha il diritto di esercitare la dittatura sulle mostre e sull'espressione artistica. Sarebbe invece suo dovere lasciare l'iniziativa artistica interamente agli artisti. Non deve accadere che il funzionario irrompa nelle accademie a cacciare gli artisti". Dopo la parte saggistica, il volume presenta la riproduzione a colori di un certo numero di opere pittoriche, di alcuni disegni, di alcuni manifesti e lavori grafici. In verità, le riproduzioni sono (inevitabilmente) un po' poche rispetto alla voglia di vedere Klimt che ha l'acquirente del volume.

venerdì 22 febbraio 2019

FREDERIC REMINGTON



Sofia Craze

FREDERIC REMINGTON

Crescent Books

Edizione originale USA 1989

cartonato - 112 pagine

Che belli questi libri di grande formato (27 x 37 cm), quando si tratta di riprodurre quadri di straordinaria potenza espressiva come quelli di Frederic Remington! La magia dei dipinti di Remington, tutti o quasi oli su tela raffiguranti scene western, consiste principalmente nel fatto che ciascuno di essi racconta una storia, ed è una storia avvincente, intrigante, piena di risvolti e di emozioni. Non per sminuire i pittori figurativi che si dilettano in nature morte o in paesaggi bucolici, ma vedendo un quadro “Frends or Enemy”, del 1890, dove uno scout indiano a cavallo nella neve vede da lontano i fuochi di un accampamento e aguzza gli occhi per scoprire se si tratti di amici o nemici… beh, siamo davvero in un altro mondo. Nato il 4 ottobre 1861 a Canton, nello stato di New York, Remington cominciò a dipingere il West nel 1882. Il volume raccoglie 67 tavole a colori di altrettanti eccezionali opere a olio, e 25 illustrazioni in bianco e nero fra cui fotografie d’epoca del pittore e di alcune sue stupefacenti sculture, sempre aventi per soggetto i cavalli, gli indiani, i soldati e i cowboys. Scene militari, vita tra i cavalli e le mandrie (stupendo “The Stampede”, del 1908), raffigurazioni di indiani, questi i temi preferiti da Remington, che come pittore è assai più maturo di George Catlin, che ebbe il vantaggio di essere un precursore ma fu di certo meno dotato.  Vale la pena di tracciare, per come la so, una breve cronistoria dei pittori del West, appunto da Catlin a Remington. 

Quella degli artisti del pennello ispirati dagli scenari western, intendendo tutti quelli a Ovest del Mississippi, a partire dall’acquisto della Louisiana dalla Francia, da parte degli Stati Uniti, nel 1803, fu una vera e propria scuola, ricca di talenti. La necessità  di conoscere ed esplorare gli immensi territori da poco acquisiti, che avevano più che raddoppiato il territorio federale, suggerì al governo di Washington di inviare numerose spedizioni con il compito di cartografare le nuove regioni e mappare la dislocazione delle tribù indigene. Al seguito di queste missioni si unirono artisti invitati a raffigurare in schizzi a matita o con acquarelli i paesaggi, la fauna, la flora e i villaggi delle popolazioni locali. Questi disegni fornirono le prime informazioni iconografiche sulle terre ancora sconosciute che si offrivano alla colonizzazione bianca, ed esaltarono l’immaginazione degli americani delle città dell’Est. Ben presto altri artisti cominciarono a viaggiare per proprio conto diretti verso occidente, obbedendo a un desiderio personale oppure spronati da committenti che chiedevano quadri con gli scenari grandiosi delle Grandi Praterie, le Montagne Rocciose o i canyon e le mese del Sud Ovest. 

I primi ritratti di pellerossa realizzati dal vivo da un pittore, che poi li espose nelle Gallerie d’Arte di grandi metropoli come New York, Londra e Parigi, furono quelli di George Catlin.  Nato in Pennsylvania nel 1796, dopo aver esercitato per breve tempo la professione di avvocato, Catlin si dedicò alla pittura e, nel 1830, si trasferì a St. Louis, nell’attuale Missouri. In questa città ebbe la ventura di conoscere proprio William Clark, che vi si era stabilito al termine delle sue avventurose esplorazioni che lo avevano reso amico di numerosi pellerossa. Erano infatti tanti gli indiani che venivano e fargli visita e Catlin, vedendoli, ne fu affascinato al punto da chiedere loro di posare per dei ritratti. Nel 1832, il pittore volle intraprendere un viaggio nelle terre dei nativi, soprattutto in direzione delle Grandi Praterie. Raggiunse dunque Fort Union, che oggi è nel North Dakota, e lì ebbe l’occasione di dipingere guerrieri e squaw dei Piedi Neri, degli Assiniboin, dei Cree e dei Crow, le cui tribù erano stanziate attorno al Forte. Quindi, proseguendo il viaggio, Catlin raggiunse i Mandan e si fermò a lungo nel loro villaggio, al punto da poter dipingere e annotare ogni aspetto della loro vita sociale. Fu il primo bianco ad assistere alla cerimonia della Danza del Sole, un rituale di purificazione che prevedeva il digiuno e l’autoflagellazione per invocare le divinità ed entrare in contatto con loro. Nel 1833, a Pittsburg vennero esposti in una mostra i primi quadri del pittore raffiguranti capi indiani e scene di vita nei loro villaggi. Da quel momento la fama di Catlin crebbe in America e anche in Europa, si intensificarono i suoi viaggi e si moltiplicarono le sue mostre.

Karl Bodmer (1809-1893), artista svizzero, e Alfred Jacob Miller (1810-1874), nativo invece di Baltimora, si ispirarono all’opera di Catlin e, come lui, si occuparono principalmente di raffigurare pellerossa. La loro visione dei nativi fu sostanzialmente romantica: gli indiani vivevano in un paesaggio incontaminato, cacciavano i bisonti, si facevano guerra tra loro ignorando la minaccia degli uomini bianchi e trascorrevano il tempo in uno scenario bucolico in cui nulla lasciava presagire il dramma della decimazione e della deportazione nelle riserve. 

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le cose cominciarono a cambiare. Nelle opere di pittori come Seth Eastman (1808-1875), William Ranney (1813-1857). Charles Deas (1818-1867) e Carl Wimar (1828-1862) le tribù dei nativi attaccano le carovane, scalpano i trappers e combattono con i soldati dell’esercito. Il sentimentalismo precedente lascia il posto alla cronaca storica e, per certi versi, alla “celebrazione” del “progresso” portato dall’avanzare della Civiltà nelle terre di frontiera.  

Ma i pittori che più molti altri seppero raccontare, con straordinaria efficacia e modernità, la conquista del West (al punto di essere ancora oggi attualissimi), furono Frederic Remington (1861-1909) e Charles Marlon Russell (1864-1926).  Nato nel nord dello stato di New York il primo, originario di Saint Louis il secondo, rifiutarono entrambi l’idea che l’arte dovesse “celebrare” qualcosa, e trovavano discutibile la retorica propagandistica del “destino manifesto” dell’uomo bianco chiamato a portare la fiaccola della verità nelle tenebre dell’errore. Così, ciascuno alla propria maniera e percorrendo strade diverse, si sforzarono (riuscendoci benissimo) di mostrare la realtà nuda e cruda, in opere in grado di suscitare contrastanti sentimenti da punti di vista differenti, perché la verità non è una sola ma è sfaccettata. Il West di Remington e Russell è vivo, emozionale,  e se raffigura uno scontro fra un bianco e un indiano non prende posizione, lasciando allo spettatore il compito di giudicare da che parte stare. 

sabato 16 dicembre 2017

COCO' DELL'ARTE IL DESIDERIO
















Nik Guerra
Cristina You-Bad-Girl
COCO'
DELL'ARTE IL DESIDERIO
Edizioni Di
2017, 114 pagine
brossura, 25 euro


"Se fai ciò che voglio, ottieni ciò che vuoi!", dice l'inquietante gallerista Desiderio Dell'Arte alla pittrice Cocò Von Sade, venuta a bussare alla porta della Galleria Vendilanima, con un pacco di quadri profumati (dato che lei mescola le sue essenze odorose preferite ai colori con cui dipinge). Desiderio è un diavolo (o IL diavolo) a cui bisogna prostituirsi per avere successo. Successo che ha un prezzo che bisogna essere disposti (se lo si è) a pagare. L'argomento è scottante e quanto mai d'attualità. L'arte necessita di un pubblico e dunque di un canale per contattarlo: bisogna venire a patti con chi lo fornisce, anche al punto di vendere l'anima. Oppure no? Forse l'arte è espressione pura, non destinata a dei fruitori esterni all'autore stesso? Fruitori, insomma, che ben vengano se ci sono ma che non importa che ci siano? Belle domande. Cristina You-Bad-Girl, l'affascinante sceneggiatrice delle affascinanti tavole del sempre più bravo Nik Guerra, spiega (dimostra) come si possa spazzar via ogni compromesso, annullando qualsiasi patto con il diavolo. "Nessun contratto venne stipulato". L'arte è la vita stessa, il desiderio di viverla e di esprimerla. Le gallerie che la espongono sono non-luoghi che suscitano disgusto quando diventano esibizione mondana e luogo di mercimonio. La scena in cui i frequentatori vomitano irritati dal profumo dei quadri di Cocò è paradigmatica da questo punto di vista. La sexy pittrice non è un personaggio caratterizzato in chiave erotica come l'altro character di Nik Guerra, Magenta, ma resta comunque un'icona intrigante.

sabato 21 gennaio 2017

MAI 'NA GIOIA




MAI 'NA GIOIA
di Stefano Guerrera
Rizzoli
2015, 162 pagine, 
cartonato, 10.90 euro

L'idea non è nuova: già nei primi anni Ottanta Boris Makaresko pubblicava su Eureka una esilarante rubrica in cui scriveva le battute inserite come ballon ai personaggi dei quadri celebri. Stefano Guerrera si è messo a fare lo stesso, e riesce a far ridere abbastanza spesso, a sorridere quasi sempre. In più, le opere d'arte scelte per fornire una interpretazione alternativa dell'immagine sono davvero belle, e recano le necessarie indicazioni perché chi vuole possa rintracciare in un museo o in qualche catalogo. Non tutte sono famosissime: ci si può imbattere in numerose sorprese. Peccato per due cose: la prima, che i "suoi" quadri parlino in romanesco; la seconda, che il suo libro debba aver bisogno della scritta in copertina attestante l'origine dal Web. Trovo sempre più insopportabile l'andazzo per cui i libri si vendono sulla base dei "mi piace" su Facebook. Ma tant'è.

venerdì 5 agosto 2016

AVVICINATEVI ALLA BELLEZZA



AVVICINATEVI ALLA BELLEZZA
di Giovanni Capecchi 
Maria Cristina Masdea
Valerio Tesi e Grazia Tucci
Giorgio Tesi Editrice
2015, brossurato
150 pagine)

Da buon pistoiese ho sempre ritenuto di stupefacentemente belle le ceramiche del fregio che orna la facciata dell'antico, trecentesco Spedale del Ceppo. E mi sono sempre chiesto perché non godessero della fama di tante altre opere d'arte della Toscana. Adesso che è stato portato a termine un lungo e accurato restauro, e i colori delle terracotta invetriate sono tornate al loro primitivo splendore, ci sono buone probabilità che i visitatori accorrano sempre più numerosi ad ammirarle. Insomma, che "si avvicinino alla bellezza", come recita il titolo del catalogo che Giovanni Capecchi, Maria Cristina Masdea, Valerio Tesi e Grazia Tucci hanno confezionato in occasione della fine dei lavori e dell'apertura al pubblico dell'allestimento museale realizzato all'interno del vecchio Ospedale (oggi monumento storico, dato che è stato costruito un moderno nosocomio in periferia). L'allestimento ricostruisce le corsie dei letti così come erano nel medioevo e propone anche ai visitatori i ferri chirurgici in uso nei secoli passati (uno spettacolo degno di un film horror, ma anche una importante testimonianza sulla vita, e sulla morte, dei nostri avi). E' visitabile anche un piccolo ma assolutamente ben conservato teatro anatomico in cui i professori di un tempo sezionavamo i cadaveri per far scuola agli studenti di modicina. 



Ma torniamo al fregio, ovvero a una decorazione di grandi dimensioni sulla facciata dello Spedale, a lungo attribuita alla bottega dei Della Robbia, ma oggi riconosciuta in gran parte come opera del lavoro della famiglia "rivale" e contemporanea di Santi Buglioni. Le ceramiche, lucide e coloratissime, sono state eseguite nei primissimi anni del Cinquecento secondo la tecnica della terracotta invetriata di cui sia i Della Robbia che i Buglioni erano maestri - e, si dice, depositari del segreto della lavorazione, tutt'oggi non del tutto chiarito. La commissione dell'opera si deve a un frate certosino, spedalingo si Santa Maria Nuova a Firenze, Leonardo di Giovanni Buonafede, abile amministratore e amante dell'arte. Da buon mecenate volle farsi raffigurare in prima persona in più punti del fregio, che raffigura le opere di misericordia corporali. Le figure sono tutte a grandezza naturale e dunque gli atteggiamenti sono ben visibili dalla piazza antistante l'edificio, nonostante i trovino a parecchi metri di altezza, Ma se l'insieme, monumentale, stupisce per le dimensioni, lasciano a bocca aperta i particolari e la recitazione dei personaggi. Il catalogo, oltre a inquadrare storicamente il capolavoro pistoiese, mostra in dettaglio decine e decine di volti, la cui perfezione espressiva ha del miracoloso. Inoltre, vengono descritte le difficoltà del restauro e le modalità con cui si è provveduto a eseguirlo, Il mio consiglio è di cercare su Google le immagini del fregio, e poi venire a Pistoia ad ammirarle dal vero.


mercoledì 13 gennaio 2016

SAN PIETRO


SAN PIETRO
di Alberto Angela
Rizzoli, 2015
cartonato
430 pagine, 22 euro

"Segreti e meraviglie in un racconto lungo duemila anni", spiega il sottotitolo: venti secoli di storia, infatti, sono quelli che la Basilica di San Pietro a Roma è in grado di rievocare a chi voglia ripercorrerne a ritroso le modifiche fino all'epoca di Caligola, imperatore a partire dal 37 d.C., che fece iniziare a costruire proprio sul colle Vaticano un ippodromo che venne completato da Nerone, il quale addirittura vi si esibiva come auriga. Proprio da questo galoppatoio parte la ricostruzione storica di Alberto Angela, gradevolissimo divulgatore. Il luogo divenne, dopo il famoso incendio del 64 d.C., luogo di esecuzioni dei cristiani perseguitati, e fra le vittime ci fu (così almeno si narra) anche San Pietro, che vi venne sepolto. La sua tomba si trasformò subito in luogo di venerazione e meta di pellegrinaggi. Nel frattempo il circo aveva perso la sua funzione ludica ed era divenuto una necropoli, ancora oggi in parte visitabile sotto l'attuale Basilica, con numerosi sepolcri di famiglie romane, prima pagane poi progressivamente cristiane. Finché, nel IV secolo, l'imperatore Costantino fece costruire, sulla tomba di San Pietro (i cui resti ancora in parte rimangono), una prima grande chiesa, edificata sulla necropoli che venne interrata spianando il colle soprastante. La grande Basilica costantiniana avrebbe accolto i pellegrini per oltre milleduecento anni, e divenne ricchissima di opere d'arte nonostante alcuni saccheggi, tra cui quello di predoni saraceni nell'846. Quando cominciò a dar cenni di cedimento e di usura, nei primi anni del Cinquecento papa Giulio II decise di costruirne una nuova, che progressivamente prese il posto di quella vecchia. Il primo architetto incaricato di elaborare un progetto fu Bramante, ma poi con il susseguirsi degli anni e dei pontefici furono innumerevoli gli artisti chiamati a proseguire i lavori e a modificare anche radicalmente l'opera dei predecessori. Finché, con Urbano VIII, nel 1626, la nuova Basilica poté dirsi ultimata, anche se il colonnato esterno fu completato da Bernini solo cinquant'anni dopo. Alberto Angela dedica ampio spazio anche a Castel Sant'Angelo, la fortezza edificata sui resti del Mausoleo di Adriano sulla riva del Tevere, e in ogni caso esamina punto per punto pure le decorazioni interne della Cupola di Michelangelo, così come delle sagrestie e delle Grotte Vaticane. Il tutto è corredato da foto, piantine e disegni. La disanima è di facile lettura e puntellata di curiosità (spesso racchiuse in appositi box di approfondimento, come si farebbe in una rivista). Chiaramente, tanta leggibilità va a discapito dell'approfondimento scientifico: il tono quello della divulgazione televisiva, le informazioni sono semplificate: si punta a meravigliare e a farsi seguire più che a citare le fonti. Il lettore a cui Angela si rivolge non è l'esperto ma il profano. Il che, una volta prese le misure, va benissimo: l'opera è meritoria.

domenica 15 novembre 2015

KAREL THOLE, PITTORE DI FANTASCIENZA



KAREL THOLE, PITTORE DI FANTASCIENZA
a cura di Fabio Massimo Manini
Fondazione Rossellini
2012, brossurato
184 pagine a colori, 35 euro

Immaginate di poter avere fra le mani un catalogo che riunisca tutte le copertine illustrate da Karel Thole per "Urania" da quella del n° 233 (luglio 1960) a quella del n° 1088 (luglio 1988), l'ultima da lui firmata. Immaginate di poter corredare questa strabiliante antologia con i testi di critici illustri e di gradevolissima lettura come Gianni Brunoro, Giulio Cesare Cuccolini, Giuseppe Lippi e Franco Spiritelli. Immaginate di poter anche contare sulla testimonianza di Carlo Fruttero e Franco Lucentini e su quella di Giuseppe Festino. Non fareste di tutto per procurarvi un volume simile? Ecco: è stato stampato in sole mille copie numerate e io posseggo la m° 381, che non mi stanco mai di sfogliare. Karel Thole è entrato nella mia vita insieme agli Oscar Mondadori con il ciclo della Fondazione e da allora ne fa parte. Continua a farne parte anche se è scomparso nel 2000, qualche anno dopo che ebbi la fortuna di conoscerlo di persona durante una manifestazione che anch'io contribuii a organizzare. Era olandese, nato nei pressi di Amsterdam nel 1914, ma si era trasferito in Italia nel 1958 in cerca di orizzonti più vasti per il proprio straordinario talento di illustratore. Trent'anni dopo, un grave disturbo alla vista obbligò l'artista a rallentare la produzione e dunque non poté più garantire la gran quantità di copertine che la Mondadori gli richiedeva per "Urania" e i suoi supplementi. Realizzava i lavori commissionati basandosi su brevi riassunti dei romanzi che gli venivano forniti, talvolta note così scarne che per chiunque sarebbe stato impossibile trarne qualcosa di davvero adatto al contenuto. Eppure lui riusciva a disegnare immagini così suggestive, evocative, visionarie, inquietanti e potenti che talvolta valevamo da sole più del testo che seguiva le sue copertine. Varietà di stili e di tecniche ma soprattutto inesauribile fantasia: questo era Karel Thole, questo è Karel Thole, presente per sempre.

domenica 23 agosto 2015

UNA VACANZA SAMMARCELLINA NEI DIPINTI DI LUIGI PIRANDELLO



Daniela Fratoni
Renata Marsili Antonetti
Vittoria Nesi

UNA VACANZA SAMMARCELLINA 
NEI DIPINTI DI LUIGI PIRANDELLO

Comune di San Marcello Pistoiese
2001, spillato
40 pagine, p.n.i.

Ho l'abitudine, su questo spazio (che del resto è personale) di segnalare anche i testi che riguardano le montagne dove sono nato, tuttavia la pubblicazione su cui dirò qualche parola potrebbe indubbiamente interessare più persone di quanto ci si può aspettare da opuscoli di argomento locale. Infatti, protagonista delle pagine di questo spillato è Luigi Pirandello, il quale trascorse l'estate del 1914 in villeggiatura a San Marcello Pistoiese (mio luogo natale). Renata Marsili Antonietti, nipote dello scrittore, spiega in un suo saggio che brilla per sintesi e chiarezza, com'è che Pirandello giunse proprio in quel luogo: suo fratello Giovanni aveva sposato una ragazza di Cutigliano, un borgo vicino. Trattandosi di località fresche ed amene, ecco il commediografo giungerci in vacanza con un discreto numero di parenti. Il soggiorno è proficuo: Pirandello dipinge alcuni quadri a olio (tutti riprodotti nella pubblicazione), che rendono ragione di un suo certo talento anche come pittore e testimoniano l'aspetto di San Marcello all'inizio del Novecento, ma non solo, scrive anche una novella, "La Rosa", che sembra ambientata proprio sulla montagna pistoiese. Daniela Fratoni e Vittoria Nesi analizzano infatti il testo del racconto (pubblicato su "La lettura" nel novembre del 1914) e trovano puntuali corrispondenze di luoghi descritti e di nomi di persona con la realtà sammarcellina di quegli anni. Naturalmente la novella è pubblicata insieme alla disamina e a molte foto del borgo montano scattate proprio all'epoca della visita di Pirandello.  Due dei mie nonni della vicina Gavinana, seppur bambini o giovanissimi, avrebbero potuto persino aver incontrato l'illustrate villeggiante.

mercoledì 12 agosto 2015

PAPER GIRLS


Stefano Babini
PAPER GIRLS
Edizioni Di
2014, brossurato, 
170 pagine, 30 euro

Più che da leggere, un libro da ammirare: perché questo si fa, sfogliando le pagine di questo catalogo di finire femminili filtrate dall'occhio innamorato della donna di Stefano Babini. Le si ammira, appunto, come quando si resta incantati, rapiti, dal fascino di una ragazza (di qualunque età) che passa per strada portandosi dietro il nostro sguardo. Un libro (quasi) senza parole, ma con illustrazioni che raccontano più di qualsiasi discorso. 

Pochi i nudi, ancor meno i gesti erotici (una mano che si infila sotto una mutandina, un corpo strusciato contro un palo), poi volti, mezzibusti, busti, rare figure intere. Sembra il catalogo di un fotografo che abbia girato a caccia di bellezza (non tanto di bellezze) per strada o nei locali, ma invece di essere armato di macchina fotografica Babini (Lugo di Romagna, 1964, artista senza vincoli prima che fumettista senza eroi) usa il pennello. O meglio, usa di tutto, perché poi le sue "paper girls" nascono dalla commistione fra china, acquarello, matite, pennarello, e chissà che altro. Materiali diversi, tecniche diverse, immagini abbozzate e non finite perché a finirle pensi lo spettatore. Soprattutto sguardi, dai quali filtra l'anima delle modelle, vere o immaginate, probabilmente immaginate vere. Le ragazze di carta rischiano di avere una marcia in più rispetto a quelle in carne e ossa perché ciascuno se le figura sulla base dei propri desideri. Ma quelle di Babini parlano dell'essenza della loro femminilità, qualcosa che sublima sia la carta che la carne. A corredo delle immagini, alcuni aforismi di celebri scrittori e una prefazione di Vincenzo Mollica.

lunedì 27 luglio 2015

NORMAN ROCKWELL: 322 COVERS




Christopher Finch
Norman Rockwell
NORMAL ROCKWELL: 322 MAGAZINE COVERS
Abbeville Press 
2013 - cartonato
400 pagine, 40 dollari

E' un librone in cui perdersi, questo, che raccoglie oltre trecento illustrazioni realizzate da Norman Rockwell per le copertine del settimanale "The Saturday Evening Post" tra il 1919 e 1963, pubblicate a tutta pagina (purtroppo riprodotte dalla rivista e non dagli originali, ma del resto è così che le vedevano i lettori dell'epoca). Le copertine di Norman Rockwell, venivano realizzate con la stessa cura che un pittore dedica ai suoi quadri. Ma non si trattava di quadri: Rockwell, da grande professionista, sapeva di rivolgersi a un pubblico vastissimo e non alla ristretta cerchia dei frequentatori di una galleria d'arte, di un museo o di una collezione privata. Per questo i suoi disegni venivano realizzati tenendo ben presenti le necessità della pubblicazione a cui venivano destinati, a partire dal formato rispettoso della "gabbia" di stampa. Il tutto per giungere alla maggior comunicativa possibile del messaggio verso il lettore, anche il più distratto, che doveva notare le sue cover e essere invogliato all'acquisto della rivista. Potremmo arrivare a dire che quando ci troviamo di fronte a una rivista con copertina di Norman Rockwell, abbiamo davanti a noi l'originale: perché quella, e solo quella, é l'opera che l'illustratore intendeva realizzare, e non il foglio o la tela su cui egli, materialmente, ha disegnato l'immagine e poi steso il colore, che sono soltanto passaggi intermedi in vista del risultato definitivo, quello stampato.

La carriera di Rockwell iniziò nel 1912, ad appena diciotto anni (era nato il 3 febbraio 1894), in un periodo in cui l'illustrazione si stava guadagnando un posto di rilievo fra le belle arti, grazie alle nuove tecniche di stampa che rendevano possibile la riproduzione di immagini a mezza tinta e a colori (era stata inventata la fotocomposizione meccanica). L'artista era newyorkese, di buona famiglia e soprattutto di famiglia con tradizioni artistiche e letterarie. Suo padre, Jarvis Waring Rockwell, direttore di una importante filiale di una ditta tessile, aveva letto Dicksen ai suoi figli - e questo spiega molte cose della poetica pittorica di Norman. Il giovanissimo Rockwell cominciò fin da ragazzo a cimentarsi con l'illustrazione tentando di riprodurre il mondo dickensiano. Dopo aver compiuto studi accademici che non lo stimolavano più di tanto, Norman trovò la sua strada trasferendosi dalla paludata Accademia Nazionale alla più progressista Art Students League, dove l'illustrazione era tenuta nel giusto conto. Il suo primo incarico lo ebbe dai titolari di un grande magazzino che gli commissionarono quattro cartoline natalizie. Poi fu la volta di un libro per bambini. Da lì in poi, il lavoro non gli mancò mai. 

Nel 1912, Rockwell iniziò a collaborare con la rivista "Boy's Life", di cui ben presto divenne art director, legata al movimento dei boy-scout, Si specializzò così nel disegno di bambini e ragazzi. Nel 1916 pubblicò la sua prima copertina per il "Saturday Evening Post". Ritraeva un ragazzo ben vestito che spingeva una carrozzina mentre i suoi compagni di baseball si prendevano gioco di lui. Walter Dower, art director del "Post", non solo accettò l'illustrazione senza apportarvi modifiche, ma acquistò una seconda immagine dove comparivano dei bambini che giocavano al circo. Fin dall'inizio, Rockwell sentì profondamente i temi che lo resero così caro al suo pubblico: i bambini, la vita famigliare, gli amori giovanili, gli addii e i ritorni a casa, la giovinezza e la vecchia, le feste e le tradizioni americane. I soggetti dickensiani, poi, furono ricorrenti, a pagamento di un vecchio debito d'infanzia. Celebri furono anche le sue illustrazioni per le opere di Mark Twain (l'artista si recò di persona nel profondo Sud per studiare ambienti, abiti e oggeti d'uso comune). 

Oltre ad apprezzarne ora l'umorismo, ora il sentimento delle cover rockwelliane, non si può non restare di stucco di fronte all'abilità dell'artista nel rendere a perfezione, grazie allo studio delle espressioni, gli stati d'animo dei suoi soggetti e le variegate situazioni in cui sono posti. Rockwell preferiva disegnare basandosi su modelli dal vivo, più che su fotografie. Spesso ingaggiava modelli tra i vicini di casa, o tra gli abitanti di Stockbridge, nel Massachussetts, dove Norman si trasferì con la moglie Mary, che soffriva di depressione, nel 1953. Nel 1959, Mary morì. Rockwell si risposò nel 1961 con Molly Punderson, un'ex-insegnante in pensione. Intanto, le sorti del Post non era più floride. La rivista era invecchiata, perdeva copie. Il 14 dicembre 1963 comparve l'ultima copertina di Rockwell, un ritratto del presidente John Fitzgerald Kennedy, ucciso un mese prima a Dallas. 

Era la quattrocentoventesima cover eseguita da Rockwell per il "Post".  Di lì a poco, la rivista fallì. La decisione dell' editore di fare a meno dell'artista-simbolo che per quasi cinquant'anni ne aveva curato l' immagine non portò fortuna al magazine. Rockwell era stato accusato di aver nuociuto al gusto estetico degli americani proponendo una sua idea dell'arte troppo figurativa e tradizionalista, contro le tendenze dell'arte contemporanea. Che cosa ne pensasse Rockwell dell'arte contemporanea è ben evidenziato in una copertina del "Post" del 1962 intitolata "L'intenditore", in cui un maturo signore si sofferma pensoso di fronte a una indecifrabile opera di Pollock. L'illustratore continuò a disegnare fino al 1976, sempre ricevendo nuove commissioni. La sua ultima copertina fu eseguita per "American Artist" in occasione del Bicentenario. Dipinse sé stesso nell'atto di porre una bandiera sulla Campana della Libertà, dove si legge "Buon Compleanno". Nel novembre 1978, Rockwell moriva nella sua casa di Stockbridge.