martedì 29 maggio 2018

BIOGRAFIA DEL SILENZIO





Pablo d'Ors
BIOGRAFIA DEL SILENZIO
Vita e Pensiero
2014, cartonato
100 pagine

Ogni tanto, per non sembrare del tutto privo di spiritualità e senso della trascendenza, e anzi, per cercare di essere spirituale e trascendente come tutti gli altri e sentirmi dunque meno alieno nel mio freddo razionalismo, leggo libri come questo. "Un giorno riuscirò anch'io a meditare sul senso della vita", mi dico, "o a percepire l'afflato della mia anima". Tutte le volte che mi sforzo di meditare, però, vengo distratto da un prurito in un punto irraggiungibile della schiena o dal rumore del camion della spazzatura per strada. Tuttavia, magari quando sarò in pensione e avrò più tempo per impegnarmi come si deve, avrò imparato come si fa per essere finalmente sereno e spirituale come il resto del mondo che pratica la meditazione. Per il momento, raccolgo la documentazione. Non nego che questo testo di Pablo d'Ors (spagnolo di Madrid classe 1963) sia pieno di buoni spunti. Anzi, me ne sono appuntati diversi. Peraltro, nonostante l'autore sia un sacerdote, ha il pregio di non affrontare nessun argomento religioso. Non che io sia allergico alla religione (avrei accettato di buon grado qualunque discorso sensato anche riguardante Dio e il suo amore per noi), ma evidentemente d'Ors ha scelto di rivolgere il suo discorso a un pubblico più ampio di quello dei credenti, puntando sull'elogio della meditazione (e della ricerca interiore basata sul silenzio) come strumento in grado di migliorare la vita di tutti. Stranamente, parla più di buddismo che di cristianesimo, più di filosofia orientale che di dottrina cattolica. Secondo Pablo d'Ors, e sono pronto a sottoscrivere, la situazione, qualunque sia, non è il problema. Il problema è la nostra idea su di essa. "Appena dimetto l'idea, il problema scompare. Basta non avere idee sulle cose o sulle situazioni per vivere completamente felice. La formula è prendere le cose come sono, non come ci piacerebbero che fossero. Non si deve nuotare contro la corrente della vita, bensì a suo favore. Non bisogna nemmeno nuotare. Basta aprire le braccia e lasciarsi trasportare". Più avanti si legge: "Quasi tutti i frutti della meditazione si percepiscono fuori dalla meditazione. Alcuni frutti sono, ad esempio, una maggiore accettazione della vita così com'è, un'assunzione più completa dei propri limiti e dei propri acciacchi o dolori, una maggiore benevolenza verso i propri simili, un'attenzione più scrupolosa alle necessità altrui, un apprezzamento superiore verso gli animali e la natura, una visione del mondo più globale e meno analitica". Infine: "Si può vivere senza lottare contro la vita". Tutto bello, tutto giusto, tutto vero. Leggo di continuo di gente (anche laicissima, come Emmanuel Carrere) che dice la stessa cosa. Però, al di là del fatto che prima di accettare acciacchi e dolori attraverso la meditazione cerco di farmeli passare con un analgesico, tutto resta troppo poco pratico per i miei gusti. 
Pablo d'Ors indubbiamente ci convince che meditare è bello, che meditare è buono, che meditare cambia la vita. Ottimo. Ma praticamente come si fa? L'autore dice, a un certo punto, che meditare costa anche del sacrificio e che inizialmente ci si deve far forza per mantenersi costanti nel buon proposito di farlo. Questo anche perché, per esempio, la posizione è scomoda e si sentono dei dolori alle giunture. Ecco: ma qual è questa posizione in cui ci si deve mettere? "Nei primi mesi meditavo male, malissimo; tenere la schiena eretta e le ginocchia piegate non mi riusciva per nulla facile": schiena eretta e ginocchia piegate, come? Se magari ce lo avesse spiegato noi potremmo evitare di meditare male o malissimo nei primi mesi. E una volta che ci siamo messi in qualche posizione e si vuole meditare, di preciso a che si deve pensare? Ho visto che esiste un libro intitolato "Meditazione per negati", dovrò leggermi anche quello. Poi vi saprò dire.

domenica 27 maggio 2018

LA REGINA DEI CASTELLI DI CARTA




Stieg Larsson
LA REGINA DEI CASTELLI DI CARTA
Marsilio
2009, brossurato
864 pagine, 21.50 euro

Fatemi prima fare la mia dichiarazione d’amore a Lisbeth Salander, un personaggio straordinario, sfaccettato e potente, raccontato così bene e così bene caratterizzato da farmi credere che esista realmente. Quindi: Lisbeth ti amo, entra nel mio computer quando vuoi.
Terminare una lettura e sentire che in realtà il libro vive di vita propria e convincersi che continui ad evolvere le proprie vicende indipendentemente non solo dal lettore ma perfino dal suo autore è quanto di meglio e di più si può ottenere da un racconto. Le buone storie sono quelle che hanno dei buoni personaggi e la trilogia di “Millennium” dello svedese Stieg Larsson ne ha a decine, oltre a Lisbeth.  C’è anche un’altra caratteristica da cui tutti gli scrittori dovrebbero imparare:  “Millennium” ha una trama. Anzi, più di una, in verità, come la vita di ognuno di noi. I buoni personaggi di Larsson non si guardano l’ombelico ma agiscono, a volte come motori dell’azione a volte per reazione a quel che accade loro. Capitano dei fatti,  sicuramente abbastanza intriganti da essere interessanti da raccontare, ma anche raccontanti in modo così interessante da diventare intriganti più che mai.

Ciò detto, chiarisco subito che “La regina dei castelli di carta” è il terzo capitolo di una trilogia pubblicata in Svezia (un volume all’anno) tra il 2005 e il 2007, composta anche da una prima parte intitolata “Uomini che odiano le donne” e da una seconda intitolata “La ragazza che giocava con il fuoco”.  La trilogia è nota complessivamente con il nome di “Millennium”, dal titolo di una rivista la cui redazione fa da centro di gravità permanente agli avvenimenti raccontati. Colpisce il fatto che l’autore non abbia potuto assistere all’enorme successo a livello mondiale della sua saga perché è morto nel 2004 (a soli cinquant’anni, per infarto) e dunque si tratta di romanzi pubblicati postumi. Pare che nelle intenzioni di Larsson i romanzi dovessero essere dieci. Un quarto e un quinto episodio sono stati scritti da un altro svedese, David Lagercrantz, che ha proseguito la serie. Però, questi ulteriori capitoli non reggono il confronto con i primi tre, che per fortuna si possono leggere con un senso compiuto e giungendo a un punto fermo. Per la precisione, “Uomini che odiano le donne” permette una lettura autoconclusiva presentando i personaggi di Lisbeth Salander (una hacker bisex dalla personalità border line e dal passato traumatico che le perseguita anche il presente) e di Mikael Blomkvisk (il direttore della rivista “Millenium”) alle prese con un torbido mistero da risolvere (quello della scomparsa di una ragazza avvenuta trent’anni prima in circostanze misteriose). I due successivi titoli formano invece un’unica storia divisa a metà, quella in cui si svela il passato di Lisbeth e si regolano i conti con il padre, un russo psicopatico,  Alexander Zalachenko, ex spia russa protetta dai servizi segreti svedesi. Perciò, non si può leggere “La regina dei castelli di carta” senza aver letto prima “La ragazza che giocava con il fuoco”. Il romanzo infatti comincia esattamente là dove si era concluso il precedente, che in effetti non si era concluso: un complicato groviglio di vicende aveva  portato Lisbeth e il padre a cercare di uccidersi a vicenda con il risultato di essersi ridotti entrambi in fin di vita (addirittura, la ragazza viene ricoverata con una pallottola nella testa). Il gruppo di agenti segreti che per anni hanno garantito impunità a Zalachenko cerca di impedire che le indagini portino alla luce del sole tutte le loro malefatte. Mikael Blomkvisk mobilita “Millennium” in difesa di Lisbeth. Si resta intrigati e con il fiato sospeso dalla prima all’ultima pagina.

Sarebbe sbagliato etichettare “Millennium” come una saga poliziesca, nonostante ci siano dei casi giudiziari e dei misteri da svelare. Stieg Larsson orchestra una partitura ricca di elementi e punto d’incontro fra generi diversi: storia, politica, giallo, spionaggio, avventura, erotismo. Ma, soprattutto, porta avanti denunce contro la violenza sulle donne,  sul neonazismo, sulla corruzione, sul potere della stampa e perfino, ante litteram, sulle fake news; affronta i temi della deontologia professionale, dibatte sulla correttezza politica, esplora da competente le nuove tecnologie e l’universo degli hacker. La sua prosa può sembrare basic per come è immediata ed essenziale, ma in realtà riesce a scavare in maniera efficacissima nelle personalità dei personaggi. E che talento da affabulatore!

venerdì 18 maggio 2018

SCEMOCRAZIA



Massimiliano Parente
SCEMOCRAZIA
Bompiani
2018, brossurato
210 pagine, 16 euro


"Come difendersi dal pensiero comune", recita il sottotitolo. In effetti si tratta di un esilarante vademecum per tenersi alla larga dalle baggianate, che ricorda il "Dizionario dei luoghi comuni" di Gustave Flaubert. Ancora bambino, infatti, Flaubert annotava in una lettera: «siccome c’è una signora che viene da papà e ci racconta sempre delle sciocchezze le scriverò». Per tutta la vita arricchì il catalogo. Un altro paragone possibile è quello con "La prevalenza del cretino", di Fruttero & Lucenti, che scrivono: «Sconfiggere il cretino è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non lo scalfiscono. Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé». Personalmente sono convinto che guardati da qualche punto di vista siamo tutti cretini (per esempio: perché sto perdendo tempo a scrivere questa recensione invece di lavorare?). Siamo tutti cretini a turno, insomma. Poi ci sono quelli che dimostrano di esserlo costantemente. Massimiliano Parente, scrittore e polemista dalla penna intinta nel cianuro e il gusto (sacrosanto) della provocazione e disperazione, felicemente maestro della scorrettezza politica (lo leggo da anni e mi sorprendo d'accordo con lui anche quando non sono d'accordo) compila un campionario di ritratti di tipi umani in cui è facile non solo riconoscere un sacco di persone attorno a noi (o in cui ci si imbatte in Rete) ma in cui è inevitabile anche riconoscere se stessi. Io infatti rientro assolutamente nella categoria dello "scemo che presenta i libri". Nel novanta per cento dei casi sono del tutto o abbastanza d'accordo con l'autore sul ridere della scemenza altrui (e anche della mia). Come si fa a non dargli assolutamente ragione di fronte allo "scemo omeopatico", "lo scemo vivo per miracolo", "lo scemo astrologico", "lo scemo politicamente corretto", "lo scemo dell'11 settembre", "lo scemo che prega", "lo scemo che l'ha letto su Internet"? Ma anche quando, su qualche posizione di Parente, si resta perplessi o non convinti ("la scema smaltata di rosa", "lo scemo che ama gli animali", "lo scemo palestrato") si ride di gusto. Gli aneddoti abbondano e verrebbe voglia di aggiungerne altri tratti dalla nostra esperienza con i vari complottisti, disinformati convinti di saper tutto loro, i creduloni, quelli che continuano a ripetere fake news smentite e rismentite e per quanto tu possa smentirli di nuovo continuano imperterriti nel loro mantra. Parente ha messo su carta quel che in tanti pensiamo di fronte alla scemenza che domina il mondo, alla cretineria prevalente di Fruttero & Lucenti, al catalogo delle idee chic di Flaubert. E riderne è catartico come, talvolta, lo è essere scemi.

venerdì 11 maggio 2018

LA FINE DELLA RAGIONE



Roberto Recchioni
LA FINE DELLA RAGIONE
Feltrinelli Comics
2018, brossurato
112 pagine, 16 euro

L'idea alla base di questa graphic novel mi ha fatto tornare alla mente, di prepotenza anche se con un collegamento di idee magari forzato, il racconto "Notturno" (Nightfall, 1941) di Isaac Asimov (poi trasformato in romanzo da Robert Silverberg nel 1990). Anche in quel caso assistiamo alla "fine della ragione" e allo scoppio di una sorta di isteria collettiva su un intero pianeta, dove resiste soltanto una cittadella di scienziati che cercano di far sopravvivere un barlume di conoscenza e razionalità. Un tema, questo, presente in altri racconti del "good doctor". Va detto che le trame asimoviane sono appunto trame, c'è insomma una drammaturgia degli avvenimenti. Recchioni propone invece un plot essenziale raccontato per sommi capi. Come si legge in quarta di copertina, "la scienza è diventata un crimine, la cera medicina è stata bandita, hanno vinto 'loro', ma una madre non si arrende". Una trama avvincente, un progetto che avrebbe potuto dar vita a un fumetto assai più sviluppato (o a un film): invece la scelta dell'autore è di ricorrere al suo talento di illustratore per raccontare attraverso flash e suggestioni, riassumendo quel che sarebbe stato troppo lungo da spiegare in brevi appunti da bloc notes. Si tratta appunto di una scelta: il graphic novel è un mezzo che consente una proposta di taglio autoriale e in questo caso, come in "Asso" e in altri, Recchioni è autore completo e quindi dominus della sua opera, libera dai vincoli della serialità e delle convenzioni di un genere in cui inserirsi. Accettata l'ottica di procedere per sintesi grafica (sicuramente efficace) invece che per sviluppo romanzesco della trama, la storia narrata è folgorante: in un mondo in cui i bambini malati si curano con i Fiori di Bach, l'aromaterapia e i chiodi di garofano, una mamma rintraccia gli ultimi (e disillusi) scienziati barricati nei laboratori sotto il Gran Sasso per farsi dare una medicina. Per gli "altri" la guarigione è naturalmente un "miracolo" e non conseguenza del farmaco, ma forse dalla leggenda (che comincia a serpeggiare) che la scienza può curare le malattie ci potrà essere una rinascita.

domenica 6 maggio 2018

I CANTI DI CASTELVECCHIO




Giovanni Pascoli
I CANTI DI CASTELVECCHIO
Oscar Mondadori
1967, brossurato
230 pagine, 350 lire

E’ il mio poeta preferito, il Pascoli. Preferito perché cultore della forma (metrica sempre perfetta, architettura delle composizioni varia ma rigorosa), ma mai artefatto; anzi attento ai moto dell’animo, appassionato, empatico, umano, sensibile, acuto osservatore delle piccole cose. Colto e letterario, pieno di echi e di rimandi, ma lontano dall’Arcadia. Moderno, psicanalitico ante litteram (ma anche post litteram), è talvolta addirittura sensuale se non addirittura audace (“Il gelsomino notturno”, “Digitale purpurea”). Non sa mai di muffa. Ne ho parlato altre volte su questo blog. L’etichetta che gli si mette a scuola è che il Pascoli sia il poeta del Fanciullino, dal titolo di un suo breve saggio del 1897. A patto di intendersi su che cosa sia il Fanciullino e di non limitarsi a questa definizione, il rimando a quello scritto serve a orizzontarsi. 

Secondo il poeta di Castelvecchio la poesia non è “logos”, cioè razionalità, ma consiste in una perenne capacità di stupore tutta infantile, in una disposizione irrazionale che permane dentro di noi anche quando siamo cresciuti. Il Fanciullino dentro si noi “alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai, parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle nuvole, popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei”.  Il bambino crede alle favole, crede alla mia, crede all’evocazione. Sente il potere del mistero, dei suoni, della musica; è in comunione con la natura. Sovvertendo le norme dell’angusto e realistico buonsenso che regola la nostra vita, il Fanciullino “rimpicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare”. Questa disposizione alogica (una sorta di sguardo obliquo) fa sì che si scoprano nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose.  E non è necessario che le cose siano insolite o grandiose: anche nelle cose quotidiane o famigliari si scoprono significati nelle cose. Di qui il rifiuto pascoliano, in verità non sempre rispettato, della “letterarietà” per avvicinarsi allo “spontaneità” del linguaggio comune. 

Tuttavia il poeta non è mai naif, vi si atteggia. Il suo enorme background culturale non viene mai meno. Persino ne “La cavalla storna” cita Omero senza farsene accorgere. Ho studiato “I canti di Castelvecchio” per un anno accademico intero, ai tempi dell’università, con il professor Mario Martelli (con cui poi mi sono laureato) e ogni lezione era una scoperta: frequentavo con gioia l’aula di Letteratura Italiana. Di recente, ho riletto i “Canti” e la gioia si è rinnovata. Perciò ho rispolverato qualche appunto e mi sono provato a dare ordine a quel che ho ritrovato.

Non si può non partire da qualche nota biografica. Del resto il Pascoli è stato per tutta la vita un poeta autobiografico. E si sa che la sua vita è stata segnata dall’assassinio del padre, avvenuto a San Mauro di Romagna il 10 agosto 1867. Questa morte, a cui ho dedicati un articolo sul blog “Freddo Cane in questa palude”, fu solo l’inizio di una serie di tragedie che in pochi anni si abbatterono sulla famiglia Pascoli, fino ad allora così unita e felice. Di lì a poco morivano prima, di tifo, la appena diciottenne sorella Margherita (13 novembre 1858), poi la stessa madre, che mai si era rimessa dal grande dolore della perdita del marito (18 dicembre dello stesso anno). Giovanni, (classe 1955) e i suoi fratelli Giacomo e Luigi avevano fino ad allora frequentato il collegio “Raffaello” di Urbino, diretto dai padri Scolopi; Giovanni, in particolare, aveva acquistato una salda cultura classica. Adesso le difficoltà finanziarie impedivano ai fratelli il proseguimento degli studi nell’Istituto urbinate. Con la morte di Luigi, avvenuta per meningite il 19 ottobre 1871, all’età di 17 anni, Giacomo e Giovanni abbandonano definitivamente il collegio e nello stesso novembre si trasferiscono a Rimini con la famiglia. A Rimini, Giacomo, il fratello maggiore, fu costretto a trovare lavoro ed a trasformarsi in “piccolo padre”, mentre Giovanni continuava a frequentare il liceo. Grazie all’aiuto di un suo vecchio maestro, padre Cei, Giovanni poté entrare nel collegio “San Giovanni” di Firenze e completare lì gli studi liceali, per poi frequentare a Bologna la facoltà di lettere, dopo aver vinto una preziosa borsa di studio – che però gli fu tolta allorché partecipò a una dimostrazione studentesca contro il ministro della Pubblica Istruzione, Ruggero Borghi, in visita all’Università. La serie di disgrazie continuò con la morte del fratello Giacomo, anch’essa avvenuta per tifo, il 12 maggio 1876. Giovanni diventò, per forza di cose, il capofamiglia. Ma la famiglia si era dispersa, il “nido” era distrutto, e ormai da tempo.

Non occorre seguire ulteriormente la cronologia delle vicende biografiche d Giovanni Pascoli, dalla prima esperienza politica presto abbandonata, alla laurea conseguita nel 1882; dai suoi successivi spostamenti per l’Italia (fino al suo definitivo stabilirsi a Castelvecchio di Barga), alla storia dei suoi rapporti con i fratelli e soprattutto con le sorelle Ida (il matrimonio della quale gli provocò un lungo “squilibrio nervoso” perché veniva ad intaccare il mito dell’unità familiare) e Maria (che venne poi ad abitare con lui). Non occorre, perché gran parte della psicologia del Pascoli è già venuta a formarsi, i caratteri che poi saranno i fondamenti della sua opera poetica si sono già costruiti.

Se il Pascoli è il poeta del Fanciullino, il Fanciullino è l’infanzia del nido non disfatto, la famiglia prima dell’uccisione del padre, prima dell’intervento brutale degli uomini e della storia che la disarticola. E’ nel traumatizzante succedersi di drammatici eventi, che bruscamente strapparono la Pascoli l’affetto delle persone e delle cose più care e la rasserenante sicurezza del nido familiare, l’origine del bisogno del poeta di ricercare nelle cose il loro aspetto più intimo e segreto, e di condurle fuori dalla realtà spazio-temporale della storia colpevole di aver infranto, con i drammi e le necessità del contingente, la serenità di un nucleo di affetti e sensazioni che sembravano eterne.

Le parole vengono svuotate del loro senso immediatamente contenutistico, e assumono sfumature di mistero: la realtà delle cose viene offuscata e trasformata attraverso un filtro ed una visione onirica, che permettono l’acquisizione di una dimensione diversa, quasi archetipica, realizzata nella poesia. Le cose vengono viste al di fuori della loro dimensione reale, fino ad assumere caratteri eterni e nello stesso tempo dimessi, privati, intimi. Il ripetersi delle immagini della casa-nido, delle morti, delle dolorose memorie familiari diventa quasi ossessivo, come se non ne fosse estranea una componente nevrotica.

Il tema del ricordo, che permea tutta la produzione poetica pascoliana conferendole il caratteristico bisogno di collocazione eterna e segreta delle cose, delle immagini e degli affetti, al riparo dalla violenza operata dalla storia, si manifesta più palesemente in alcuni componimenti come profonda necessità di recuperare con la poesia uno stato di cose ormai irrimediabilmente perduto.

Una sezione dei “Canti”, collocata in appendice e chiamata “Ritorno a San Mauro” (in tutto nove componimenti), costituisce l’unica testimonianza superstite di una serie di “Canti di S. Mauro” che il Pascoli aveva promesso nella prefazione ai “Primi Poemetti”, datata 5 giugno 1897, ma che non furono mai realizzati. Essi rimasero, appunto, in questa forma assai ridotta.   Pascoli tornò veramente in visita a S. Mauro, nel maggio del 1897, ma certo comunque che tutta l’opera poetica del Pascoli fu, in forma più o meno consapevole e più o meno accentuata, un continuo ritorno in quell’ angolo di Romagna. O forse potremmo dire che, nell’intimo del suo cuore, da S. Mauro Pascoli non si era mai mosso: tutta la sua poesia potrebbe essere solo un disperato aggrapparsi ad un “nido” che nella realtà non esisteva più. La quercia che cade lascia una capinera senza nido, il tuono che rimbomba rimbalza e rotola cupo cede il posto ad un canto di madre, la cantilena di una nonna si tramuta nella sicurezza del “nido” familiare per il bambino nella zana che dondola piano piano: e potremmo continuare.

E’ del resto lo stesso Pascoli che lo nota, e ne fornisce quasi una scusa, o una giustificazione, allorché nella prefazione del marzo 1903 ai “Canti di Castelvecchio” scrive: “Devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre, e via via, di fratelli maggiori, e d’ogni felicità e serenità nella vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo solo innocente, ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia, morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti. Se poi qualcuna di queste poesie… ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh!, non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria dei miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalle loro fosse rendono anche oggi, per male, bene”.

“Un ricordo”, “Il ritratto”, “Un nido di farlotti” costituiscono una vera e propria “cronaca familiare”, dove, alla rievocazione dei momenti immediatamente precedenti e susseguenti la tragedia della morte del padre, si intrecciano i temi della premonizione e del presagio luttuoso. Ne “La cavalla storna”, invece, la stessa scena acquista una dimensione diversa, più ampia, oracolare e magica, attingendo ulteriori significati.

 “Un nido di farlotti” presenta la scena di casa Pascoli, a S. Mauro, un mese dopo l’assassinio del capofamiglia: la moglie distrutta dal dolore e gli orfani abbandonati appaiono agli occhi commossi di un popolano proprio come una spaurita nidiata di uccellini. E’, se si vuole, un’immagine paragonabile al nido della rondine che, nella celebre poesia “X Agosto”, raccolta in “Myricae”, cade uccisa tra le spine, con ancora nel becco un insetto per i suoi rondinini, così come il padre portava alle figlie un paio di bambole comprate alla Fiera di Cesena: e le stelle cadenti della notte di S. Lorenzo appaiono al poeta il pianto del cielo sulla malvagità di questo mondo.  

Il contenuto di “Un ricordo” è invece così esposto da Benedetto Croce: “Il padre del Pascoli fu assassinato, una sera, sulla via campestre, mentre tornava alla sua casa. La mattina di quel giorno d’inenarrabile strazio e di terrore, l’ultima volta che i suoi lo videro vivo, è ricordata in ogni minimo particolare: con quel perduto dolore dell’animo che dice: potevamo non lasciarlo andare via, quel mattino, e sarebbe ancora tra noi!  E la memoria scopre, o l’illusione fa immaginare, particolari quasi profetici. Il padre stava per salire sulla carrozza, circondata dai suoi, dalla moglie, dai figli grandi e piccini, che escono sulla strada a salutarlo. Ma, nell’appressarsi che egli fece al cavallo, ‘la più piccina a lui toccò la mazza’. Gli prese il bastone, come per tirarlo indietro, e ruppe in pianto. Non voleva ch’egli andasse via: non voleva così, irragionevolmente, come bambina che era; ed egli dovette ingannarla, per acchetarla: farle credere che rientrava in casa e riuscire da un’altra porta. Quella manina di bimba è indimenticabile”. 

Lo stesso si può dire della poesia “Il ritratto”, la quale presenta una notevole comunanza di elementi, a partire da quello del presagio, qui costituito dalla improvvisa e immotivata interruzione delle pittura di un ritratto del padre che Giacomo Pascoli stava eseguendo ad Urbino, dove si trovava a studiare con i fratelli, nella stessa ora in cui Ruggero veniva ucciso.
Siamo di fronte dunque ad una ulteriore costante pascoliana: se il carattere dimesso della poesia del poeta è volto a ricercare gli elementi più intimi ed eterni delle cose, in una visione pessimistica della realtà, e se ciò, insieme al ripetersi ossessivo di certe immagini e certi temi, ha una origine in cui si può rintracciare una componente nevrotica, da notare è che tutto questo assume una forma poetica a dir poco singolare. Una apparente semplicità ed un fascino d’immediata percezione ottenuto con metri, artifici retorici, richiami classici che di naif e di primitivo non hanno proprio nulla

“La cavalla storna” fu una delle ultime poesie composte per i Canti di Castelvecchio, e pubblicata fin dalla prima edizione del 1903. Si tratta di una delle opere pascoliane più popolari e sentimentalmente più celebri. E’ facile intuirne i motivi: la chiave di lettura più immediata è facilmente accessibile ad ogni categoria di lettori; il patetico, il melodramma, la storia di lacrime, sangue e mistero, il tono narrativo e la struttura, la stessa orecchiabilità del metro colpivano e commovevano la sensibilità popolare. Tuttavia, letta con attenzione, "La cavalla storna" rimanda direttamente a Omero, e al cavallo parlante Xanto che rivela ad Achille il nome dell'uccisore di Patroclo. Ci sono persino precise citazioni testuali dei versi omerici. 

“Valentino”, un altro grande classico, commuove perché vediamo il ricco poeta, ammirato dal mondo, a cui non manca nulla, invidiare in silenzio la spensieratezza del povero contadinello che cammina senza scarpe, a piedi nudi, come un uccello: “come l’uccello venuto dal mare, / che tra il ciliegio salta, e non sa / ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare, / ci sia qualch’altra felicità”. Ci sono poi tutti i versi onomatopeici che il Pascoli si inventa per replicare i suoni della natura, c’è l’osservazione della natura, il meravigliarsi di fronte al mistero, lo stupore per il rinnovarsi del ciclo delle stagioni o della vita (in “Ov’è?” il titolo stesso interpreta in forma di domanda, la domanda che il bambino appena nato si pone, il pianto del neonato). Ma il capolavoro resta “Il gelsomino notturno”, e qui rimando a una analisi più dettagliata che ho già scritto a suo tempo.

sabato 5 maggio 2018

IN ALASKA



Raffaella Milandri
IN ALASKA
Ponte Sisto
2017, brossura
150 pagine, 14 euro

Viaggiatrice solitaria, attivista in favore dei popoli indigeni, giornalista giramondo, adottata da una tribù di pellerossa americani, autrice di reportage geografici e antropologici, Raffaella Milandri racconta in questo suo libro un viaggio compiuto in Alaska sulle tracce di Jack London e dei cercatori d'oro lungo il corso dello Yukon ma anche alla ricerca di ciò che rimane delle tradizioni degli Inuit. Ma c'entrano anche i fumetti, dato che nella sua nota finale l'autrice confessa un debito di riconoscenza verso Tex Willer, "personaggio che da bambina ha nutrito i miei sogni d'avventura, alimentando i miei principi di giustizia. La coerenza e la integrità morale dei personaggi dei fumetti bonelliani sono infatti le fondamenta di un mondo romantico dove i protagonisti si muovono su binari di eroica e nobile avventura, e dove gli ideali trionfano. Tex mi ha spinto ai miei primi viaggi tra i Navajos, alle esplorazioni di miniere d'oro, su su fino al leggendario Klondike, dove eravamo in tre: io, Tex e London". La Milandri non racconta di un viaggio con finalità sportive estreme, come discendere lo Yukon in canoa o raggiungere il Polo in slitta, ma fa piuttosto la cronaca di un itinerario alla portata di tutti, sia pure correndo qualche rischio. Lei, di sicuro ha rischiato la vita quando il suo fuoristrada si è piantato nel guado di un fiume, a causa del permafrost in disgelo, e si è trovata da sola, a piedi, a centinaia do chilometri dal carro attrezzi più vicino, con il cellulare senza campo. Colpiscono le messe in guardia più volte ricevute sul pericolo degli orsi (bianchi, grigi e bruni), con tutte le avvertenze nel caso di un incontro ravvicinato: non fuggire, alzare le braccia per sembrare più grossi, oppure fingersi morti rannicchiati in posa fetale, arrampicarsi sugli alberi dato che i grizzly non lo sanno fare ("ma neppure io", confessa Raffaella). Inquieta l'invito ad allontanarsi se solo si vede muovere "qualcosa di bianco", cioè un orso polare. D'altro canto ci sono però i magnifici scenari descritti molto bene, anche se attraversati dagli oleodotti, e gli incontri con le persone, bianche o indigene, con cui l'autrice entra subito in empatia riuscendo a documentate persino la caccia alla balena degli Inuit, che dei cetacei si nutrono (e hanno il permesso di cacciarli). La Milandri affronta il tema del riscaldamento globale e della progressiva perdita di diritti e delle tradizioni delle popolazioni locali. Arricchiscono il libro una sezione fotografica (in bianco e nero) e una guida per chi volesse fare un viaggio del genere. Io, per esempio.

giovedì 3 maggio 2018

ONDE GRAVITAZIONALI LA SCOPERTA DEL SECOLO




Christian Corda

ONDE GRAVITAZIONALI
LA SCOPERTA DEL SECOLO
PM Edizioni
2017, brossurato
160 pagine, 18 euro

Sono quasi imbarazzato nel dirlo, ma io al professor Christian Corda, astrofisico di fama internazionale, do del tu. Lo conosco da vent'anni come grande appassionato della Spirito con la Scure e addirittura mi sono servito della sua consulenza per la storia "La banda aerea", un Maxi Zagor basato su una esotica roccia "antigravitazionale".Tale fu il contributo dell'esperto Corda che diedi il suo nome (in inglese, Rope) allo scienziato pazzo coprotagonista, con l'eroe di Darkwood, del racconto e addirittura chiesi a Christian delle foto con la faccia da cattivo perché i fratelli Di Vitto, disegnatori della storia a fumetti, potessimo dare a quel personaggio proprio il suo volto. 
Adesso, eccomi però a recensire, dal basso della mia ignoranza, il suo libro "Onde Gravitazionali" con il quale ho cercato di chiarirmi le idee su quella che, a detta di tutti gli esperti, è stata la "scoperta del secolo"- E' come, spiega l'autore, se finora gli scienziati avessero guardato l'universo in uno schermo televisivo muto e adesso per la prima volta qualcuno sia finalmente in grado di alzare il volume. L'interferometro LIGO che nel 2015 ha registrato le onde gravitazionali previste cento anni prima da Einstein, ma anche l'impianto Virgo collocato in Italia (vicino a Pisa) e molto di pi, certamente, l'apparecchiatura LISA che verrà installata nello spazio, consentiranno nei prossimi anni di svelare scenari clamorosi. Christian Corda ricostruisce, in maniera comprensibile anche per i non addetti ai lavori, il lavoro di decine e decine di scienziati che per anni si sono dedicati allo studio delle leggi fondamentali che regolano l'universo e che hanno portato ai risultati fin qui raggiunti. Sono proprio gli uomini della comunità scientifica, talvolta litigiosi e fallaci (persino Einstein sbagliò qualche calcolo, i protagonisti del libro di Corda, al pari delle loro scoperte. Uomini chiamati a "pensare fuori dalla scatola", per poter avere intuizioni che superano gli orizzonti del passato, ma con il rischio di entrare a far parte dei gruppi dei "crackpots" (strambi) o dei "cranks" (fissati). Un saggio con lo stesso titolo e sullo stesso argomento, ma di autore diverso (Sandro Ciarliarello), è già stato recensito in questo blog:
http://utilisputidiriflessione.blogspot.it/2018/04/onde-gravitazionali.html

mercoledì 2 maggio 2018

CONTRO (VERSI)!




Franco Lana
CONTRO (VERSI)!
Book Sprint Edizioni
2018, brossurato
40 pagine, 15.90 euro

In una breve intervista pubblicata sul sito Web della Casa Editrice, Franco Lana spiega come è stato spinto a scrivere questa silloge poetica: "Una persona, molto colta, mi disse: Franco, perché non fa il poeta?". In realtà, Franco un poeta lo è quotidianamente nella multiforme attività con cui esprime se stesso e il suo modo di essere. Si tratta davvero di un personaggio fuori dal comune, come sa bene chi lo conosce di persona e chi ha imparato a conoscerlo in Rete. Un minimo contributo alla sua fama l'ho dato anch'io creando la rubrica dedicata a "Il Solito Franco Lana" sulla mia pagina Facebook dove ho pubblicato le battute fotografiche dedicata a Zagor che in mandava. Ho fatto anche in modo che le battute venissero raccolte in un opuscolo di cui ho scritto la prefazione (le potete comunque rintracciare sul mio blog a questo indirizzo: 
Tuttavia Franco è soltanto quel "Solito" lì.
Frequentandolo si scopre tutto un mondo di altre cose che lui ha realizzato (e continua a realizzare): cortometraggi, alcuni con lui stesso nel ruolo di attore, sceneggiature di fumetti, articoli per riviste come "Il veliero", dedicata al disagio sociale, ma anche collaborazioni a siti Internet come Dime Web con interviste a personaggi famosi. E' comparso persino, con un suo contributo, nel film-documentario "Springsteen and I" di Ridley Scott. Vittima lui stesso di una sindrome da "mal di vivere" (la stessa che, chi in maggior grado chi in minore, colpisce quasi tutti, sottoscritto compreso), la supera facendo parte di una associazione che aiuta gli altri, quelli che il disagio rischia di annichilire. "Sono nato a Torino, dove tuttora sopravvivo", scrive di sé in quarta di copertina del suo libro di poesie (nella prima c'è una foto appunto della Mole). Ad aiutarlo a sopravvivere ci sono le sue passioni per i fumetti (Zagor in primis), cinema e musica. "Leggere e scrivere sono per me tra le cose più belle del mondo", dice. E spiega: "Le poesie che compongono il libro, sono state scritte nel corso di diversi anni, e rappresentano la voglia di comunicare con il mio prossimo, soprattutto per quanto riguarda tematiche attuali, ma anche personali. Il messaggio che (spero) vorrei trasmettere è quello che chi vive un senso di inadeguatezza verso la vita, può comunque riuscire (o tentare), di fare cose utili per sé e per il prossimo". In tutto, sono 33 i componimenti racconti in "Contro (Versi)!", tutti molto brevi, semplici, comprensibili e nella maggior parte dei casi toccanti (cioè, giungono al punto). In "Non so dove andare" scrive: "La vita è là / io dove sono? / Senza una strada / poche indicazioni / cosa farò da grande?".
Se lo chiede persino Gino Paoli un una canzone scritta in età matura, figuriamoci. E appunto a testi di canzoni posso essere accomunati queste i versi di Lana, che del resto in "Canzoni allo specchio" conferma: "Sono un cantante di strada / e ho composto (...) questi versi che parlano del mondo / ma li ho scritti per me". Una poesia è dedicata a Zagor ("L'uomo dalla casacca rossa"), identificato in un eroe "sempre in cerca del giusto equilibrio". In cerca, appunto, come tutti noi, "under construction", per citare il titolo di un altro componimento di Franco. Non c'è la pretesa di ritenersi un grande poeta, ci sono le confessioni di uno che ha sopportato "medicine / cure e sofferenze / le visite infinite / la pazienza, la speranza". E che conclude: "sono ancora qui / ormai da lunghi mesi / ma ora va meglio / sono under construction".

martedì 1 maggio 2018

LE AVVENTURE DI GORDON PYM




Edgar Allan Poe
LE AVVENTURE DI GORDON PYM


Rizzoli
2009, brossurato
240 pagine, 8 euro

Si tratta dell'unico romanzo di Poe, che per il resto scrisse soltanto racconti e poesie. Risale al 1837, quando l'autore aveva ancora 28 anni e, come scrive Michele Mari nella sua bella introduzione, "è una dimostrazione eloquente di come la vocazione possa più dell'intenzione". Infatti lo scrittore era partito con il proposito di scrivere un romanzo d'appendice da pubblicare a puntate, secondo la moda dell'epoca, sul "Southern Literary Messenger" di Richmond (solo successivamente uscì l'edizione in volume, con il titolo di "The Narrative od Arthur Gordon Pym of Nantucket"). Si sarebbe dovuto trattare di un racconto marinaresco, d'avventura, teso a cavalcare l'onda dell'interesse suscitato nel pubblico dei lettori dai resoconti delle esplorazioni di Cook e dalle cronache di naufragi e viaggi per mare. Anche in questo caso Poe sarebbe stato comunque un precursore, dato che sia il Moby Dick di Melville che i libri di Verne, London e Salgari sarebbero arrivati dopo (addirittura, molto dopo). Fatto sta che allo scrittore non riuscì di scrivere "solo" avventura. Quello che venne fuori fu un romanzo contaminato dall'orrore, dagli incubi, dall'angoscia ma anche, persino, nelle pagine finali, dal fantastico se non dalla fantascienza. Alcune delle scene a cui Poe ci fa assistere sono inquietanti fino a risultare intollerabili: penso soprattutto al cannibalismo fra i naufraghi che tirano a sorte chi di loro debba farsi uccidere dagli altri per venire mangiato e dare ai compagni una possibilità di sopravvivere. Ma sono horror anche la parte in cui si racconta dell'ammutinamento (con il cuoco di bordo che uccide decine di persone a colpi di mannaia), quella in cui il protagonista è prigioniero della stiva e rischia di morire di fame e di sete, quella della nave colpita dall'epidemia che va alla deriva con il suo carico di morti così come quella del vascello che non si ferma a soccorrere gli occupanti di un relitto, fino all'attacco degli abitanti dell'isola di Tsalal. Costoro, proprio come in un romanzo di Verne, vivono in una terra misteriosamente calda nell'Oceano Antartico (ancora quasi inesplorato negli in anni in cui uscì il romanzo) e dove si trovano piante e animali sconosciuti: si accenna persino al mito di Atlantide. Il racconto procede attraverso una narrazione in prima persona, senza dialoghi, come se stessimo leggendo un diario che riassume i fatti senza romanzarli, e infatti una prefazione e una postfazione danno l'idea che si tratti di una sorta di manoscritto trovato in una bottiglia (in senso metaforico), affidato da Gordon Pym allo stesso Poe. Il finale è incompleto: al lettore viene detto che al testo originale mancavano le pagine conclusive. Da leggere tutto d'un fiato, con gli occhi sbarrati. Da questo romanzo ho tratto una avventura di Zagor con Poe protagonista, dal titolo "Il mostro di Philadelphia".