lunedì 6 gennaio 2025

NOVE

 
 

 
Marco Ciardi
NOVE
Il Mulino
2024, brossurato
184 pagine, 14 euro

Il già ricco elenco dei titoli pubblicati da Marco Ciardi si arricchisce di questo aureo libretto, gradevolissimo da leggere, stuzzicante per curiosità e informazioni, emozionante per la quantità di ricordi condivisi in cui io e quelli che mi assomigliano finiamo per riconoscerci. Professore di Storia della Scienza all’Università di Firenze, saggista e divulgatore, appassionato di fumetti, Ciardi si inserisce, con il suo “Nove”, in una collana curata da Umberto Bottazzini intitolata “Storie di Numeri”, in cui ogni volume è affidato a un diverso autore che sceglie un numero su cui dire qualunque cosa voglia. Il teologo Gianfranco Ravasi si occupa, non a caso, del tre, il chimico e giallista Marco Malvaldi del dodici, giusto per fare degli esempi. Per quanto la numerologia colleghi il nove al tre (tre per tre fa nove) e dunque alla Trinità, Ciardi non se ne occupa per motivazioni mistiche o religiose. “L’idea di attribuire delle proprietà ai numeri, pur se caratterizzata da una nobile tradizione (che giustamente va studiata e compresa dal punto di vista storico), non ha alcun valore scientifico”, spiega l’autore. Quali sono dunque i collegamenti di “Nove” con gli argomenti indicati dal sottotitolo “storie di sport e fumetti, musica e scienza”? Il primo nasce dalla passione per il calcio: “sono sempre stato un numero 9”, rivela il prof, facendoci scoprire una militanza non occasionale nella squadra del Firenze Ovest e un certo numero (superiore a nove) di reti segnate. L’aneddotica personale di Ciardi sfocia però in una ricostruzione storica del come e del perché il 9 fosse (una volta) quello del centravanti, fino alla rievocazione delle partite della (sua e nostra) vita e delle figure dei giocatori più significativi con addosso quella maglia. Riguardo alla musica, due diversi capitoli sono dedicati a “Revolution 9”, la meno beatlesiana delle canzoni dei Beatles (contenuta nel nono, guarda caso, album della band, “The White Album”) e alla Nona di Beethoven, con un condivisibile rimpianto per la riproduzione HI-FI su impianti che oggi sono sostituiti da auricolari collegati allo smartphone. Si giunge poi alla “nona arte”, quella del fumetto, con tutta una serie di ricordi legati all’importanza che avevano i comics nella vita (e nella crescita) dei ragazzi di un tempo, quando venivano considerati spazzatura ed erano snobbati dagli intellettuali, salvo poi giungere oggi al riconoscimento pressoché unanime della loro valenza artistica. Un capitolo a parte è dedicato a Thor e ai “nove mondi” della mitologia norrena nella reinterpretazione marveliana (ma anche in quella Disney). Il sesto capitolo è intitolato “Thornton Square” perché è al numero civico 9 di quella piazza londinese che si svolge la fosca vicenda di “Angoscia” (Gaslight), diretto da George Cukor negli anni Quaranta, film scelto per parlare del cinema thriller e noir, alla Hitchcock, e giudicato da Ciardi come quello che più lo ha impressionato. Si passa poi i “nove spettri dell’anello” e dunque a parlare di Tolkien, e poi al nono pianeta del sistema solare, Plutone, successivamente retrocesso a poco più di un asteroide (per cui i pianeti sono rimasti in otto) e dei suoi insospettabili rapporti con Lovecraft. Infine, il nono capitolo è dedicato alla serie TV “Deep Space Nine” e quindi alla saga di Star Trek. Passione, erudizione, divulgazione, multidisciplinarietà, interconnessioni, cultura scientifica e pop, memoria storica e costume: nove elementi di interesse per un libretto illuminante e divertente. Che alla fine mi porta a considerare che io sono nato nel 1962, anno le cui cifre sommate danno 18, ma 1+8 = 9, e a chiedermi che numero sceglierei io se mi chiedessero un libro del genere. Dato che il 7 (giorno della mia nascita) è già stato preso da Raphael Ebgi, così come il 10 (il numero perfetto secondo Pitagora, essendo la somma di 1,2,3 e 4), scelto da Luisa Girelli, non restano che il 42 (la risposta universale secondo Douglas Adams) o il 52. Quello dello Zenith, naturalmente.



domenica 5 gennaio 2025

TEORIA DI GESU’

 


Michael Onfray
TEORIA DI GESU’
Ponte alle Grazie
2024, brossurato
260 pagine, 18 euro

“Il libro più atteso di Michel Onfray, annunciato da oltre vent’anni”, si legge in quarta di copertina. In effetti, per chi abbia letto il formidabile saggio in cui il filosofo francese smonta Freud (“Crepuscolo di un idolo”, 2011) o il  suo “Trattato di ateologia” (2005), vederlo confrontarsi con i Vangeli è effettivamente irresistibile fonte di curiosità e di interesse.  Il sottotitolo italiano di questo libro è  però fuorviante: “Gesù Cristo è esistito davvero?”. Fa credere, cioè, che l’intento dell’autore sia quello di dimostrare o smentire l’esistenza storica di Gesù. Argomento interessante, oggetto di altri libri, come quello di Bart Ehrman “Gesù è davvero esistito?”, del 2013 (Mondadori), in cui si ribadisce un fondamento storico della figura del Cristo, indipendentemente dal fastello di tradizioni, di miti e credenze che nei secoli ci si è costruito sopra. Ma, leggendo “Teoria di Gesù”, non pare proprio che sia questo aspetto, quello della storicità del personaggio, l’interesse della disamina di Onfray, che si occupa di altro. E’ vero che il filosofo francese parte dall’assunto che “di prove non ce ne sono, a meno di non voler credere che gli evangelisti siano degli storici e non degli apologeti”, tuttavia dicendo questo Onfray si limita a riferire una suo scetticismo riguardo alle fonti a cui altri sono invece maggiormente o decisamente disposti a prestare fiducia. Non propone nessuna dimostrazione della non esistenza di un predicatore o un capopopolo nella Giudea e nella Galilea sotto la dominazione romana, dalla cui figura abbia tratto origine il cristianesimo. Quello che Onfray secondo me fa, o si propone di fare, è costatare come ogni elemento della narrazione attorno a Gesù corrisponda a precedenti narrazioni, talvolta risalenti a miti e leggende antichissime, bibliche e non bibliche. Quando l’autore scrive: “Gesù non è mai esistito storicamente ma solo come concetto”, si riferisce all’idea di Gesù che ci è stata tramandata, l’unica che ci è dato in effetti di conoscere. “La sua esistenza è solo l’effetto di una elettrolisi di tipo spirituale, intellettuale, filosofico, simbolico, allegorico e metaforico, e tutto nel solco dello sviluppo di una storia vecchia di duemila anni. Parliamo di una creatura ideale”. Onfray, con il suo metodo analitico ben noto a chi conosce le sue opere precedenti, esamina i passi dei Vangeli scovando e segnalando le fonti precedenti che li hanno ispirati. Miracoli, parabole, insegnamenti hanno tutti precisi rimandi a qualcosa di antecedente. Perfino l’imperatore Vespasiano, secondo Svetonio e Tacito, aveva compiuto miracoli restituendo la vista ai ciechi e guarendo paralitici ma naturalmente non è da un’aneddotica di questo tipo di cui fa usa Onfray che, con erudizione, indica i passi dell’Antico Testamento (i tanti topoi veterotestamentari) collocati dietro o alla base, per esempio, della parabola dei vignaioli, o segnala come, nei Vangeli, Gesù si nutra solo di simboli (pane, pesce, agnello). “I quattro evangelisti saccheggiano i mattoni dell’Antico Testamento con il progetto di costruire il proprio Tempio chiamato Gesù”, conclude il filosofo francese. Questo, indipendentemente dal fatto che la figura del Cristo si basi su una persona davvero vissuta.



martedì 31 dicembre 2024

LA PALUDE MALEDETTA

 


 
Moreno Burattini
Arturo Lozzi
LA PALUDE MALEDETTA
Sergio Bonelli Editore
cartonato, 2024
80 pagine, 19 euro
 
Nel 2019, in occasione del cinquantennale del classico intitolato “Zagor racconta…”, scritto da Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli) e illustrato da Gallieno Ferri, venne dato il via a un progetto di rinarrazione (non già di riscrittura) del passato dello Spirito con la Scure, ovvero il “romanzo di formazione” che porta il giovane Patrick Wilding a dare un senso alla propria vita, vestendo i panni del peacekeeper armato, garante della giustizia nella foresta di Darkwood, in un costante tentativo di mantenere la pace fra le varie comunità ed etnie che la popolano. 
 
Nacque così la collana “Le Origini”, accolta da un lusinghiero successo di pubblico e di critica, di cui “La palude maledetta” è il settimo volume. I primi sei episodi hanno svelato quanto era rimasto di non spiegato e non detto nella storia del 1969, senza entrare in contraddizione con ciò che già sapevamo. Sono stati raccontati gli anni dell’eroe che vanno dalla sua infanzia fino al momento in cui veste i panni dello Spirito con la Scure. La narrazione si interrompe allorché l’eroe decide di costruire la sua capanna in un luogo ritenuto tabù dai nativi della foresta, la palude di Mo-Hi-La, in modo da creare attorno alla sua figura un’aura leggendaria, quella di un uomo che ha osato sfidare gli spiriti maligni.
 
 
 
“La palude maledetta” prosegue dunque il racconto, ripartendo proprio da lì. Guido Nolitta, però, a proposito di Mo-Hi-La, non ha mai detto una parola di più di quanto troviamo scritto ne “La foresta degli agguati”, la striscia di esordio datata 15 giugno 1961. Zagor spiega a Cico, che gli chiede cosa sia la “Terra Tremante” verso cui il Re di Darkwood lo sta conducendo: “E’ il nome che gli indiani danno alla palude di Mo-Hi-La ed è proprio laggiù che io ho il mio rifugio. Vedi quella specie di isolotto che si alza nel mezzo della palude? Quello sarà la tua casa, d’ora in poi”. E poiché Cico sembra spaventato dai pali con i teschi piantati nell’acqua tutto intorno, Zagor prosegue: “Niente paura, vecchio mio… tutto questo fa parte della messa in scena che ho preparato per tenere alla larga i curiosi. Gli indiani, infatti, considerano la palude come il regno degli spiriti e si guardano bene dal mostrarsi da queste parti”.
 


Quanto al perché l’eroe dalla casacca rossa abbia scelto proprio quella striscia di terra asciutta, “Zagor Racconta…” non ci viene in aiuto. Essendo stato invitato dalla Casa editrice a completare la serie de “Le origini” fino al numero dieci, coprendo l’arco di tempo (non sappiamo quanto lungo) tra l’apparizione ai sakem e l’incontro con Cico, mi sono reso conto di non poter contare sul supporto di un “ipse dixit” nolittiano. Però abbiamo una fonte, meno autorevole ma del resto l’unica, da cui attingere. Fino al 2016 nessuno, nello staff degli sceneggiatori della serie, volle provare a immaginare da che cosa derivasse la pessima fama del luogo presso i nativi. Poi, in quell’anno, il sottoscritto (nelle vesti di sceneggiatore) e il disegnatore Walter Venturi, realizzammo un breve racconto di sedici tavole, pubblicato a colori e intitolato “Mo-hi-la, la palude maledetta”, in occasione dell’uscita dell’album di figurine dedicato a Zagor dalla Casa editrice Panini.
 
 
Volutamente, visto che molte vignette avrebbero dovuto servire da base per una sagomatura di adesivi fustellati, e in coerenza con il tono giocoso del contenitore, alla vicenda narrata venne dato un tono leggero in cui le sequenze più horror venivano sdrammatizzate. Nel 2018 le stesse sedici pagine vennero riproposte, sempre a colori, nel volume della Sergio Bonelli Editore “Io, Zagor” e successivamente comparvero, in bianco e nero, all’interno dello Speciale Zagor n° 35 del 2022. 
 
 

 
Tuttavia, l’argomento meritava un maggiore approfondimento e una trattazione più drammatica. Mi fu subito chiaro che il settimo volume de “Le Origini” sarebbe stata l’occasione adatta. Nell’attesa che riprendessero le pubblicazioni (momentaneamente sospese dopo il n° 6), una anteprima di quaranta tavole in bianco e nero venne pubblicata nel 2021 nel Magazine dedicato al sessantennale dell’eroe di Darkwood. Adesso, potete leggere il racconto completo e a colori, illustrato da Arturo Lozzi, dimostratosi straordinariamente efficace alle prese con lo Spirito con la Scure (c’è un suo breve racconto sullo Zagor Più n° 3, che funge da prova generale).
 
 

 
Il cartonato “La palude maledetta” (grande formato, sessanta tavole a fumetti, ricco apparato critco e iconografico) è stata presentato a Città di Castello a metà ottobre del 2024, in anteprima sull’uscita in occasione di Lucca Comics & Games nel novembre dello stesso anno. Ecco due foto della prsentazione in terra umbra (Lozzi è per l'appunto umbro).
 
 
 

 
E' disponibile anche una versione variant cover: le due copertine (vedete la variant qui sotto) sono entrambe opera dell'ottimo Michele Rubini (umbro a sua volta). L’ottavo, il nono e il decimo volume usciranno nel corso del 2025. 

 

A me e ad Arturo sono giunti numerosi apprezzamenti, ma mi è capitato di leggere una critica davvero singolare a cui vorrei rispondere. Un lettore, non so se rappresentativo di una nutrita corrente di pensiero o singolo detrattore, si lamenta più o meno (cerco di riportare il suo pensiero per come l’ho capito) del fatto che “La palude maledetta” riporti la versione dei fatti già nota dopo la storia dell’album di figurine e dopo l’anteprima del Magazine del sessantennale. “Mi aspettavo qualcosa di diverso”, commenta più o meno. 
 
Ora, l’anteprima del 2021 era appunto una anteprima, quindi logicamente le tavole già pubblicate (trentasette su sessanta, essendo ventitré quelle nuove, ma con numerosi rimontaggi) propongono le stesse vignette, però colorate. Se poi la critica riguarda lo svolgimento della trama, ugualmente non si capisce come sarebbe stato possibile raccontare cose diverse avendo stabilito (per di più, in due occasioni) che gli avvenimenti erano stati quelli. Viene da pensare che il contestatore si sarebbe aspettato “qualcosa di diverso” anche durante i volumi ispirati da “Zagor Racconta…”. Magari avrebbe preferito sentirsi dire che la mamma di Patrick Wilding aveva lasciato il marito innamorata di Salomon Kinsky? Non so, davvero si potrebbe raccontare “qualcosa di diverso” contraddicendo ciò che già si sa? Mah.  
 
Se uno criticasse “La palude maledetta” per i dialoghi banali o delle falle logiche nella sceneggiatura, non mi resterebbe che prendere atto della contestazione ragionando su quanto di vero possa esserci, per fare meglio in futuro. Ma se la critica riguarda l’aver conservato la stessa versione dei fatti già data due volte in precedenza, allibisco e mi cadono le braccia. Per consolare i detrattori che sostengono questa tesi, anticipo comunque che l’ottavo volume de “Le Origini”, disegnato da uno strepitoso Darko Perovic, per l'appunto racconterà in modo diverso fatti già noti, per motivi che saranno spiegati nella mia postfazione.
 

 


  

domenica 22 dicembre 2024

SAMURAI



 
Guido Nolitta
Franco Bignotti
SAMURAI
Sergio Bonelli Editore
2024, cartonato
256 pagine, 28 euro

Per la prima volta, un cartonato bonelliano dedicato a raccogliere in un volume a colori e di grande formato un classico della saga di Zagor (una tradizione che si rinnova ogni anno) non propone ai lettori una storia illustrata da Gallieno Ferri, ma da Franco Bignotti (1930-1991), continuando comunque a pubblicare racconti scritti da Guido Nolitta (lo pseudonimo con cui l’editore Sergio Bonelli, che creò il personaggio nel 1961, firmava i fumetti da lui sceneggiati), da sempre i più amati dal pubblico degli aficionados zagoriani. Non ci sono dubbi sul fatto che sia l’avventura che il disegnatore (dando per scontato l’omaggio a Nolitta) meritassero una edizione di pregio, alla quale ho contribuito anch’io con una illustrata prefazione di cui riporto qui di seguito alcuni estratti.

Qualcosa di nuovo sul fronte orientale
di Moreno Burattini

Le date sono importanti. La storia di Zagor “Arrivano i Samurai”, raccolta per la prima volta in questo volume, uscì originariamente a puntate su tre albi della Collana Zenith distribuiti in edicola tra il marzo e il maggio del 1975. Datato 1971 è invece un film, “Sole rosso”, diretto da Terence Young e interpretato da Charles Bronson, Alain Delon, Ursula Andress e Toshiro Mifune. Qual è il collegamento? Chiunque abbia letto qualche avventura a fumetti dello Spirito con la Scure sa che non si tratta di racconti definibili come western così come di solito li si intende, ma che, anzi, le contaminazioni fra i generi sono quasi la regola. Anche “Sole rosso”, dal canto suo, è una pellicola che intreccia l’ambientazione del classico Far West con suggestioni esotiche di tipo diverso: infatti, uno dei protagonisti (quello, anzi, che soprattutto buca lo schermo) è un samurai, Kuroda, che ha la missione di recuperare una preziosa spada, dono dell’imperatore del Giappone al presidente americano Grant, rubata da alcuni banditi mentre viene trasportata in treno dalla costa occidentale a quella orientale. Sergio Bonelli (che firmava le sue sceneggiature con lo pseudonimo di Guido Nolitta) era appassionato cinefilo in grado di citare, a richiesta e con una memoria prodigiosa, trame, cast e date di infinite pellicole. Più volte l’autore ha raccontato, nelle sue interviste, come i suoi racconti nascessero non già da chissà quale lunga elaborazione e da ripetuti aggiustamenti in corso d’opera, quanto piuttosto istintivamente, assecondando l’estro creativo di una scrittura che fluiva di getto. Il trucco perché questa tecnica desse buoni frutti, al di là del grande talento affabulatorio di cui era dotato, era semplicissimo: Bonelli saccheggiava il grande magazzino delle letture e dei film che aveva visto, scegliendo quello che, da ragazzo, lo aveva impressionato, gli aveva fatto paura, lo aveva lasciato a bocca aperta. Dopodiché, filtrandoli opportunamente, cercava di trasmettere gli stessi brividi a chi leggeva i suoi fumetti.  Zagor è un eroe trasversale ai generi, e le sue storie come il regno della contaminazione fra le suggestioni più diverse appunto perché dentro lo stesso sceneggiatore, consumatore onnivoro di cinema e carta stampata, ribollivano le idee suggerite dalla fruizione di ogni tipo di “fabula”.
Sicuramente del background culturale nolittiano facevano parte molti film con protagonisti dei samurai, a partire da “I sette samurai”, capolavoro di Akira Kurosawa del 1954, interpretato peraltro anch’esso da Toshiro Mifune. Della lista fanno di certo parte anche “Harakiri” di Masaki Kobayashi (1962) e “13 assassini”, di Eichi Kudo (1963). Però, a ben guardare, è soprattutto “Sole rosso” il principale punto di riferimento, perché il regista Terence Young porta i samurai nel western, e dunque opera una contaminazione: un suggerimento irresistibile per uno come Sergio Bonelli. Peraltro, il guerriero giapponese Kuroda, nel film, ha la caratteristica di citare di continuo il Bushido, il codice d’onore dei samurai, cosa che anche Nolitta fa fare al principe Okada Minamoto, il nobile alla guida di un piccolo esercito personale giunto a Darkwood direttamente dal Giappone. (…) Come suo solito, Nolitta non si limita a raccontare una semplice storia d’avventura, ma sfoggia erudizione e documentazione, descrivendo i samurai con una quantità di informazioni come raramente capitava di riscontrare nei fumetti popolari degli anni Settanta. Ma, soprattutto, scava nelle psicologie dei personaggi scrivendo tavole indimenticabili come quelle del duello fra Zagor e Minamoto. C’è soprattutto un discorso che l'eroe di Darkwood pronuncia di fronte a un suo avversario, che descrive perfettamente la filosofia che guida e sostiene il braccio dell’eroe: "Anche la mia vita, non c'è dubbio, è segnata dal marchio della violenza - dice lo Spirito con la Scure al guerriero giapponese che gli sta davanti - ma tra noi esiste fortunatamente una differenza incolmabile! Se io combatto, se io uccido, è soltanto perché la situazione di questo meraviglioso ma ancora selvaggio Paese me lo impone! Un giorno, spero, giuste leggi, mentalità più aperte smusseranno i punti di attrito tra gli abitanti di Darkwood e i conquistatori bianchi... in quel preciso istante io rinuncerò senza alcun rimpianto alla mia immagine di combattente e di guerriero, e sarò lieto di buttare nel più profondo dei fiumi quella scure che ora considero un mezzo sgradevole ma indispensabile per ottenere un po' di giustizia!". Nel 2005, sulla collana Zenith, è apparsa un’avventura che costituisce il sequel al classico pubblicato in questo volume. Ne è protagonista il giovane samurai Takeda, che è fra i guerrieri al servizio del principe Minamoto rimasti in Giappone in attesa del suo ritorno e che, divenuto un ronin, riceve l’incarico di uccidere lo Spirito con la Scure, raggiungendolo dovunque si trovi.



sabato 7 dicembre 2024

M. L’OMBRA DEL DESTINO



Antonio Scurati
M.
L’OMBRA DEL DESTINO
Bompiani
2024, brossurato
670 pagine, 24 euro

E’ necessario un riassunto delle puntate precedenti. “M. L’ombra del destino” è la quarta parte di una monumentale biografia di Benito Mussolini, iniziata con “M. Il figlio del secolo”, vincitore del premio Strega 2019. Cliccando sul titolo potete leggere la recensione apparsa a su tempo su questo blog.
Non si tratta di un vero e proprio romanzo, ma non è neppure un saggio storico. L’autore, l’accademico napoletano Antonio Scurati (1969), lo definisce “romanzo documentario”. Di Mussolini, nel primo tomo, si racconta l’ascesa al potere in Italia negli anni che vanno dal 1919 al 1924, più o meno dalla fondazione dei “Fasci di combattimento” fino all’ omicidio di Giacomo Matteotti. Non è solo del Duce che si parla ma, attraverso di lui, si descrivono le figure di molti altri personaggi: Matteotti, appunto, ma anche Gabriele D’Annunzio, Filippo Turati, Italo Balbo, Amerigo Dùmini, Nicola Bombacci, Luigi Facta, solo per citare alcuni dei protagonisti di quel tragico quinquennio.
Nel 2020 esce il secondo volume, “M. L’uomo della Provvidenza”, che narra gli avvenimenti dal 1924 al 1932. Vi si narra il consolidamento del regime attraverso la progressiva soppressione delle più elementari regole democratiche e l’accentramento del potete nelle sole mani del Duce, che arriva a sottrarsi addirittura dal controllo del Partito Fascista, il cui Consiglio diventa un mero esecutore della volontà di autocrate, mentre sotto di lui si assiste a una guerra fra fazioni (Farinacci contro Giampaoli e Belloni, Arnaldo Mussolini contro Achille Starace).
Nel 2022 ecco uscire la terza parte della biografia. “M. Gli ultimi giorni dell’Europa” racconta avvenimenti accaduti tra il 3 maggio 1938 (inizio della visita di Adolf Hitler in Italia con il suo arrivo a Roma) e il 10 giugno 1940 (data infausta dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco del nazisti).  Come nei precedenti volumi, la lettura è angosciante, anche di fronte a pagine volutamente asettiche, di chirurgica elencazione di fatti. Per quanto fosse evidente ciò a cui si andava incontro, così come erano evidenti la follia di Hitler e la perdita di lucidità del Duce, nessuno di coloro che potevano fare qualcosa per evitare l’entrata in guerra, lo fece. Sgomento e incredulità anche di fronte alle ignobili leggi razziali, di fronte alle quali troppi furono complici. Tanti i personaggi sulla scena, da Galeazzo Ciano, ministro degli esteri privo di spessore, a Claretta Petacci, cresciuta nel mito di Mussolini e divenuta la sua ultima fiamma, dall’ambasciatore a Berlino Bernardo Attolico (a cui si deve uno degli ultimi tentativi di scongiurare in coinvolgimento italiano nel conflitto) a Edda, figlia del Duce, fervente filonazista. Personaggi anche stranieri, francesi, inglesi, americani, tedeschi, polacchi, austriaci, di cui assistiamo alle manovre diplomatiche e a squarci di vita privata

Ed ecco, nel 2024, il quarto volume, questo “M. L’ora del destino” che racconta gli avvenimenti che vanno dal giugno 1940 al luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo, con l’appoggio del Re, esautora Mussolini e proclama Primo Ministro Pietro Badoglio, il quale, parlando via radio, dichiara: “la guerra continua”. Tutto lascia supporre e sperare che Scurati prosegua la biografia del Duce fino agli eventi dell’aprile 1954. C’è spazio e abbondanza di materiale per un quinto volume. 
Le seicentosettanta pagine di questo si leggono senza riuscire a staccare gli occhi dalle righe, svelando avvenimenti e retroscena non noti a chi abbia degli anni del regime fascista una conoscenza scolastica. Si assiste allo sgretolamento di un uomo, di un mito artificioso, di una falsa rappresentazione. Come a Mario Rigoni Stern, uno dei protagonisti in positivo,  si aprono gli occhi anche a milioni di italiani, che si riconoscono ingannati e traditi, usati come carne da cannone in imprese folli di conquista e di invasione di terre altrui, peraltro senza mezzi, gettati allo sbaraglio, comandati a eseguire crudeltà inaudite che si ritorcono contro di loro. Anche Mussolini si sente tradito dagli italiani, ritenuti popolo di calabrache senza nerbo. A proposito della tragica situazione dei soldati da lui spediti in Russia, scrive: “Questa neve e questo freddo vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce e si rafforza questa mediocre razza italiana”.  Dopo il primo mese di guerra: “Ho poca fiducia nella nostra razza: al primo bombardamento che distruggesse un campanile famoso, gli italiani alzeranno le braccia”. Nel novembre del 1942: “ E’ inutile, la razza è quello che è; e non la si corregge dall’oggi al domani. Ho inventato un neologismo: i bracaioli, per quelli che stanno sempre con le brache in mano”. Spariscono comunque le adunate oceaniche, la propaganda si fa inefficace, lo scenario di cartapesta si sgretola. Attorno al Duce, Scurati illumina di volta in volta, come sotto uno spot teatrale, le figure di militari, uomini politici, fascisti della prima ora e dell’ultima, a volte rivoltanti e fanatici, a volta lucidamente consapevoli del disastro incombente. Due le donne chiamate alla ribalta: Edda Ciano e soprattutto Claretta Petacci. Se ci sarà un quinto volume, conclusivo, le immagino tragiche protagoniste entrambi.


domenica 10 novembre 2024

CHI DICE E CHI TACE

 

 
Chiara Valerio
CHI DICE E CHI TACE
Sellerio
2024, brossurato
288 pagine, 15 euro

Finalista nell’edizione 2024 del Premio Strega (leggo che c’è chi sostiene anche che meritasse di vincerlo, e può essere), “Chi dice e chi tace” sembra un giallo ma non lo è – non traggano in inganno la copertina e la somiglianza di grafica e di formato con i polizieschi di Manzini. Tuttavia il romanzo comincia con una morte misteriosa (che sembra un incidente ma nasconde una verità celata dalle apparenze), si snoda seguendo il corso di un’indagine (condotta non dai carabinieri o dalla Polizia, ma da un’amica della vittima), si conclude con una soluzione convincente. Tuttavia, al di là della “forma” da inchiesta su un fatto di cronaca di provincia, il racconto è un intrigante svelamento della figura enigmatica della vera protagonista, che spicca per la sua assenza: la donna trovata morta annegata nella vasca da bagno di casa sua, Vittoria Basile. E, attraverso lei, o meglio, attraverso ciò che di lei si dice e si tace, il rivelarsi di desideri segreti, verità nascoste, ambiguità e comportamenti difficili da decifrare, all’interno della piccola comunità di Scauri, ultimo paese della costa laziale prima che cominci la Campania. A Scauri è nata, nel 1978, Chiara Valerio, l’autrice, che oltre a scrivere si occupa di matematica. “Chi dice e chi tace” è ambientato, nell’ultimo scorcio del secolo scorso: Vittoria Basile, donna volitiva e seducente, in grado di farsi amare ed accogliere nonostante l’anticonformismo delle sue scelte, giunge nella piccola località di mare lasciando la metropoli, Roma, dove ha abitato per quarant’anni. E’ in compagnia di Mara, una ragazza molto più giovane, che vive con lei senza che nessuno sappia dire che tipo di rapporto le leghi. Vittoria non sembra avere problemi economici, ma non vive di rendita: apre una pensione per animali, inizia a collaborare come erborista con la farmacia locale. Lea Russo, avvocatessa di provincia, comincia a frequentarla, sentendosene attratta, le diventa amica, ma solo fino a un certo punto perché Vittoria, per quanto affascinante e capace di relazionarsi con chiunque, in realtà non scopre mai davvero le sue carte. Nessuno può dire di sapere chi davvero sia, tutti sanno soltanto quello che lei vuole che si sappia. Lea si rende conto di non avere neppure mai saputo il cognome della donna. Con la sua morte, però, le cose cambiano: Lea scopre che Vittoria è sposata con un avvocato romano, che ha un passato da valente medico, che ha lasciato il marito e la vita di società di cui era protagonista il giorno dopo aver conosciuto Mara. Il testamento, affidato alla Russo, chiama in causa un’altra donna, Rebecca, che aiuta Lea a risolvere il caso, aprendole gli occhi su un mondo più complicato e indecifrabile di quanto le apparenze sembrano rivelare, e anche su se stessa, sulle proprie pulsioni, sulla propria identità. La libertà di una donna emancipata e sessualmente disinibita come Vittoria riesce (per quanto non sembri possibile, o perlomeno facile) a superare le barriere del moralismo di provincia e, almeno secondo quanto suggerisce la Valerio, persino a Scauri negli anni Settanta una convivenza lesbica può essere accettata se chi la vive dimostra di saper prendere la propria esistenza tra le mani e scegliere di dire e tacere ciò che vuole.


domenica 3 novembre 2024

V13

 

Emmanuel Carrère
V13
Adelphi
2023, brossurato
272 pagine, 20 euro


“Niente opinioni, ma lavoro sul campo”. Questa la dichiarazione di intenti con cui Emmanuel Carrére ha proposto a Jérome Garcin, responsabile delle pagine culturali dell’ “Obs” (un settimanale francese) la propria collaborazione per raccontare, per un anno intero, il processo ai responsabili rimasti in vita degli attentati terroristici del 13 novembre 2015, quelli che causarono a Parigi 130 morti e oltre 350 feriti in tre diversi punti della città, tra cui il teatro del Bataclan, dove si contarono novanta vittime. Il dibattimento si è svolto in una apposita struttura allestita sull’ Ile de la Cité tra il settembre 2021 e il giugno 2022. Migliaia di testimoni, centinaia di avvocati, quattordici imputati. V13 è il nome dato alla sala del processo e al processo stesso, e fa riferimento al “venerdì 13”, giorno delle stragi. 
Ogni reportage dalle udienze doveva essere lungo circa ottomila battute, da consegnarsi tutti i lunedì mattina: un impegno a cui Carrère non è mai venuto meno. I suoi articoli, oltre che su due pagine dell’ “Obs”, sono regolarmente apparsi su “Repubblica” in Italia, sul “Paìs” in Spagna, e su Temps” in Svizzera. Nel raccoglierli in un libro (quello di cui stiamo parlando), Carrère li ha ritoccati un po’, spiega, aggiungendo: “soprattutto, ho incorporato qualche brano che non aveva trovato posto nella mia rubrica settimanale. Ecco perché il libro è più lungo di un terzo rispetto a quanto è uscito sui giornali”. 
Ora, chiunque abbia letto qualche precedente scritto di Emmanuel Carrére (da “Limonov” a “Il Regno”, ma soprattutto “L’Avversario”) sa quanto la sua capacità di affabulatore sovrasti l’argomento trattato: è uno che riuscirebbe a rendere interessante la spiegazione dei venti fogli di clausole e di liberatorie della privacy e del trattamento dati in un ufficio pubblico. Scrive maledettamente bene, e il “maledettamente” fa riferimento al fatto che non si riesce a smettere di leggerlo. Una capacità assoluta di raccontare, peraltro parlando in prima persona: le sue esperienze diventano le nostre. Però, mi chiedo: è davvero possibile parlare della strage del Bataclan “senza opinioni”, ma facendo solo “lavoro sul campo”? Inutile dire che io non avrei retto due giorni, nell’aula del V13, ascoltando le vittime (i parenti degli uccisi, e i sopravvissuti) raccontare della poltiglia di sangue e brandelli umani su cui camminarono per uscire dal locale coloro che si salvarono. O di come l’incontro con gli amici ai tavolini di un caffè si sia trasformato in una carneficina. Carrére ci riesce (facendoci comunque stare male), perché racconta le storie delle vittime e quelle degli attentatori, ricostruendo gli anni in cui famiglie intere di radicalizzati partivano per la Siria, con l’intenzione di popolare uno “stato islamico” e poi chi se ne pentiva non riusciva più a tornare indietro, e chi tornava indietro spesso era per compiere attentati. Alcuni felici di farlo, ma anche alcuni pieni di dubbi e pronti a disertare, come nel caso di almeno un paio del commando parigino del 13 novembre. “Non sono nato con un mitra in mano”, dice uno degli imputati. E allora, com’è accaduto che lo ha impugnato? Carrère, con la pacatezza di cui io non sarei capace, indaga in cerca di una risposta. E si finiscono per vedere mille sfumature che da lontano non si distinguono. Non si assolve nessuno, ma si riportano i punti di vista di tutti. Però è certo che il punto di vista di chi dichiara che non si tratta di stupri, ma di programma di ripopolamento è qualcosa che a me disturba, come disturba sentir dire che la strage del Bataclan fu colpa del presidente Holland. A me disturba peraltro anche chi difende gli assassini della strage di “Charlie Hebdo": quelli di “Charlie Hebdo” se la sarebbero cercata, le loro vignette erano offensive. Se qualcuno si ritiene offeso, prenda la matita e satireggi pure lui, se ne è capace. Oppure se ne lagni, tenga il muso, scriva lettere di protesta. Nei casi estremi, se proprio è stata infranta una legge, si rivolga alla magistratura per far pagare una multa agli umoristi. Ma se prendi il mitra e macelli chi ha soltanto disegnato, è evidente che hai perso la ragione. Le idee si combattono con le idee. Se le combatti con le armi, vuol dire che le tue idee sono più deboli. Il fatto che Charb o Wolinski o chiunque altro disegnassero vignette che qualcuno non facevano ridere o che qualcun altro indignavano, non ha nessuna importanza rispetto al principio che quegli autori avessero il diritto (e perfino il dovere) di pubblicarle. In ogni caso, Carrére è molto onesto nel riferire, nel distinguere, nell’empatizzare, prendendo le difese per esempio di tre imputati a piede libero (che poi infatti a piede libero sono rimasti) che con ogni evidenza hanno avuto un ruolo inconsapevole o marginale, al netto della taqiyya (non sono in grado di spiegare bene con Carrére che cosa sia esattamente, ma grazie a lui l’ho capito). Ua figura simbolo di “V13” è sicuramente Nadia Mondeguerre, da sempre impegnata nelle relazioni con il mondo musulmano, studiosa di Islam, in grado di parlare arabo, la cui figlia Lamia figura tra le vittime delle stragi, ma che nel 2018 è tornata al Cairo, dov’è nata, e dove un egiziano, ascoltata la sua storia, le ha detto: “tua figlia e gli altri sono shuhada, martiri”. Loro, non gli assassini che li hanno uccisi.

sabato 2 novembre 2024

IL LEVIATANO

 

Rosie Andrews
IL LEVIATANO
Neri Pozza
2024, brossura
320 pagine, 19 euro

C’è un altro libro intitolato “Il Leviatano”, e l’ha scritto il filosofo inglese Thomas Hobbes nel 1651. Chiaramente, non è questo. Sia lui che Rosie Andrews, l’autrice del romanzo di cui ci stiamo occupando, fanno riferimento però allo stesso mostro citato da alcuni passi della Bibbia. Il Leviatano, di cui parlano Giobbe, Isaia, Amos e i Salmi, è una sorta di gigantesco serpente marino, un drago che incarna il caos primordiale, corrispondente a creature simili presenti in altre mitologie. Hobbes lo usa come simbolo del dispotismo dello stato che tiranneggia sui comportamenti dei singoli decidendo per loro. Rosie Andrews, in questo suo primo romanzo di grande successo, lo usa invece fuor di metafora (poi, una metafora si può sempre trovare, anche per la Vispa Teresa) raffigurandolo proprio come un mostro marino serpentiforme. Tuttavia, la scrittrice inglese non sceglie la strada del romanzone horror pronto per gli effetti speciali del cinema, o del kolossal catastrofico facendo emergere dall’Oceano una sorta di Godzilla. Al contrario, la vicenda proposta è minimalista: in parte racconto gotico, in parte romanzo storico (è ambientato nella contea di Norfolk, in Inghilterra, nel Seicento), in parte storia d’avventura e di mistero in cui il Leviatano si vede poco o punto. Eppure sembra esserci proprio lui nella possessione demoniaca che ha come vittima la sedicenne Esther Treadwater, improvvisamente diventata una “non Esther” per quel che dice, per quel che fa. Suo fratello Thomas, rientrato a casa dalla guerra, la trova trasformata e, indagando tra le carte del padre finito in stato comatoso, scopre che Esther non è sua sorella, ma fu adottata dopo essere stata salvata dal relitto di una nave affondata appunto dal Leviatano. Con l’aiuto di una donna accusata di stregoneria e strappata al supplizio, Chrissa Moore, e di un vecchio amico del padre, John Milton,  il razionale Thomas cerca con ogni mezzo di liberare la sorella dalla maledizione. Il tutto è ben raccontato, per carità, così come convince la ricostruzione degli ambienti e della società. Tuttavia, personalmente ho chiuso il libro arricciando il naso, vagamente deluso. Il collegamento fra il mostro marino e la possessione demoniaca di Esther non sembra convincente e resta sbilanciato il rapporto fra il potere distruttivo del Leviatano e la piccola posta in gioco costituita dalla salvezza della famiglia Treadwater.





sabato 26 ottobre 2024

I RAGAZZI DEL MASSACRO

 



Giorgio Scerbanenco
I RAGAZZI DEL MASSACRO
Garzanti
2014, brossurato
240 pagine, 8.90 euro


Con “I ragazzi del massacro”, datato 1968, le indagine di Duca Lamberti giungono alla terza puntata, dopo “Venere privata” e “Traditori di tutti”, entrambi pubblicati nel 1966. In tutto, i romanzi sarebbero stati quattro. L’ultimo, uscito nel 1969, “I milanesi ammazzano al sabato” avrebbe interrotto la serie per la morte dell’autore, Giorgio Scerbanenco, nato da Kiev da padre ucraino e madre italiana (1911-1969). Di lui e del suo talento ci siamo già occupati in questo stesso spazio: potete leggere le recensioni ai primi due romanzi citati poco sopra, cliccando sui titoli evidenziati dal colore.
Non starò dunque a ripetere quando Scerbanenco sia uno scrittore straordinario, né quanto risulti interessante la sua stessa biografia, né come ci sia da rimpiangerne la prematura scomparsa (che tuttavia non gli ha impedito di essere un autore prolifico nei generi più disparati). 
“I ragazzi del massacro” ha comunque delle peculiarità che lo rendono particolarmente interessante arricchendo gli elementi, come l’ambientazione milanese e il corredo di comprimari ricorrenti (Livia Ussaro, il commissario Carrua, l’agente Mascaranti, la sorella Lorenza). A proposito di questi, Scerbanenco continua a dimostrarsi impietoso verso il suo personaggio: al dramma di Livia rimasta sfigurata proprio per colpa di Duca che l’ha esposta (lei consenziente) a un grave rischio, sia aggiunge la grave malattia della nipotina Sara. C’è, insomma, l’intento di collegare fra loro i romanzi di Duca Lamberti in una sorta di continuity e di sottoporre il protagonista a ripetuti stress emotivi, cominciati con la radiazione dall’albo dei medici per una eutanasia che gli costa tre anni di reclusione. Per Lamberti la vita non è certo una passeggiata, anche se l’amico Carrua lo fa entrare il polizia, dopo averlo visto all’opea come collaboratore esterno nei primi due casi. Questa volta il caso riguarda una violenza di gruppo e l’efferata uccisione di una giovane insegnate di una scuola serale, Matilde Crescenzaghi, da parte dei suoi stessi allievi, ragazzi tra gli undici e i vent’anni, che hanno agito in branco ma che, interrogati singolarmente, si dichiarano tutti estranei, semplici spettatori alla violenza degli altri. Eppure c’è chi li ha aizzati, chi ha introdotto nell’aula dell’alcool e della droga. Uno dei ragazzi, o qualcuno venuto da fuori? Duca Lamberti indaga scavando nella personalità di ognuno, scoprendo percorsi diversi anche se tutti segnati dal riformatorio, dal disagio famigliare, dallo squallore della vita nel sottobosco malavitoso e dalle frequentazioni equivoche. C’è anche chi ha tentato di fare qualcosa per recuperarli, ma ci sono anche famiglie che hanno abbandonato i figli al loro destino. Scerbanenco affronta tematiche come l’emarginazione, l’omosessualità, la prostituzione, la tossicodipendenza, la violenza minorile, il carcere e lo fa senza timore di sporcarsi le mani, con i consueti metodi spicci ma anche con la disponibilità a comprendere sentimenti ed emozioni, dimostrando una umanità e un talento da psicologo paragonabili a quelli di Maigret. Troppo ardito paragonare Scerbanenco a Simenon? Chissà. 
Dal romanzo "I ragazzi del massacro", il regista Fernando Di Leo trasse nel 1969 un film dal titolo omonimo, con Pier Paolo Capponi nel ruolo di Duca Lamberti.

sabato 19 ottobre 2024

AMORE E GINNASTICA E ALTRI RACCONTI

 

 
Edmondo De Amicis
AMORE E GINNASTICA E ALTRI RACCONTI
Rizzoli
1986, brossurato
250 pagine, 8000 lire

E’ un peccato che il successo entusiasmante, plurigenerazionale e internazionale di “Cuore” (o meglio, del “libro Cuore”, come è stato, chissà perché, sempre chiamato), pubblicato nel 1886, abbia lasciato in ombra le altre opere di Edmondo De Amicis (1846-1908). Ligure (di Oneglia, in provincia di Imperia), di ideali socialisti (di quel socialismo patriottico e votato all’impegno civile post risorgimentale), combattente nella Terza Guerra d’Indipendenza, fu autore di reportage di viaggi, giornalista brillante, acuto testimone della sua epoca, prosatore gradevole e divertente, scrittore efficace e pertanto di valore. Non fu mai, per quel che ne se dice, uno a cui il successo diede alla testa. In vecchiaia, si raccontava così: “Io non sono che un giornalista, uno che annota la vita d’ogni giorno, e sceglie in essa quel che più d’esemplare vi accade. Certe volte mi piace divertire i miei lettori, ma per consolarli. Non ho altra ambizione”. Spesso, limitandosi a “Cuore”, si è criticato il suo indulgere sulla sfortuna, le malattie, la povertà, le disgrazie che affliggono i protagonisti dei suoi racconti per accattivarsi l'emotività dei lettori (“il povero gobbino”, il bambino “con il braccio morto”, quello che si trascina per tutto il libro sulle stampelle o l’altro con il labbro leporino). Si sono fatti studi che dimostrano però come davvero, in quegli anni, gli infortuni e la miseria fossero la quotidianità, ma resta il fatto che De Amicis si servì delle pagine strappalacrime del suo libro più noto per denunciare drammi e ingiustizie sociali, per parlare di emigrazione, di sanità, dei problemi delle classi più umili e più deboli. Ma non sempre De Amicis si serve dello stesso registro, e lo dimostrano i quattro testi scelti da Giorgio de Rienzo per questa deliziosa antologia, che contiene un romanzo breve, “Amore e ginnastica”, un racconto lungo, “La maestrina degli operai”, e due “ritratti”, divertenti al punto da risultare esilaranti, uno dedicato a un libraio vessato dai ragazzini suoi clienti lungo la strada verso la scuola e l’altro a un pedante professore con il quale non c’è modo di parlare senza venire corretti su ogni frase che si pronunci. Quella di “Amore e ginnastica” è una storia deliziosa e a tratti maliziosa, come da De Amicis non ci si aspetterebbe. Racconta la trasformazione operata dall’innamoramento del rigido segretario Celzani (ex seminarista, soprannominato per questo “don Celzani”) nei confronti della maestra Pedani, insegnante di ginnastica e inquilina del suo stesso casamento. Casamento abitato da una nutrita schiera di pettegoli, tutti ben caratterizzati, che malignano e sghignazzano sulle stramberie che l’inappuntabile Celzani comincia a fare, da autentico imbranato, per dichiarare il suo amore alla maestrina, che non sembra degnarlo della minima considerazione, se non quella del “buongiorno” e “buonasera”. Il moralismo e il perbenismo della società sabauda vengono argutamente presi in giro. Non dirò quale sia il finale dei maneggi del “don”, ma non si resta delusi. Una certa malizia nel descrivere il turbamento della maestra Varetti si può notare anche ne “La maestrina degli operai”, che racconta le inquietudini di una giovane insegnante assegnata suo malgrado a una scuola serale frequentata da studenti lavoratori di vario genere e di varie età, ma certo non ragazzini rispettosi come quelli a cui aveva insegnato fino a quel momento. La Varetti si sente addosso gli sguardi di uomini scafati che la spogliano con gli occhi, al punto che lei giunge a far lezione abbottonata dal collo alle caviglie. Uno degli operai, il Muroni, dapprima gradasso, giunge poi a farle provare un qualche brivido perché il suo comportamento si trasforma progressivamente in un corteggiamento che sembra sincero. Qui, però, non c’è il tono da commedia di “Amore e ginnastica”, predomina l’attenzione alle relazioni fra le classi sociali. Un entrambi i racconti le donne sono protagoniste, e già si intravede l’emancipazione femminile di cui il De Amicis si fa propugnatore, nei modi e nei limiti dell’epoca in cui visse. Di "Amore e ginnastica" esiste una versione cinematografica diretta nel 1973 da Luigi Filippo d'Amico, con Senta Berger e Lino Capolicchio.



venerdì 11 ottobre 2024

LA FOSSA DEI LUPI

 

Ben Pastor
LA FOSSA DEI LUPI
Mondadori
2024, brossurato
420 pagine, 20 euro

Il sottotitolo di questo romanzo, “Come proseguono I Promessi Sposi”, rischia di trarre in inganno. Perché, in realtà, Ben Pastor (scrittrice italo-americana, specializzata in gialli storici), con confeziona un vero e proprio sequel del capolavoro manzoniano, ma ne usa i principali personaggi e l’ambientazione per congegnare una vicenda molto intrigante e ben calata nella realtà storica, incentrata sulle indagini di un luogotenente di giustizia milanese sull’omicidio di Francesco Bernardino Visconti, Conte del Sagrato, detto l’Innominato – che l’autrice decide invece di nominare con dovizia di generalità, sulla base delle più accreditate ipotesi elaborate dagli esegeti del Manzoni. Così come un nome viene dato anche alla Monaca di Monza, Marianna de Leyva e non già Gertrude (consacrata come Suor Virginia Maria), e al di lei amante, identificato in Giampaolo Osio dagli storici (e nascosto da don Lisander sotto le spoglie di un anonimo Egidio). Il Manzoni, sempre combattuto fra verità e verosimiglianza, trasportò nel suo romanzo la torbida vicenda della Monaca, rendendola peraltro assai meno torbida di come fu in realtà, spostandola venticinque anni di più avanti. Ben Pastor accetta la datazione manzoniana, ma si tratta dell’unica libertà che si è concessa, mentre per il resto l’ambientazione del 1631, un anno dopo la peste, è piuttosto credibile e anzi, la documentazione alla base della ricostruzione degli scenari e dei personaggi sembra molto rigorosa. Tutto appare più vero e credibile che ne “I promessi sposi”, romanzo peraltro tutt’altro che scollegato dalla realtà, ma pervaso da una inevitabile patina di cattolica  ritrosia nel descrivere la sfera sessuale, da una eccessiva dose di buoni sentimenti tesi a esaltare i valori religiosi e il ruolo della fede nella Provvidenza nelle cose del mondo. Dico questo essendo comunque convinto che il capolavoro manzoniano sia effettivamente un capolavoro assolutamente da leggere con il massimo entusiasmo (ne abbiamo parlato anche in questo spazio), così come “La fossa dei lupi” è soltanto un ottimo giallo storico che non ambisce certo a divenire testo scolastico. Però Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio così come li descrive l’autrice diventano personaggi più reali. Nessuna delle figure de “I promessi sposi” è, comunque, protagonista del romanzo  di Ben Pastor, che mette al centro della narrazione Diego Antonio Sarrìa de Olivares, una sorta di poliziotto dell’epoca, che ha il proposito di farsi missionario gesuita e andare a cercare il martirio nelle Americhe (chi ha visto il film “Manto Nero” sa di che cosa stiamo parlando). Però, l’incontro con la giovane e nobile vedova Polissena de’ Stampi, figura magistrale di donna che dispone di se stessa a dispetto del moralismo dell’epoca, gli fa scoprire l’amore e il richiamo del sesso e i progetti del luogotenente di giustizia finiscono per cambiare. Nella Milano del 1631 descritta da Ben Pastor ci sono del resto le prostitute su cui il Manzoni non si sofferma, c’è la milizia armata del Cardinale Borromeo, descritto come tutt’altro che in odore di santità (al pari di Agnese, che non fa bella figura), ci sono i funzionari della dominazione spagnola con cui, tutto sommato, l’autrice è invece indulgente. E’ bello ritrovare qua e là nelle pagine anche i personaggi minori de “I Promessi Sposi”, come i bravi dell’Innominato o Tonio, l’amico di Renzo. Benché “La fossa dei lupi” si basi sulle indagini per scoprire chi ha ucciso l’Innominato, alla fine il nome del colpevole non è così interessante come tutte le vicende che servono per giungere alla soluzione, che intrigano il lettore al punto che si vorrebbe durassero di più. La soluzione del caso, comunque, arriva ed è convincente.


domenica 29 settembre 2024

AGOSTINO



Alberto Moravia
AGOSTINO
Bompiani
1989, brossurato
142 pagine, 8000 lire

A volte i libri devono aspettare il momento giusto della vita di un lettore per riuscire a farsi apprezzare, o addirittura amare. Confesso di aver avuto per la prima volta per le mani “Agostino”, di Alberto Moravia (1907-1990), durante gli anni del liceo, e di aver smesso di leggerlo, infastidito se non disgustato, dopo il primo capitolo, giunto a pagina venti. Mi era sembrato che l’argomento fosse un insano rapporto edipico fra madre e figlio, o quantomeno che si parlasse, più o meno morbosamente, di un adolescente attratto dal corpo della giovane mamma, o di lei innamorato. Mi parve qualcosa di cui non volevo sapere niente, e lasciai perdere il romanzo. Ma, convinto come sono che un libro iniziato lo si deve finire per forza, e con il bagaglio di letture e conoscenze maturato in oltre quarant’anni dal primo tentativo, eccomi a recuperare il racconto, anche perché, tutto sommato, poco più di cento pagine si leggono, volendo, in una sera. E mi sono accorto così che il romanzo comincia in realtà con il secondo capitolo, e la narrazione dà luogo a uno sviluppo del tutto diverso, in cui la figura della madre di Agostino si dissolve piano piano, fino a trasformarsi in qualcosa da cui il figlio si vuole allontanare, alla scoperta del resto del misterioso e conturbante universo femminile, e ancora di più alla scoperta del resto del mondo. Pubblicato per la prima volta nel 1943 in una edizione semiclandestina a causa della censura fascista che giudicò il romanzo troppo scabroso (in realtà, anche i temi dell’omosessualità, della pedofilia e della prostituzione vengono affrontati senza compiacimento, per allusioni, lasciando immaginare cose non dette), si ebbe una edizione definitiva nel 1945, a guerra conclusa. La vicenda è ambientata durante un’assolata estate in Versilia, e Agostino, che frequenta uno stabilimento balneare riservato ai benestanti, scopre l’esistenza delle spiagge popolari dove bivaccano ragazzi di strada da cui viene “iniziato” alla vita così com’è, al di là delle protettive braccia della mamma, fuori dalla bambagia. Non gli si rivela il “male” del mondo, ma la sua “non purezza”. L'adolescente scopre che vivere è crescere, scegliere, imparare a cavarsela, a fidarsi e a non fidarsi. La scrittura di Moravia è magistrale. Insomma, lieto di averti ritrovato, Agostino.



domenica 22 settembre 2024

PICCOLO CACTUS E… LA SIGNORA C



 
Cristina Contini
PICCOLO CACTUS E… LA SIGNORA C
Tielleci
2024, spillato
24 pagine

A volte non servono libri pubblicati da grandi editori e firmati da autori famosi per regalare delle emozioni. Né questo blog deve intendersi riservato a pubblicazioni blasonate. Perciò mi fa piacere parlare, questa volta, di un opuscolo spillato di formato orizzontale, del tutto simile ai vecchi album da disegno di quando andavamo a scuola, e persino stampato su una carta particolarmente adatta alle illustrazioni a matita che vi sono riprodotte. E in effetti di un album scolastico si tratta, essendo il risultato finale di un corso di illustrazione dell’anno accademico 2023-2024 dell’Università Popolare di Parma, sotto la guida della docente Roberta Ferretti. La particolarità della pubblicazione è rappresentata dal fatto che l’autrice, Cristina Contini, non lavora come illustratrice, né intende farlo (non almeno per mestiere). E’ una simpatica signora dal pollice verde, felicemente in pensione, che cerca di dedicarsi a tutto ciò che non aveva il tempo di fare quando lavorava, compreso frequentare un corso di disegno. Il risultato della sua applicazione è un piccolo libro dalla grafica deliziosa che racconta benissimo una storia “vera” tratta dal vissuto quotidiano, con protagonisti la Signora C (lei stessa), la sua gatta Macchia e un Piccolo Cactus rinato a nuova vita e dimostratosi incredibilmente prolifico. Il racconto è minimale, ma non sono minimali (non almeno nel senso di essere poca e piccola cosa) i disegni, assolutamente semplici quanto accattivanti e (miracolo della sensibilità, dell’istinto, del talento naturale) perfettamente funzionali alla narrazione rivolta, e non ci se ne meravigli, a grandi e bambini.
 


domenica 15 settembre 2024

TRADITORI DI TUTTI



 
Giorgio Scerbanenco
TRADITORI DI TUTTI
Garzanti
2014, brossurato
230 pagine, 8.90 euro

Di Giorgio Scerbanenco (1911-1969) e del suo Duca Lamberti (protagonista di quattro romanzi pubblicati tra il 1966 e il 1969) abbiamo già parlato quando ci siamo occupati di “Venere privata”, il primo titolo della serie. Per leggerne la recensione e quanto serve per inquadrare l’autore e il personaggio, basta cliccare qui.
“Traditori di tutti” è la seconda indagine di Duca Lamberti, uscita (come la precedente) nel 1966. Conviene, prima di approfondire alcuni aspetti, aggiustare un poco il tiro riguardo a quando ho scritto introducendo la prima inchiesta. Ho parlato infatti di una similitudine fra Georges Simenon e Giorgio Scerbanenco, elencando i punti di contatto tra i due scrittori e i loro romanzi: calati nella realtà, attenti alla psicologia dei personaggi e a capirne il disagio, pronti a bazzicare i bassifondi e provare empatia verso le vittime di un contesto sociale degradato, grande capacità di scrittura e di affabulazione. Ma ci sono anche diversità, inevitabilmente: Scerbanenco descrive una Milano da due milioni di abitanti, metropoli internazionale e non più città di provincia, crocevia di traffici illeciti di ogni genere, e Duca Lamberti è un duro, molto più duro di Maigret, che pure non scherza. Per di più, Lamberti non è un poliziotto e può agire al di fuori della Legge che, secondo lui, è troppo indulgente. Scerbanenco è uomo del suo tempo e non ci si può aspettare il rispetto della mistica del politicamente corretto. L’interrogatorio di Duca Lamberti al gestore del ristorante “La Binaschina” lascia a bocca aperta (si potrebbe contestare il metodo, ma il risultato è stupefacente). Scerbanenco già ametà anni Sessanta apre la strada all'hard boiled italiano (ma non “all’italiana”).
Oltre a indagare su tre duplici delitti avvenuti con le stesse modalità (le vittime sono annegati chiusi in auto affondate nel Naviglio), Duca Lamberti affronta gli accadimenti della sua vita privata, a partire dal suo senso di colpa per ciò che è accaduto a Livia Ussaro, la donna che ama, fino alla possibilità che gli viene offerta di venire reintegrato nell’Ordine dei medici se firma una dichiarazione in cui prende le distanze dall’eutanasia da lui compiuta per aiutare una paziente terminale a morire (lui risponde copiando l’abiura di Galileo Galilei). Il coinvolgimento dell’ex medico nella vicenda avviene in seguito alla richiesta di praticare una imenoplastica per ripristinare una verginità perduta, pretesa dal fidanzato della procace Giovanna Marelli, ma nel complicato intreccio di personaggi (alcuni ricorrenti, come il commissario Carrua e l’agente Mascaranti, o la sorella Lorenza e la nipotina Sara) si affrontano temi diversi, come il traffico di armi, il terrorismo altoatesino, le relazioni malate, gli psicopatici, i crimini di guerra e la lotta partigiana. Nel turbinare di situazioni, però, sembra esserci una sola certezza: tutti tradiscono tutti, come dice il titolo. Non tradisce, però, lo scrittore: il lettore se ne può fidare, a patto che non si attenda in lieto fine. Almeno, non quello a tarallucci e vino.


sabato 14 settembre 2024

VENERE PRIVATA

 

 
Giorgio Scerbanenco
VENERE PRIVATA
Garzanti
2014, brossurato
250 pagine, 8.90 euro

Concludendo la lettura di “Venere privata” di Giorgio Scerbanenco mi è venuto immediato un paragone con Georges Simenon. La Milano di Duca Lamberti (l’investigatore sui generis scerbanenchiano) è osservata con occhi simili alla Parigi di Maigret, con attenzione alla reale topografia, ai nomi dei quartieri e delle strade, e le indagini sono condotte tra gente vera, descritta nelle miserie e nelle debolezze al di là delle differenze sociali. E poi ci sono l’alcol, il fumo, la prostituzione, la pornografia, le nevrosi, la polvere, il sudore, le stanze d’albergo e gli appartamenti. C’è la malavita, organizzata e non, c’è la quotidianità di una città calata nel tempo (per Scerbanenco, gli anni Sessanta). C’è una centrale di polizia che non è nel Quai des Orfèvres ma in via Fatebenefratelli, e ci sono i poliziotti ricorrenti e riconoscibili per tratti caratteriali diversi fra loro. C’è un personaggio carismatico burbero e taciturno, Duca Lamberti, in realtà parecchio più problematico di Julius Maigret e con una concezione un po’ particolare della giustizia, ma al pari del francese con le idee chiare su come affrontare le situazioni e gli interrogatori, su come leggere nella testa degli interlocutori al di là di ciò che dicono le apparenze o di ciò che essi vogliono dare a bere. Due grandi scrittori, Simenon e Scerbanenco, peraltro contemporanei, e altrettanto versatili e prolifici. Peccato che la saga di Duca Lamberti conti appena quattro romanzi contro i settantacinque di Maigret. Per fortuna c'è molto altro e il consiglio è di leggere quanto più Scerbanenco possibile, iniziando magari proprio da “Venere privata”. Lo scrittore milanese (ma solo d’adozione) è in realtà nato a Kiev nel 1911 (quando c’era ancora lo zar) da padre ucraino e da madre italiana. Dopo la rivoluzione, il padre venne ucciso (come molti insegnanti) dai bolscevichi e la madre tornò a Roma, sua città di origine, attraverso un rocambolesco rimpatrio via Odessa e Istanbul, portandosi dietro il figlio. Lo racconta lo stesso scrittore in un suo brillante articolo autobiografico che Garzanti pubblica in appendice al romanzo: “Io, Vladimir Scerbanenko”. Non ancora ventenne, dopo aver italianizzato il suo nome, Scerbanenco si trasferisce a Milano, dove non ha vita facile, sia per le condizioni economiche famigliari sia per lo stato di salute (viene ricoverato a lungo in sanatorio). Poi, le cose cambiano: comincia a scrivere racconti, novelle e romanzi (dei generi più disparati: western, rosa, fantascienza, poliziesco), a collaborare con riviste e Case editrici. Dal 1939 inizia a curare per “Grazia” la rubrica “La posta del cuore”: sono le migliaia di lettere che riceve a fornirgli la grande conoscenza (dimostrata poi dai suoi scritti) di ciò che vortica negli animi delle persone. A differenza di Simenon, vissuto ottantasei anni, Scerbanenco scompare prematuramente nel 1969.  “Venere privata” è del 1966. All’inizio del romanzo, Duca Lamberti è appena uscito di prigione, dove ha scontato tre anni di reclusione. E’ anche stato radiato dall’albo dei medici, per lo stesso motivo che gli è costata la condanna: ha aiutato una paziente terminale a morire, praticandole una eutanasia. Si trova dunque nella condizione di dover ricominciare la vita da capo, avendo anche una sorella ragazza madre, Lorenza, da aiutare a mantenersi. Essendo figlio di un poliziotto (morto) di cui tutti, in via Fatebenefratelli, conservano stima e ricordo, può contare sull’amicizia del commissario Càrrua. L'ex medico accetta un incarico da un ricco imprenditore, che lo assume perché aiuti suo figlio, Davide Auseri, a uscire dalla dipendenza dall’alcol. Duca si rende conto che c’è qualcosa che spinge il giovane a bere: Davide si sente responsabile del suicidio di una ragazza, Alberta Radelli, avvenuto un anno prima. Della faccenda Davide non intende parlare, ma Lamberti lo spinge, con sapienza psicologica, a confidarsi. Duca ottiene dai suoi amici poliziotti maggiori informazioni sul caso, e scopre che non si tratta affatto di suicidio. Non solo: Alberta non è l’unica vittima. Salta fuori una torbida storia di sfruttamento della prostituzione. A risolvere il caso contribuisce in maniera fondamentale Livia Ussaro, una giovane donna bella, intraprendente e spigliata, con cui Lamberti sembra sul punto di iniziare una storia d’amore, ma che lui convince a prestarsi a essere usata come esca. Chissà se il nome di Livia dato da Camilleri alla fidanzata del suo Montalbano non derivi proprio dalla Ussaro scerbanenchiana, dato che anche la Livia di Duca Lamberti diviene una figura ricorrente nei successivi romanzi. “Venere privata” non ha però un lieto fine: gli assassini di Alberta pagano le loro colpe, ma ci sono risvolti tragici per l’ex-medico e la donna che ama pur dandole ancora del “lei”. Forse in questa disperazione di fondo c’è, in effetti, una delle più evidenti differenze fra Scerbanenco e Simenon.



venerdì 13 settembre 2024

TORNO A PRENDERTI

 

 
Stephen King
TORNO A PRENDERTI
Pickwick
2013, brossurato
108 pagine, 8.90 euro

Potrebbe sembrare strano che un romanzo di Stephen King sia lungo soltanto poco più di cento pagine. Di solito il Re quando scrive è un fiume in piena. Naturalmente c’è una spiegazione. “Torno a prenderti” non è esattamente un romanzo. E’ un racconto. Come racconto, in effetti, è piuttosto lungo, e tutto torna. E’ un racconto datato luglio 2007, pubblicato originariamente con il titolo “The Gingerbread Girl” sulla rivista statunitense “Esquire” e, prima dell’edizione Pickwick che sto recensendo, era già apparso in traduzione italiana (di Tullio Dobner, particolare che parlando di King non andrebbe mai omesso, almeno secondo i fedeli lettori) prima in appendice al romanzo “Blaze” (2007) a costituire una sorta di trailer per una successiva antologia, poi appunto nella raccolta “Al crepuscolo” (2008), entrambi targati Sperling & Kupfer. Nel 2013 ecco una insolita riproposta in “solitaria”, come un 45 giri estratto da un 33. Riproposta che funziona perché cento pagine si leggono agilmente e perché il racconto è adatto anche per un pubblico non particolarmente interessato all’horror o al fantastico. Non c’è magia, non ci sono streghe, non ci sono fantasmi, non ci sono mostri. O meglio, di mostri ce n’è uno ma è un uomo (cosa che magari terrorizza ancora di più, perché le streghe e i fantasmi non esistono, gli uomini sì). Inoltre la protagonista, Emily, è una giovane donna con cui è facile empatizzare. Ha perso una figlia ancora piccolissima, il trauma ha mandato a pezzi il suo matrimonio, la valvola di sfogo in cui si rifugia è la corsa, disperata, quotidiana, prima lungo le strade attorno a casa, poi in altre che la portano sempre più lontano, finché a casa non torna più. Fugge e si trasferisce nella villetta al mare che suo padre non usa più, su un’isola quasi disabitata durante l’inverno, in cerca di ritrovare una nuova ragione di vita. L’isola, però, non è abbastanza disabitata. O almeno, anche qualcun altro la usa per nascondersi dal mondo. Emily rischia la pelle, e King ci coinvolge nella lotta per sopravvivere della sua gingerbread girl, fino a un finale adrenalinico che fa tirare un sospiro di sollievo. Perché Emily si merita di vivere, come noi lettori siamo tutti d’accordo, e capiamo con lei che la vita stessa è una ragione di vita.