venerdì 12 aprile 2024

STORIA DELLA COLONNA INFAME


Alessandro Manzoni
STORIA DELLA COLONNA INFAME
Sellerio
2020, brossurato
200 pagine, 12 euro

«La Colonna Infame venne eretta in Milano nel 1630, a ignominia di un barbiere e di un commissario di sanità condannati al taglio della mano, ad essere squarciati a brani con tenaglie roventi, rotti sulla ruota e sgozzati dopo sei ore di agonia. La peste desolava allora la città; e quei due miseri furono accusati di avere sparso veleni e malie per le strade ad accrescere la pubblica sventura. E a che pro? I posteri, vergognandosi della ferocia stolida dei loro maggiori, rasero la colonna innanzi la rivoluzione». Così spiega e riassume i fatti Ugo Foscolo, citato nella postfazione da Leonardo Sciascia. Va aggiunto il particolare che il lugubre monumento sorse nello spiazzo, nei pressi di porta Ticinese, dove sorgeva la casa di uno dei condannati, il barbiere Giangiacomo Mora, che venne abbattuta a somma ingiuria. Il tragico episodio di follia giudiziaria aizzata dalla superstizione del popolino rientra dunque nella cosiddetta “caccia all’untore” resa celebre dalla narrazione che ne fa Alessandro Manzoni dei “Promessi Sposi”. Ciò che colpisce, leggendo oggi la ricostruzione di quei fatti, è constatare come le assurde credenze di un complotto teso a decimare la popolazione non imperversavano soltanto nel Seicento, ma hanno attraversato i secoli fino ai nostri giorni. Sempre Sciascia riferisce quanto segue a proposito dell’influenza diffusasi subito dopo la guerra del 15-18: «Della “spagnola” si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra, per errato calcolo, finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione, da parte dei governi, per quel tanto, né più né meno, che ci voleva a far tornare il conto. La convinzione che la mortalità fosse voluta e programmata dal governo era talmente radicata che ad opporvi il fatto che anche alti funzionari governativi ne morivano, la risposta era che “avevano sbagliato bottiglia”: che avevano cioè attinto al veleno invece che al controveleno». Anche nel caso del colera che imperversò in Sicilia tra il 1885 e il 1986 ci si convinse che ci fossero degli “untori”, e addirittura un maresciallo dei carabinieri, citato da Sciascia, scrisse in un libro di memorie: “Tutti lo credevano e, a dire la verità, anch’io penso che qualcosa ci fosse”. Riguardo alla peste di Milano del 1630, il Manzoni, nei “Promessi Sposi”, racconta di un anziano che, recatosi a pregare in Duomo, volle spolverare con un fazzoletto la panca su cui intendeva sedersi, e venne additato dai presenti come spargitore di veleni, e trascinato sul sagrato dalla folla per essere linciato. Volendo documentarsi nel migliore dei modi per scrivere il romanzo di Renzo e Lucia, il Manzoni rintracciò in archivi pubblici e privati una grande quantità di testimonianze d’epoca. S’imbatté perciò nella storia della Colonna Infame, decise di volerla approfondire e raccontare, ma capì che sarebbe stata una digressione troppo lunga se le sue ricerche fossero confluite nel racconto delle traversie dei due fidanzati, e perciò ne ricavò un saggio a parte (1840). Sciascia si meraviglia che il suo “piccolo grande libro” resti tra i meno conosciuti della letteratura italiana. Peccato, perché si tratta di un pamphlet di taglio giornalistico, una perfetta ricostruzione di un caso giudiziario, in cui il Manzoni racconta i fatti nulla trascurando, esamina le testimonianze, riporta gli interrogatori, smonta punto per punto le tesi dell’accusa, fa proprie le idee di Pietro Verri (1728-1797) nel suo saggio “Osservazioni sulla tortura” (1777). Le confessioni di Guglielmo Piazza (il primo sventurato arrestato e costretto a fare i nomi di complici che non aveva) e di Giangiacomo Mora vennero estorte sotto le più crudeli torture, e i disgraziati accettarono di confermare tutto ciò che gli inquisitori volevano che dicessero, salvo ritrattare, inascoltati, fin sul patibolo. Memorabile l’inizio della cronaca dei fatti: “La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d’un cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani che pareva scrivesse”. Guglielmo Piazza scriveva davvero, ma essendosi macchiato le dita d’inchiostro, cercò di pulirsele sfregandole contro un muro. Ed ecco le parole della donnicciola: “mi venne in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che andavano ungendo le muraglie”. Un untore, insomma, di quelli che tutti credevo spargere la peste per non si sa quale complotto. In quel “per disgrazia” che dà inizio alla “Storia della Colonna Infame” c’è tutto il senso della perfetta ricostruzione manzoniana di uno dei caso giudiziari più terribili della storia moderna.

giovedì 11 aprile 2024

JULIAN



 
Carlo Lucarelli
Stefano Fantelli
Marcello Mangiantini
JULIAN
Cut-Up Publishing
2024, cartonato
64 pagine, 23.90 euro


Mi sono sempre chiesto che cosa potessero provare i condannati alla ghigliottina nel momento in cui la lama spiccava loro la testa dal collo. La morte era davvero immediata, come spero, oppure la vittima percepiva, sia pure per un breve momento, la caduta del capo nel cesto? Si sa di esperimenti condotti da studiosi, all’epoca della Rivoluzione Francese, prendendo accordi con alcuni destinati al supplizio, che avrebbero dovuto cercare di comunicare con un movimento degli occhi il perdurare di uno stato di coscienza subito dopo l’esecuzione, e pare che tutte le prove avessero dato esito negativo. Nessuna reazione percettibile. Carlo Lucarelli, apprezzato scrittore noir e famoso giornalista specializzato in cronaca nera, prova a immaginare, in un suo racconto realmente orrorifico prestato a fare da soggetto a una storia a fumetti, che cosa possa succedere a una testa, mozzata di netto da una lama troppo affilata e da un meccanismo lubrificato di fresco, che non perda conoscenza ma anzi, ovviamente per un caso più unico che raro, conservi le percezioni visive e uditive e la capacità di elaborare pensieri. Per sceneggiare il fumetto Lucarelli ha precettato un esperto del genere horror (scrittore a sua volta ma anche fumettista), Stefano Fantelli, il quale si è affidato ai disegni di Marcello Mangiantini, con cui ha stretto sodalizio grazie ad alcune storie, decisamente sopra le righe quanto a cupezza e sangue versato, realizzate insieme per Zagor. Mangiantini, peraltro, è decisamente talentoso quando si tratta di illustrare racconti in costume (il suo primo lavoro fu un graphic novel ambientato nel contesto della Rivoluzione Americana). Ai colori, cupi come conviene, Letizia Castagna. Il protagonista del racconto di Lucarelli e Fantelli si chiama Julian, nome che ricorda, variante grafica esclusa, il Julien Sorel de “Il rosso e il nero”, un altro ghigliottinato letterario, anche se il contesto è quello rivoluzionario pre-napoleonico e non, come in Stendhal, quello della restaurazione post-napoleonica. La storia prende inizio proprio con l’esecuzione di Julian, conseguenza infausta di un suo contrasto con Robespierre. Quel che succede dopo, ovvero le traversie di una testa tagliata gettata in una fossa comune e portata in giro da un topo infilatosi nella bocca è una sorta di scommessa tra gli autori e il lettore, con i primi che puntano sul riuscire a condurre in porto, e a una conclusione soddisfacente, una storia in cui il protagonista non solo non parla, ma non può contare neppure sul linguaggio del corpo, non avendone uno.

lunedì 8 aprile 2024

GLI ZII DI SICILIA

 

Leonardo Sciascia
GLI ZII DI SICILIA
Adelphi
1992, brossurato
250 pagine, 18 euro


Se si pensa a Leonardo Sciascia (1921-1989), è facile ricordarlo come l’autore de “Il giorno della civetta” o di “A ciascuno il suo”. Forse, grazie al film che ne è stato tratto, anche di “Todo modo”. Più difficile sentirlo rammentare per un altro, pur notevole, romanzo: “Il consiglio d’Egitto”. Tutte opere di cui abbiamo parlato di questo spazio. Ma, secondo me, il libro più bello dello scrittore di Racalmuto è “Gli zii di Sicilia”, pubblicato nel 1958 nei “Gettoni” diretti da Elio Vittorini (altro scrittore siciliano di cui ci siamo occupati) e poi riproposto di nuovo nel 1960 con l’aggiunta di un quarto racconto oltre ai tre presenti nella prima edizione, il fondamentale “L’antimonio”. Già, perché “Gli zii di Sicilia” è una antologia di quattro romanzi brevi (o racconti lunghi, sempre difficile da distinguere), uniti da alcuni tratti comuni. Innanzitutto, i protagonisti sono tutti siciliani; in secondo luogo l’ambientazione è storica e i personaggi si confrontano con avvenimenti epocali di grandi trasformazioni politiche e sociali; terzo punto, ci sono dibattiti e confronti ideologici (fascismo e antifascismo, comunismo e clericalismo, potere baronale e movimenti liberali) ma che mostrano le contraddizioni di ogni posizione; infine, c’è di mezzo la guerra, vista (da lontano o da vicino) con gli occhi degli ultimi, inquadrata dal livello del suolo. Leonardo Sciascia è già il narratore straordinario che in seguito avrebbe, più che dimostrato, confermato di essere: non una parola di più, non una di meno; un stile caratterizzato da un periodare pulito, elegante, misurato, attento ai dettagli ma solo a quelli essenziali, coinvolgente, ironico, sommesso.
Il primo racconto, “La zia d’America”, racconta dello sbarco americano in Sicilia nel 1943 con la voce di un ragazzino che vede prima fuggire i tedeschi, poi smantellare le insegne del regime dalla piazza del paese, quindi togliere i gagliardetti mussoliniani dal bavero delle giacche, ascoltando anche i mugugni e le recriminazioni dei nostalgici in risposta alle aspettative di aiuti economici e di libertà dei compaesani, fino alla comparsa delle prime pattuglie alleate. A guerra finita, arriva in visita la famiglia di una zia emigrata in America che ha fatto fortuna nel commercio, con un “storo”, ma che disprezza la povertà e le mosche dei parenti siciliani.
Il secondo racconto, "La morte di Stalin", narra di un convinto comunista cresciuto nel culto di Stalin, da lui considerato il migliore degli uomini e la speranza dell'Umanità, salvo poi vederne crollare il mito e venire costretto dai suoi stessi compagni di partito a convincersi dei crimini del leader, così da perdere ogni punto di riferimento.
Il terzo romanzo breve è “Il quarantotto”, inteso come 1848, l’anno in cui cominciarono a germinare in Italia i primi movimenti che avrebbero portato ai moti risorgimentali e all’impresa di Garibaldi. Anche in questo caso l’io narrante è un ragazzino, figlio di un cocchiere al servizio di un barone, che, cresciuto, si arruola fra le fila garibaldine e vede il nobiluomo cambiare casacca e, da fervente borbonico, trasformarsi in liberale.
Il più bello dei racconti è però il quarto “L’antimonio”, il ci titolo fa riferimento al nome dato dagli zolfatari siciliani al gas che provoca esplosioni nelle miniere di zolfo. Proprio dopo essere scampato a una di queste esplosioni, il minatore protagonista decide di arruolarsi volontario nella Guerra di Spagna (1936-1939): nulla o quasi sa del perché là si combatta, sa solo che combattendo si guadagna ciò che basta a mantenere la famiglia e se si muore, si muore sotto il sole e non in una galleria sottoterra. Una volta al fronte, però, le cose cominciano a farsi più chiare davanti ai suoi occhi. Un testo illuminante, un capolavoro.

sabato 6 aprile 2024

ANTENATI


 
 
Giorgio Manzi
ANTENATI
Il Mulino
2024, brossura
224 pagine, 16 euro


La rubrica “Homo Sapiens” di Giorgio Manzi è la prima che vado a cercare, ogni mese, sul nuovo numero de Le Scienze. Manzi insegna antropologia alla “Sapienza” di Roma ed è accademico dei Lincei. Da affezionato lettore, ben conoscendo la gradevolezza della sua scrittura, non mi sono perso questo suo nuovo saggio, in cui il paleoantropologo esamina dieci distinti casi di ritrovamenti di parti di scheletri di nostri antenati preistorici, raccontando come e dove sono avvenuti, come sono stati interpetrati i reperti in un primo momento e di che cosa ci si è convinti in seguito, come si sia andata elaborando, attraverso lo studio di calotte craniche o frammenti di bacino, o magari di denti, una teoria sull’evoluzione e della distribuzione del genere homo partendo dalle prime specie di ominini da cui discendiamo. La paleoantropologia nacque nel 1856, quando i lavori in una cava tedesca nella valle di Neanderthal portarono alla luce i resti di tre scheletri che sembravano umani ma chiaramente non lo erano. Nel 1864, un paleontologo irlandese, William King, trovò una collocazione tassonomica per i proprietari di quelle ossa, definendoli appartenenti a una specie umana estinta, l’homo neanderthalensis. Si scoprì poi che già negli anni Trenta del XIX secolo era stata rinvenuta in Belgio la volta cranica di un bambino che, tirata fuori dallo scaffale dov’era finita, venne attribuita appunto a un piccolo neanderthaliano. La stessa cosa accadde per un cranio femminile scoperto a Gibilterra. Oggi è ormai è chiaro che per millenni gli homo sapiens, ultimi arrivati in famiglia, hanno coabitato la Terra con diversi parenti (cugini più o meno lontani) e che è soltanto da quarantamila anni che siamo rimasti soli (forse anche per colpa nostra). Manzi racconta, davvero molto bene, del ritrovamento, avvenuto nel 1974 in Africa Orientale, dello scheletro di Lucy, una nostra trisnonna di 3,2 milioni di anni fa, che non aveva un aspetto propriamente umano, ma che già camminava su due gambe (era una australopithecus afarensis). C’è poi la storia del cosiddetto “ragazzo del lago”, scoperto nel 1984 sulla sponda del lago Turkana, in Kenya, i cui resti risalgono a un milione e 600.000 anni fa, che invece era già un “homo”, della specie Homo Ergaster; seguono le vicende del ritrovamento dei resti di strane creature, umane ma alte appena un metro, che abitavano l’isola di Flores, sperduta in mezzo al mare tra l’Indonesia e l’Australia (homo florisiensis). C’è spazio anche per l’Italia, con il resoconto della scoperta, avvenuta pressi di Frosinone nel 1994 dell’uomo di Ceprano, un homo heidelbergensis, che rappresenta una fondamentale testimonianza sia della progressiva espansione in Europa della grande famiglia a cui apparteniamo, sia della varietà di tipologie, manifestatesi nel corso dei millenni, dei nostri zii e cugini. Sempre italiani sono i resti di neanderthaliani rinvenuti sul Monte Circeo nel 1939; quelli scoperti nel 1993 in una grotta nei pressi di Altamura, in Puglia, identificati come vecchi di 150.000 anni; quelli di una mummia, divenuta molto famosa, emersa dai ghiacci delle Alpi, nei pressi della vetta del Similaun, sopra la Val Senales. Quest’ultimo ritrovamento, datato 1991, riguarda il corpo di un uomo del tutto simile a noi, vissuto oltre 5000 anni fa, in piena età del rame, conservatosi con tutta l’attrezzatura da viaggio che si portava dietro. Proprio le pagine con l’analisi degli abiti, le armi, il cibo, gli utensili, i tatuaggi di Oetzi (così è stato chiamato) chiudono lo stupefacente saggio di Giorgio Manzi, in cui si parla però anche di un falso reperto costruito ad arte per lucrare fama e denaro, rivenuto nel 1912 a Piltdown, in Inghilterra, il cui autore venne smascherato soltanto 41 anni dopo, grazie ai progressi della paleoantropologia.

mercoledì 3 aprile 2024

LA BANCONOTA DA UN MILIONE DI STERLINE


 
Mark Twain
Tiziano Sclavi
Mario Rossi
 LA BANCONOTA DA UN MILIONE DI STERLINE
 Allagalla
2021, cartonato
100 pagine, 19 euro


Un volume decisamente interessante, questo proposto da Allagalla, e per vari motivi. Il primo: il recupero di un fumetto di 47 tavole sceneggiato per “Il Giornalino” nel 1990 da Tiziano Sclavi (il creatore di Dylan Dog, nato a Broni, in provincia di Pavia, nel 1953); il secondo, la riproposizione integrale in una nuova traduzione dall’inglese del racconto di Mark Twain “The Billion Pound Bank Note”, da cui origina la versione sclaviana; il terzo, la ricostruzione degli “anni del Giornalino” sotto la gestione di don Tommaso Mastrandrea e Claudio Nizzi (a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta), rivista per cui lavoravano decine di autori di prima scelta (un po’ come nella redazione del “Corriere dei Ragazzi” di dieci/venti anni prima), tra i quali spiccava il genovese di adozione romana Mario Rossi, classe 1946, l’ottimo illustratore di questo adattamento. “Mario è bravissimo, racconta alla perfezione, le sue storie sono leggibili anche senza testo”, dichiara Sclavi. Il ricco apparato critico a corredo del volume comprende una intervista allo sceneggiatore, un saggio di Loris Cantarelli sulla fortuna del racconto di Mark Twain, alla base di numerose versioni teatrali, fumettistiche e cinematografiche tra cui il celebre film “Una poltrona per due”. Infatti, a dare inizio all’originale trama, c’è la scommessa di due ricchi uomini d’affari, “fratello A” e “fratello B” sul destino di uno spiantato a cui avessero messo tra le mani una grossa fortuna. Ci sono anche una introduzione di Roberto Guarino e Matteo Pollone e una di Giuseppe Noto, professore universitario che propone un utilizzo didattico (nelle scuole) del volume Allagalla. Per quanto lo sceneggiatore pavese sia rimasto abbastanza fedele al racconto di Mark Twain, la sua calligrafia si riconosce per il ricorso agli incubi del protagonista e le citazioni nascoste qua e là, a partire dalla vignetta d’apertura. Sclavi e Rossi hanno firmato insieme per “Il Giornalino” anche la serie “Agente Allen”, di cui ci siamo già occupati in questo spazio:
 

domenica 31 marzo 2024

LA TREGUA

 
 
 
 
Primo Levi
LA TREGUA
Einaudi
2014, brossurato
234 pagine, 13 euro

Non c’è niente da ridere, naturalmente. Però, ne “La tregua” di Primo Levi (1919-1987) ci sono senza dubbio anche pagine che muovono al sorriso. Lo stesso, del resto, si potrebbe dire di un altro diario di guerra, “Un anno sull’altipiano”, di Emilio Lussu, quando vengono narrati aneddoti di variopinta e sagace umanità. Il secondo libro di Levi dopo quello dell’esordio, “Se questo è un uomo” (1946) inizialmente passato inosservato, racconta l’avventuroso ritorno a Torino dell'autore nell’ottobre del 1945, dopo la liberazione del lager di Auschwitz, in Polonia, avvenuta nel gennaio dello stesso anno. Per alcune settimane, gli internati del campo rimangono nelle loro baracche e continuano a morire di stenti e di malattie, anche in assenza degli aguzzini nazisti. Poi, il destino decide chi sono i salvati e chi i sommersi. Primo Levi, chimico ed ebreo torinese entrato in clandestinità fra le fila partigiane, era stato arrestato nel dicembre 1943 in Val d’Aosta e tradotto ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Lì, riesce a sopravvivere un anno, fino alla fuga dei tedeschi pressati dall’avanzata dell’esercito sovietico. Proprio i russi si fanno carico degli scampati allo sterminio, in una situazione comunque precaria che non risparmia ai liberati altri mesi di privazioni, fame, traduzioni in treno in carri merci in viaggi apparentemente senza senso, tragitti verso destinazione ignote. Neppure la notizia della fine della guerra significa, per Levi e i suoi compagni, che sia giunto il momento del rimpatrio. Il percorso che avrebbe potuto essere lineare assume la forma di un arabesco tra i confini polacchi, bielorussi, russi, rumeni, austriaci, in una odissea durata dieci mesi, attaverso l'Europa distrutta dalla guerra. La prima parte del diario, ambientata ad Auschwitz, è molto drammatica, sia pure scritta con registro asciutto senza indulgere sull’orrore del lager, come pure sarebbe stato lecito, ma anche senza nascondere o tacere niente. Tragico per esempio, il ritratto del bambino Hurbinek, nato (non si sa come) nel campo e lì sempre vissuto nei suoi tre o quattro anni, che non sa neppure parlare ma lotta caparbiamente per la vita. Dopo la partenza dal campo di sterminio comincia a prevalere la speranza, sempre frustrata da cocenti disillusioni. Iniziano però anche gli aneddoti sull’inventiva degli ex-prigionieri per procurarsi da mangiare, o scarpe da calze, ragazze da sposare o soltanto da portare a letto. Fra i compagni di Levi facciamo la conoscenza di Cesare, in grado di vendere qualunque cosa a chiunque pur parlando soltanto romanesco, ma anche del medico Leonardo, a cui lo scrittore fa da infermiere, del gigantesco veneto Avesani, detto il Moro, gran bestemmiatore. Ma si descrivono anche gli arrivisti, gli intrallazzatori, i manipolatori, i millantatori. Colpisce il resoconto degli spettacoli teatrali organizzati durante la permanenza a Staryje Doroghi, la “casa rossa”, segno di una insopprimibile desiderio dell’animo umano di esprimersi attraverso l’arte. Il titolo “La tregua” si riferisce alla breve pausa fra una guerra e le successive, ma anche alla parentesi nella vita di Primo Levi costituita dagli assurdi mesi del viaggio verso casa. Il libro ebbe subito un grande successo e vinse la prima edizione del Premio Campiello, riaccendendo l’attenzione, in Italia e all’estero, anche su “Se questo è un uomo”. Da leggere, assolutamente, tutti e due.

sabato 30 marzo 2024

L' ARTE DI GOVERNARE LA CARTA

 

Ambrogio Borsani
L'ARTE DI GOVERNARE LA CARTA
Editrice Bibliografica
2017, brossurato
152 pagine, 20 euro

“Follia e disciplina nelle biblioteche di casa”, spiega il sottotitolo dando una più precisa idea del contenuto, già comunque ben resa dal titolo stesso. Il senso del volumetto, però, è ancor meglio rappresentato in una citazione da Anatole France che fa da preambolo: “Non passo quasi mai davanti alle bancarelle senza scovare qualche libro che mi mancava e che non sospettavo minimamente di non avere. Al rientro, devo affrontare le grida della governante, che mi accusa di riempire la casa di cartacce fatte apposta per attirare i topi”. Chi di noi bibliofili non si riconosce nel quadretto? E ancor di più ci si riconosce nella trattazione dei vari aspetti della sindrome da bibliofilia data da Ambrogio Borsani, affetto anche lui dalla stessa patologia e che quindi, dopo aver raccontato la storia del libro (nato dai rotoli manoscritti) elenca con cognizione di causa le problematiche: la mancanza di spazio, la collocazione negli scaffali, la classificazione delle collezioni (si cita la Dewey, si sconsiglia l’ordine alfabetico per autore, ci suggerisce la divisione per nazioni), i danni alle strutture stesse delle case, il pericolo di crolli degli scaffali. L’aneddotica è ricca.  
 
Mentre leggevo, con piacere, il manuale di Borsani, mi sono reso conto di aver scritto anch’io, ancora prima di lui (nel 2011), un articolo pubblicato sul mio blog “Freddo cane in questa palude”, intitolato “C’è posto per te”. Siccome le mie considerazioni e le soluzioni proposte non sono troppo diverse, ho pensato di selezionare alcuni passaggi, che trovate qui di seguito.
 

C'E' POSTO PER TE
di Moreno Burattini
 
Mi gongolo di soddisfazione tutte le volte che miro e rimiro le mie scaffalature piene di libri, volumi, albi e fascicoli, perfettamente disposti per serie, per argomento, per tipologia, per colore delle costoline. Non c’è nessuna comodità da digitalizzazione che possa ripagare la soddisfazione di vedere delle librerie colme di carta. Stante questa sacrosanta verità, resta da capire come accidenti fare quando le librerie sono fin troppo colme e non c’è più spazio per infilare tra un volume e l’altro neppure una cartolina. Nella mia pluridecennale esperienza di stivaggio (arte in cui mi considero ormai un genio – riconosciuto peraltro da tutto il parentado), la prima cosa che mio viene da dire è questa: non è vero. Segnatevi questa verità fondamentale: quando le apparenze vi fanno credere che lo spazio sia esaurito, le apparenze ingannano. Si tratta soltanto di disporre meglio gli albi. Magari invece che in un’unica fila orizzontale si possono fare tante pile verticali, una affiancata all’altra. C’è sempre dello spazio in più, se ci si pensa bene e si studia il problema con attenzione.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, regola numero uno: mai rinunciare all’acquisto di un libro o di un fumetto “perché in casa non c’è più posto”. Si deve sempre partire dal presupposto che il posto c’è. Se non c’è, si trova. Per esempio, si compra una casa nuova. Sembra una battuta ma è un’affermazione seria. Se in una famiglia i figli crescono di numero e in età, non si pensa forse a un trasloco in una dimora più larga e accogliente? Non c’è niente di scandaloso nel fatto che un collezionista possa scegliere un appartamento con una stanza in più pensando a un luogo dove conservare le sue collezioni. Chi ha la moto non si compra forse una casa con un garage o uno scantinato? Chi ha il pollice verde non la sceglie con un giardino o con una ampia terrazza? Bene, chi legge fumetti si fa mettere in progetto un salottino da lettura. Se proprio una casa nuova è fuori discussione, restano comunque delle alternative. Il garage e la soffitta, per esempio. Che ci fanno tutte quelle cianfrusaglie inutili in solaio? Fuori! Una bella scaffalatura e il sottotetto diventa una biblioteca. E la casa dei genitori, dove la mettiamo? Quando qualcuno si sposa o va a vivere da solo, di solito lascia libera la propria cameretta. Quella ci appartiene di diritto. E’ nostra. Ci siamo cresciuti. E adesso la riempiamo con i nostri albi. Le mamme non possono che essere contente. I figli tornano a salutarle con frequenza settimanale o bisettimanale. Le salutano di passaggio, ovviamente, andando a posare o riprendere i loro fumetti, ma intanto le salutano. Esiste anche la possibilità di prendere in affitto una piccola stanza da un vicino, o un monolocale.
Ma facciamo l’ipotesi peggiore: c’è soltanto una casa. La prima cosa da fare è razionalizzare lo spazio. Il motivo per cui di solito si dice che non c’è più posto è che si sono riempiti tutti gli scaffali della libreria del salotto o dello studio. Al che, la prima considerazione da fare è la seguente: quanta parete libera si vede, in giro per la casa?
C’è da scommettere che l’arredamento della prima ora abbia lasciato muri bianchi grandi come schermi cinematografici, con al centro magari un paio di quadretti di pessimo gusto comprati durante le vacanze a Maiorca perché li faceva un artista di strada. La regola numero due è: non ci devono essere pareti libere. Dove c’è una parete libera, ci si mette davanti una libreria. Tanto i muri bianchi ingialliscono, i bambini li scarabocchiano, ci vengono spiaccicate le zanzare, ci vanno gli schizzi di olio e di vino, ci fanno la cacca le mosche. Una bella libreria invece arreda in modo leggiadro e isola anche acusticamente e termicamente. Mogli e fidanzate tenteranno in tutti i modi di riempire gli scaffali di soprammobili. Deve essere loro impedito a costo di ricorrere allo scudiscio. Regola numero tre: i soprammobili sono vietati. Che poi non è il soprammobile in sé che dà noia, è il fatto che si pretenda che attorno al soprammobile ci sia il vuoto.
Ma il punto fondamentale che distingue il collezionista di genio dal dilettante allo sbaraglio è la misura dello spazio vuoto tra un ripiano e l’altro. Gli sciocchi di solito comprano una libreria così com’è: ammettiamo che la vendano con tre ripiani distanti fra loro trenta centimetri (che creano quattro diversi spazi). Ergo, se io dentro ci metto una fila di fumetti alti venti centimetri, avanzano dieci centimetri. Moltiplicati per quattro spazi, sono quaranta centimetri! In pratica, nello stesso scaffale ci starebbero altre due file degli stessi fumetti. Basterebbe mettere due ripiani in più, calcolati sulla base delle altezze degli albi. E vogliamo parlare di quanto spazio libero c’è fra la fine della libreria e il soffitto? Di solito, almeno un metro! Quanta carta stampata ci potrebbe stare in quel vuoto assurdo! Perciò, regola numero quattro: farsi fare delle librerie su misura, che occupino tutto lo spazio sfruttabile, con i ripiani calcolati alla giusta distanza fra loro sulla base del materiale collezionato.
Ma non è finita. Ammettiamo che delle scaffalature perfette riempiano lo spazio domestico in modo impeccabile. Volete raddoppiare la disponibilità con uno schioccar delle dita? Basterà accertarsi che la larghezza degli scaffali consenta di poter mettere gli albi in doppia fila. Perciò, niente Billy per i fumetti Bonelli! Ci sta una fila sola. Bisogna comprare modelli più larghi, capaci di ospitare una fila davanti e una fila dietro. In certi casi le file possono perfino essere tre. Il mio sogno, quello di cui parlo sempre con la persona amata quando ci sdraiamo insieme sull’erba del prato a guardare le stelle, è non solo di avere una sola grande stanza in un’unica casa in cui conservare tutti i miei libri e i miei fumetti divisi in almeno quattro case diverse, ma (ed ecco la vera libidine) con tutte le costoline disposte in singola fila. E’, naturalmente, un sogno irrealizzabile. Appunto per questo, in mancanza di meglio, vada per la doppia fila.


domenica 24 marzo 2024

BREVE STORIA DELLA CHIMICA



Isaac Asimov
BREVE STORIA DELLA CHIMICA
Zanichelli
2019, brossurato
202 pagine, 26.40 euro

Da grande appassionato di qualunque cosa abbia scritto Isaac Asimov (le cui opere occupano tre ripiani in tripla fila nella mia libreria in salotto) colleziono non soltanto i suoi romanzi e le sue antologie di racconti (fantascienza e giallo, soprattutto) ma anche tutta la sua sterminata produzione saggistica (saggi, raccolte di articoli). Proprio i suoi articoli di divulgazione scientifica hanno fondato le basi della mia curiosità sulla fisica, l’astronomia, la chimica, la biologia ma anche le mie prime conoscenze sulla storia della scienza e le mie convinzioni sulla necessità della lotta alle superstizioni e all’oscurantismo. Da quel grande narratore che era, Asimov (1920-1992) si è dimostrato anche uno straordinario divulgatore. Era chimico e biochimico e, con il titolo di Ph.D, ha insegnato alla Columbia University e alla Boston University School of Medicine, ma sapeva spaziare in ogni campo, compreso quello filosofico e letterario. Il suo saggio “Breve storia della chimica” è del 1965, e tratta della nascita e dell’evoluzione delle conoscenze dell’uomo in campo chimico, dalla preistoria fino agli studi sugli elementi transuranici: il saggio si ferma con l’annuncio dei fisici sovietici, nel 1964, della scoperta dell’elemento 104, da loro chiamato “kurchatovium” (ma dal 1969 il nome divenne rutherfordio). Da allora siamo arrivati all’elemento 118, ma non per questo il resoconto di Asimov può dirsi superato perché, si tratta di una cronistoria dei progressi sempre più rapidi dell’umanità e non dell’esposizione delle più recenti novità. La parte più affascinante, secondo me, è quella che va dall’età della pietra fino al XVII secolo, quando i chimici smisero di essere alchimisti, più o meno ai tempi di Robert Boyle, e quando le scoperte cominciarono a succedersi a rotta di collo. Per quanto entusiasmanti possano essere stati i successi del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento, niente mi ha emozionato di più le supposizioni di Asimov su come gli uomini primitivi abbiano imparato ad accendere il fuoco prima e a fondere il rame poi. Per quanto l’argomento vada sempre più complicandosi per la necessità di spiegare fenomeni chimici anche molto complessi, è ammirevole la capacità del “good doctor” di esporre tutto con chiarezza estrema. Due parole sul volume Zanichelli del 2019 che ho in mano nella foto allegata: non si tratta di una nuova edizione del testo uscito in Italia nel 1968, ma di una sorta di ristampa anastatica ottenuta, si direbbe, scansionando un po’ alla meno peggio il libro originale.


domenica 17 marzo 2024

FIORI SOPRA L’INFERNO

 
Ilaria Tuti
FIORI SOPRA L’INFERNO
Tea
Brossurato, 2018
368 pagine, 12 euro

Leggere “Fiori sopra l’inferno”, in grave ritardo sul resto dell’umanità, mi ha fatto lo stesso effetto di quando ho letto “La verità su caso Harry Quebert”, di Joel Dicker. Vale a dire che quando un libro vende centinaia di migliaia di copie e viene tradotto con successo in mezzo mondo, non resta che leggerlo per non privarsi delle emozioni godute da tutti gli altri, soprattutto se i giudizi positivi sono unanimi e dovunque si levano gridolini di giubilo. Se poi però uno lo legge e rimane perplesso, ecco, la cosa non è piacevole perché ci si sente quelli sbagliati. Da parte mia, mi chiedo che cos’è che gli altri hanno capito e io invece non ci arrivo. Mi capitò così anche con il caso di Harry Quebert, e me ne dispiacque parecchio. Eppure, “Fiori sopra l’inferno” è diventata una serie TV, ho letto i complimenti di Donato Carrisi e tutta una serie di lusinghiere recensioni, in un programma alla radio si descriveva il commissario Teresa Battaglia come un personaggio memorabile. Ecco, non so come dirlo, ma a me Teresa Battaglia è sembrata profondamente antipatica dalla prima all’ultima pagina. Il modo arrogante e sgarbato in cui tratta tutti quelli che gli stanno attorno, soprattutto il giovane ispettore Massimo Marino, dà ai nervi e c’è da chiedersi com’è che venga tollerato. Vero è che, forse, proprio questo rende memorabile l’anziana poliziotta: una così non passa inosservata. Altrettanto vero che anche Maigret si può definire burbero (ma non ispira antipatia). Soprattutto vero è che Teresa Battaglia ha un passato difficile (un figlio perduto, un compagno violento) e un presente angosciante (coglie in se stessa, oltre i segni dell’età, i sintomi dell’Alzheimer). Inoltre, e questo va riconosciuto, si tratta di un personaggio fuori dagli stereotipi. “Fiori sopra l’inferno” è il primo romanzo di cui la Battaglia è protagonista e il successo ha imposto a Ilaria Tuti (1976) di dare il via a una serie, ma l’autrice ha scritto anche altro (da “Fiore di roccia” a “Come il vento cucito alla terra”, e persino un graphic novel). La Tuti è friulana (di Gemona) e, come lei stessa spiega nella nota conclusiva, “Fiori sopra l’inferno” affonda le radici nei paesaggi della sua terra: “In questo senso, nulla è stato inventato. Travenì, con la sua foresta millenaria, l’orrido, le miniere, i laghi alpini e le vette da vertigine, esiste davvero, sotto altro nome”. Certamente lo scenario del Friuli e le descrizioni della gente difficile di Travenì sono un punto di forza del romanzo. Quel che non convince, come non convince in Joel Dicker, è la forzatura di una storia che si vorrebbe realistica a spiegazioni che, pur inquietanti e insolite, non convincono il lettore più scettico, nonostante tutto si basi sulle conseguenze di disumani esperimenti scientifici realmente condotti su un gruppo di bambini, negli anni Quaranta, da uno psicanalista austriaco, René Spitz. Impossibile, naturalmente, entrare troppo nei dettagli senza fare dello spoiler, tuttavia si sa che il lettore deve giungere alla suspension of disbelief, o sospensione dell’incredulità, e io, che pure sono sempre disposto (anzi, non chiedo di meglio) a calarmi nei romanzi, questa volta non ci sono riuscito. Non ho mai creduto che dei bambini parlino e si comportino come i ragazzini di cui racconta la Tuti, non sono riuscito a convincermi che il serial killer a cui si dà la caccia possa avere le caratteristiche e le origini che gli vengono attribuite, non ho provato empatia nei confronti di nessun personaggio, men che mai di Teresa Battaglia. Mi sono sembrate strane e sconclusionate anche le tecniche investigative o l’aspetto da “police procedural” del romanzo. Non ho la minima idea, naturalmente, se al Quai des Orfèvres le indagini venivano condotte davvero come le svolgeva Maigret, ma ci ho sempre creduto. Non ho difficoltà neppure nel credere al pagliaccio di “It” o al Randall Flag de “L’ombra dello scorpione”, perché Stephen King mi irretisce. Ecco, purtroppo Ilaria Tuti no. Sono rimasto perplesso anche di fronte alla prosa. Non che mi aspetti che tutti siano Sciascia o Simenon, però sentite l’incipit: “C’era una leggenda che gravava su quel posto. Una di quelle che si appiccicano ai luoghi come un odore persistente. Si diceva che in autunno inoltrato, prima che le piogge si tramutassero in beve, il lago alpino esalasse respiri sinistri”. Mi si scusi se non capisco, ma qual è la leggenda? E’ una leggenda che in autunno un lago esali “respiri sinistri”? Lo sarebbe se fossero i respiri di un mostro che a qualcuno capita talvolta di incontrare, ma non se ne fa cenno. L’impressione è che la prosa sia ridondante e cerchi un effetto senza sostanza. Eppure, nel gruppo di lettura che frequento, in cui sono l’unico uomo, si è discusso di “Come vento cucito alla terra”, romanzo di ambientazione storica nella Londra ai tempi della Prima Guerra Mondiale (mi ha ricordato “Un semplice caso di infedeltà” della scrittrice inglese Jacqueline Winspear, con protagonista l’investigatrice Maise Dobbs) e le lettrici se ne sono dette entusiaste (mi riprometto di leggerlo anch’io). Mi chiedo pertanto se possa esserci un approccio diverso, di genere, tra uomini e donne, di fronte a Teresa Battaglia, e dunque diverse le sensibilità e diversi i giudizi finali.