venerdì 12 luglio 2024
UNA STORIA SEMPLICE
lunedì 8 luglio 2024
LA BANDA DI JOHN COFFIN
Da quando, nel 2018, venne varata la seconda collana mensile di avventure inedite di Tex, denominata “Tex Willer” per distinguerla dalla testata madre, le storie pubblicate in edicola in prima uscita hanno cominciato a venire raccolte in cartonati destinati alla distribuzione libraria. “La banda di John Coffin” è il quinto volume della serie (in questo spazio ci siamo già occupati di alcuni altri), ma si rivela particolarmente importante per la ricostruzione della biografia del giovane cowboy divenuto fuorilegge suo malgrado ma destinato a venire arruolato tra i Rangers del Texas e a dar vita a una saga western a fumetti che non ha uguali nel mondo per durata, successo e qualità di testi e disegni. La collana “Tex Willer” nasce infatti, nell’anno del settantennale del personaggio (in edicola ininterrottamente dal 1948), per raccontare la gioventù dell’eroe, ricapitolando ciò che già sapevamo grazie ad alcuni racconti di Giovanni Luigi Bonelli e coordinando le informazioni fornite da certe storie di Mauro Boselli con avventure del tutto inedite. Proprio Boselli confeziona dunque il racconto di cui ci stiamo occupando, che mette insieme quanto narrato nel classico bonelliano “Il passato di Tex”, disegnato nel 1966 da Aurelio Galleppini, collegandolo con il proprio “Nueces Valley” (un Maxi Tex del 2017), in cui si stabilisce nel 1838 l’anno di nascita del futuro Aquila della Notte, ma anche con “Il totem misterioso”, la leggendaria prima striscia di Bonelli & Galep, oltre con “Vivo o morto” l’albo di esordio della nuova testata. Spiega Boselli nella sua introduzione, intitolata “Ritorno al passato”: “Nella sua prima avventura Tex ha a che fare con un generico bandito del West, John Coffin, che, a parte il nome funereo (‘coffin’ significa ‘bara’) si distingue solo per odiosità e tenacia. Ecco che però, molti anni dopo, scrivendo appunto ‘Il passato di Tex’ sulle origini dell’eroe, Bonelli decise di recuperare proprio quel primo avverrsario, facendone uno degli sgherri più subdoli e infidi della banda di Rebo e inserendlo nello snodo fondamentale della vita di Tex, la sua vendetta. Coffin assume, alla luce di questa nuova storia, una diversa statura”. Alla fine di “Vivo o morto”, in effetti, del bandito non si vede il cadavere, ma solo la sua casa in fiamme. Scopriamo dunque che il pendaglio da forca si è salvato e Tex se lo ritrova di fronte. Altrettanto in effetti, è vero che all’inizio de “Il totem misterioso” il nostro eroe conosce già il bieco avversario: "Che il diavolo mi porti se quello non è quel dannato di Coffin!", esclama scrutando dall'alto di una collina il polverone di una masnada di ceffi a cavallo. E poiché gli scagnozzi stanno inseguendo una graziosa squaw, il nostro eroe non esita a correrle in soccorso. Coffin e i suoi tirapiedi vengono bloccati all'imbocco di una gola: possiamo così vedere in faccia il losco figuro. Sguardo torvo, barba non rasata, cappellaccio in testa e fazzoletto al collo, Coffin non si distingue in nulla dagli altri pendagli da forca che lo accompagnano. Come ben dice Boselli, scopriremo in seguito, ne "Il passato di Tex" che Coffin apparteneva alla cricca di Tom Rebo, l'assassino di Sam Willer, fratello minore del nostro. Rebo aveva sul suo libro paga anche Steve Mallory, lo sceriffo di Culver City, il paese che fa da scenario a parte dello scontro con Coffin. Quando Tex consuma la sua vendetta contro Rebo, è proprio Mallory a imporre una taglia sulla sua testa, trasformandolo in un fuorilegge. Non a caso, nella prima striscia del "Totem misterioso", il futuro Aquila della Notte è braccato dalla giustizia. Boselli è bravissimo a serrare le fila di trame e sottotrame, aggiungendoci del suo, e Bruno Brindisi sembra nato per disegnare racconti western.
domenica 23 giugno 2024
TUTTI NELLA MIA FAMIGLIA HANNO UCCISO QUALCUNO
I gialli che preferisco sono quelli in cui l’autore gioca a carte con il lettore. Quelli, cioè, in cui chi legge alla fine ha a disposizione tutti gli indizi per scoprire la verità anticipando di un soffio la soluzione del mistero. Naturalmente, come in ogni partita a carte, a chi siede al tavolo con noi è richiesto di non barare. Sono ammessi, però, i giochi di prestigio sotto i nostri occhi. Lo so bene (benissimo) che il poliziesco ha tanti sottogeneri (dal legal thriller al police procedural passando per l’hard boiled), tante declinazioni, tante frecce nella propria faretra e che può servire a rappresentare realtà più sfaccettate e credibili di quelle dei romanzi con i delitti della camera chiusa. Sono consapevole che ci sono noir che svolgono persino funzioni di denuncia sociale o gialli contaminati con l’horror, il western, il romanzo storico o la fantascienza. Però, che ci volete fare, a me fa impazzire Ellery Queen che riunisce tutti i possibili colpevoli in un salotto e spiega per filo e per segno perché l’assassino è il meno prevedibile. Se poi lo scrittore riesce a non limitare il senso e il succo del racconto al “whodunit” (o alla scoperta di “chi è stato”), e quindi a imbastire una buona trama con dei buoni personaggi, tanto meglio. Benjamin Stevenson, brillante autore australiano che ha spopolato in mezzo mondo con questo suo primo giallo, evidentemente la pensa come me e premette al romanzo le dieci regole del “Decalogo del giallo perfetto” scritte nel 1929 da Ronald Knox, ma esiste un elenco di venti stabilite l’anno prima da S.S.Van Dine nell’articolo “Twenty Rules for Writing Detective Stories” apparso su “The American Magazine” nel 1928 (esistono comunque altri elenchi del genere). Stevenson non le cita ma il succo è lo stesso: il colpevole deve essere un personaggio già noto al lettore, sono esclusi interventi soprannaturali e occulti, il detective non può arrivare alla soluzione per caso, lo scrittore non può celare indizi noti a chi conduce le indagini, il Watson della situazione deve essere meno intelligente del lettore medio. E così via (è tutto molto interessante, sia nel decalogo di Konox che della lista di Van Dine). Stabilite queste premesse, l’io narrante di “Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno”, che coincide con il personaggio a cui è assegnato il ruolo di detective, Ernest Cunningham, si rivolge direttamente al lettore come un attore che sfonda la quarta parete e, per tutto il romanzo, gioca a carte con lui o, meglio, si comporta come un prestigiatore che invita il pubblico a controllare come non abbia assi nella manica o come un certo lucchetto sia davvero chiuso. Anticipa all’inizio le pagine in cui ci saranno dei morti, addirittura. Chi scrive e chi legge sono insomma perfettamente consapevoli di stare narrando e ascoltando un giallo e veniamo costantemente rassicurati sul fatto che le regole vengono rispettate. Ciò detto, il romanzo si legge con curiosità e divertimento: una riunione di famiglia in un albergo montano che resta isolato nella neve (come accade in “Trappola per topi” di Agatha Christie) mette a confronto madri, figli, zii, cognati, fratelli e sorelle, tutti con qualcosa da nascondere, e dà il via a una serie di misteriosi omicidi. “Everyone in my family has killed someone” è un titolo che dice il vero, ma che va anche interpretato, caso per caso, fino alla soluzione piuttosto macchinosa, ma rigorosamente onesta. Ci si diverte molto, senza che ci sia nulla di comico: ad Agatha Christie sarebbe piaciuto.
sabato 22 giugno 2024
LE AVVENTURE DI OLIVER TWIST
Ci sono romanzi che si leggono da ragazzi e che poi, rileggendoli da adulti, sembrano tutt’altra cosa. “Le avventure di Oliver Twist” (o più propriamente “Oliver Twist”, dato che questo fu il titolo originario) è uno di questi. La prima impressione che ho ricavato dalla rilettura è che non si tratti in nessun modo di un libro per ragazzi. Perché accidenti mi venne dato in mano mentre frequentavo le elementari? Con ogni probabilità lo ebbi in regalo in una edizione purgata ed edulcorata, resta il fatto che veniva ritenuto un classico della letteratura per giovanissimi, al pari di “Pattini d’argento”, “Pel di Carota” e “Pollyanna”. A scanso di ogni equivoco, Charles Dickens si rivolgeva a un pubblico adulto.
venerdì 21 giugno 2024
TAU ZERO
venerdì 31 maggio 2024
STUDIO ITALIA
STUDIO ITALIA
Helvetia Editrice
2023, brossura
128 pagine, 11 euro
A volte capita di imbattersi in certi libri assolutamente per caso e affacciarsi, grazie a essi, su mondi o universi sconosciuti. E’ successo a me con “Studio Italia”, che mi è finito per le mani senza averlo cercato, che ho cominciato a leggere con perplessità ma che alla fine si è rivelato in grado di solleticare interesse e curiosità. L’autore, Piersandro Pallavicini (professore ordinario di chimica all’Università di Pavia, scrittore e critico letterario, commediografo), è nato come me nel 1962 e di sé scrive: “Ero il secchione perfetto: adoravo stare in laboratorio, leggevo solo fumetti e romanzi di fantascienza, ascoltavo musica fuori moda”. Poi, assecondato anche dalla compagna Manola, scopre le frange più avanzate dell’arte contemporanea e ne rimane folgorato. Ecco, arrivato a questo punto, leggendo una lista di nomi a me sconosciuti (lo confesso a mio disdoro) di artisti, riviste, correnti, scuole, gallerie avrei potuto battere in ritirata e non proseguire la lettura. Invece, ho continuato: perché Pallavicini è gradevole da leggere e non si inoltra in dotte disquisizioni (aliene ai profani) sull’interpretazione, le dinamiche o l’esegesi della produzione artistica d’avanguardia, terreno su cui probabilmente non avrei potuto seguirlo senza prima aver percorso un training di avvicinamento, ma racconta la sua personale esperienza di collezionista. E quindi batte un terreno di cui percepisco il fascino, essendo da sempre raccoglitore seriale di albi a fumetti e tavole originali, libri e dischi. Soprattutto Pallavicini descrive una pratica che trova una certa corrispondenza anche nell’universo parallelo dei fumettisti: lo “studio visit”. Cioè la pratica, descritta come comune tra appassionati e collezionisti di arte contemporanea, di andare a trovare l’artista dove lavora. Quindi conoscerlo di persona, vederlo mentre crea le opere, discutere delle sue tecniche e delle sue quotazioni, ma anche bere con lui un bicchiere di vino, scambiare opinioni sull’arte e sul mondo. Pallavicini racconta nove incontri ravvicinati con altrettanti artisti (Velasco Vitali, Federico Lombardo, Adelisa Selimbasic, Iva Lulashi, Giovanni Frangi, Daniele Galliano, Luca Pignatelli, Laura Paperina, Valentina D’Amaro), presentandoli come persone prima che come autori e descrivendo i loro laboratori o atelier. Non sempre la visita si conclude con l’acquisto di un dipinto o di un disegno, che spesso hanno prezzi fuori portata, tuttavia viene spiegata la dinamica delle gallerie a cui le opere vengono affidate, il metodo con cui si quotano, le tecniche per concludere buoni affari al di fuori dei circuiti ufficiali (su eBay, per esempio). Traspare dal racconto la gioia successiva a ogni acquisizione, con il collezionista che rimira il pezzo di cui è entrato in possesso, oppure il desiderio irresistibile di dare la caccia a un autore che sembra irraggiungibile. Ecco, sensazioni che, nel mio piccolo e in tutt’altro ambito, conosco bene anch’io.
venerdì 24 maggio 2024
IL REGNO DELLE TENEBRE
VITA, NON MORTE E MIRACOLI
Bela Rakosi: già il nome del vampiro affrontato da Zagor nelle pagine che vi apprestate a leggere rivela, se non tutto, di certo parecchio. Rende evidente, per esempio, come lo sceneggiatore Guido Nolitta (questo lo pseudonimo sotto cui si nascondeva l’editore Sergio Bonelli) non si preoccupò di nascondere più di tanto l’ispirazione cinematografica. Anzi, come si sarebbe detto in seguito, la palesò come una “citazione”. E’ chiaro che alla base della scelta del nome c’è il preciso riferimento all’ungherese Bela Lugosi (1982-1956), un attore, cioè, passato alla storia del cinema per essere stato uno dei più celebri Dracula dello schermo, grazie a un film del 1931 della Casa di produzione americana Universal, diretto da Tod Browning. L’interpretazione di Lugosi caratterizzò per decenni, nell’immaginario collettivo, la figura del vampiro vestito elegantemente e solito a dormire in una bara. Gallieno Ferri, il creatore grafico di Zagor, scegliendo le sembianze del non morto, fece invece riferimento a Christopher Lee (1922-2015), un altro Dracula cinematografico, protagonista di vari film di produzione inglese della Hammer, a partire dal primo del 1958 diretto da Terence Fisher, senza dimenticarsi di citare, in una copertina, l’ombra del Nosferatu di Murnau (1922). Che un vampiro di origini ungheresi si dovesse chiamare Bela sembrò a Bonelli una trovata divertente, una sorta di strizzata d’occhio verso i lettori. A trovare il cognome bastò allo sceneggiatore fare riferimento alla politica internazionale: Màtyàs Ràkosi (1892-1971) fu infatti il leader della Repubblica Popolare d’Ungheria fra il 1945 e il 1956. Nolitta e Ferri, insomma, citando rispettivamente Lugosi e Lee nel dar vita (o non morte) al loro vampiro, vogliono indicare chiaramente che non al Conte Dracula del romanzo del 1897 scritto da Bram Stoker ci si stava rifacendo, ma proprio ai film “di paura” degli loro anni verdi. L’spirazione è cinematografica, dunque, prima che letteraria, anche se poi, nel proseguo della saga zagoriana, i riferimenti alle tradizioni e alle leggende popolari transilvaniche (da cui attinse Stoker e, prima di lui, John Willian Polidori) non sarebbero mancati, come avremo modo di annotare presentando i prossimi volumi di questa collana.
giovedì 23 maggio 2024
INCONTRI RAVVICINATI TRA SCIENZA E CINEMA
INCONTRI RAVVICINATI TRA SCIENZA E CINEMA
Hoepli
2023, brossura
234 pagine, 15.90 euro
Per parlare di questo gioiello di libro, forse si può cominciare da come la Casa editrice stessa descrive la collana "Le basi" in cui il saggio è inserito. Leggiamo infatti in apertura: "Rivolti a un pubblico generale ma scritti da esperti, i libri della collana offrono sintetiche e originali introduzioni su molteplici soggetti nel campo delle scienze umane e intendono essere obiettivi e completi ma al tempo stesso invitare alla riflessionie sui vari temi affrontati". Marco Ciardi, docente di Storia della Scienza presso l'Università di Firenze (ma anche grande appassionato di fumetti), ha già all'attivo un altro saggio pubblicato nei titoli de "Le basi", e cioè "Breve storia delle pseudoscienze", di cui ci siamo occupati anche in questo spazio. Andrea Sani, grande esperto di filosofia, cinema, fumetto francese e disneyano, è un nome ben noto nel comicdom. I due sono accomunati, oltre che da medesimi interessi e passioni, anche dalla grande capacità di sintesi e chiarezza comunicativa, doti fondamentali, oltre all'indispensabile competenza, per fare buona divulgazione. "Incontri ravvicinati tra scienza e cinema" è un libro che si legge rivedendo, pagina dopo pagina, con gli occhi della mente, scene di film che hanno segnato l'immaginario collettivo (da "Ritorno al futuro" a "Il pianeta delle scimmire", da "Blade Runner" alla saga di Indiana Jones, da "Interstellar" al "Sesto Senso"), ma anche ricevendo irresistibili stimoli a cercare di recuperare pellicole fondamentali che non abbiamo ancora visto (nel mio caso, per esempio, "L'uomo che non c'era" o "Creation"). Gli autori suggeriscono nove itinerari tematici selezionando alcune decine di film che mettono in evidenza i rapporti tra il cinema e la scienza, a volte segnalando le incongruenze tra ciò che si vede sullo schermo e la realtà dei fatti, a volte sottolineando la documentazione alla base del lavoro dei cineasti (talora coadiuvati dalla consulenza fattiva degli scienziati), sempre documentando il modo con cui le teorie scienifiche vengono divugate o offrono spunti a sceneggiatori e registi. Mai si critica o si discute la libertà e la fantasia di chi di mestiere fa il catastorie. Peraltro, Ciardi e Sani si rivelano una volta di più due dei nostri, occupandosi, senza traccia di snobbismo, di film che hanno avuto un gande successo anche al btteghino, e non solo di quelli noti unicamente ai cultori e ai frequentatori dei cineforum. Un saggio davvero gradevole e stuzzicante, in cui l'evidente coinvolgimento degli autori ne suscita uno simili in chi legge.
domenica 19 maggio 2024
IL SEGRETO DEL CARILLON
Nel romanzo precedente di Fausto Serra, “L’eredità morale” del 2021, a pagina 63 troviamo l’inizio di un capitolo intitolato “L’adozione mancata”, in cui il lettore si trova di fronte al drammatico racconto di una “sliding door” nella vita di un bambino, il piccolo Minniu. Le “sliding doors”, o “porte scorrevoli” sono quelle situazioni nelle quali qualcuno si trova di fronte a un evento, magari a cui lì per lì non dà troppa importanza, che cambia o potrebbe cambiare la sua vita. A volte ci sono “sliding door” di cui neppure ci accorgiamo: la nostra mano sceglie fra tanti un biglietto della lotteria che non dà diritto a nessun premio, ma quello accanto avrebbe potuto essere il vincente. Altre volte il caso decide per noi: Jack Dawson si imbarca sul “Titanic” vincendo al gioco il biglietto che gli permette di salire a bordo. La definizione deriva da un film del 1998, “Sliding doors”, appunto, diretto dal britannico Peter Howitt, in cui le porte scorrevoli del vagone di un treno di una linea metropolitana cambiano il destino della protagonista Helen (Gwyneth Paltrow). Hewitt aveva tratto ispirazione da un altro film che affronta il tema del fato, “Destino cieco” (1981), del regista polacco Krzysztof Kieślowski. Che cosa capita a Minniu? Il bambino e i suoi fratelli più grandi erano rimasti orfani di entrambi i genitori e vivevano in estrema povertà tra le mura cadenti di una vecchia casa lungo il fiume Coghinas. Si prospetta la possibilità di una adozione. Una coppia di benestanti giunge da Sassari per conoscere Minniu, lo trovano adorabile e manifestano il più vivo interesse per adottarlo. I fratelli più grandi si consultano fra loro per decidere il da farsi: forse per non perdere i contatti con il piccolo di casa, rifiutano l’offerta. Scrive Fausto Serra: “Il bambino andò a finire nelle mani di un padrone che si chiamava Zio Pasquale, che si decise a prenderlo con sé purché si fosse guadagnato i pasti e l’alloggio, e non come figlio adottivo. Lo attendeva un futuro da servo pastore”. Cosa sarebbe stato di Minniu se i signori di Sassari avessero potuto portarlo nella loro casa? Sembrano riflessioni oziose, ma talvolta la vita ci pone davanti a dei bivi in grado, cambiando anche solo di pochissimo le carte in tavola, di condizionare il resto della nostra esistenza. Mi è tornato in mente Minniu perché anche il destino del protagonista del secondo romanzo dello scrittore, sembra segnato da più di una “sliding door”, la cui esistenza il lettore scopre man mano, fino al colpo di scena finale, allorché viene svelato il segreto del carillon. Carillon che compare fin dalle prime pagine, riaffiorando poi qua e là nel romanzo. Siamo nel 1932, in una sperduta località che sembra essere la Gallura anche se non viene mai nominata, e Angelina, la madre di un bambino di pochi mesi, vede il marito Efisio guardarla mentre, seduta davanti al camino, con una mano dondola la culla e con l’altra tira la cordicella che aziona la melodia del carillon. Gli chiede a che cosa stia pensando. Il padre del piccolo risponde: «Al nostro bambino. È nato da pochi mesi e già mi preoccupa il suo futuro. Cosa gli potrà riservare questo posto dimenticato da Dio, se non una dura vita da pastore, isolato dal resto del mondo? Avrei desiderato per lui un futuro migliore». Quel bambino è stato chiamato Ardito a scopo beneaugurale e il romanzo di Fausto Serra ne racconta l’intera esistenza, segnata da un destino tragico che però avrebbe potuto diverso se le porte scorrevoli si fossero aperte e chiuse in altra maniera al momento giusto. “Il segreto del carillon”, apparentemente, sembra un romanzo carcerario: Ardito, appena ventenne, finisce all’ergastolo dopo aver commesso un quadruplice omicidio mosso, si direbbe, da un impulso folle e sconsiderato, per futili motivi, rovinando la sua vita e quella dei suoi genitori, oltre a privare le vittime della propria. Però, si capisce che c’è qualcosa dietro, qualcosa di cui lo stesso assassino inizialmente non si rende conto ma che piano piano emerge alla sua coscienza. Coscienza che non sembra affatto quella di un delinquente incallito o di uno spietato criminale, come dimostrano le tante avventure vissute fra le mura del penitenziario, dove è costretto a confrontarsi con il suicidio di un caro amico, la rocambolesca evasione di un altro, una rivolta di detenuti. Si chiede a un certo punto Fausto Serra: «Senza scomodare teorie sull’esistenza di entità superiori che regolano il destino di ogni essere umano, appare chiaro che qualcosa di insondabile ci sfugge. Il percorso di un’esistenza nasce già segnato? E quale potere soprannaturale ne decide le sorti? ». Ognuno cerchi di dare la propria risposta. “Il segreto del carillon” amplia l’orizzonte dell’ “Eredità morale”, dove la narrazione ricostruiva, sulla base di fatti realmente accaduti, la storia di una famiglia (quella dello stesso autore). Adesso, con il secondo romanzo, Serra allarga la visione all’intera condizione umana, anche se lo fa prendendo a paradigma la terra da cui proviene e una realtà storica particolare, questa volta dando libero sfogo all’invenzione. Le porte scorrevoli della fantasia possono condurre dovunque.
mercoledì 24 aprile 2024
ASTERIX E L’IRIS BIANCO
Gli albi di Asterix entrano negli “anta”. “Asterix e l’Iris Bianco” è infatti il quarantesimo della serie (iniziata con “Asterix il Gallico” nel 1961). Dei due creatori, lo sceneggiatore René Goscinny e il disegnatore Albert Uderzo, il primo è morto nel 1977 (24 storie all'attivo), il secondo è scomparso nel 2020 e la sua ultima storia è stata "Il compleanno di Asterix e Obelix" del 2009 (autore anche della sceneggiatura). Dopodiché, per altri cinque volte le avventure degli eroi gallici sono state disegnate da Didier Conrad e scritte da Jean-Yves Ferri. Il precedente volume era stato "Asterix e il Grifone".
lunedì 22 aprile 2024
I DELITTI DELLA RUE MORGUE
I DELITTI DELLA RUE MORGUE
Cut-Up Publishing
2023, brossurato
80 pagine, 13.90 euro
Personalmente sono più che convinto che il primo giallo della storia della letteratura sia contenuto nella Genesi, il primo libro della Bibbia. Lì c’è un omicidio, quello di Caino ai danni del fratello Abele, c’è un detective (Dio), vengono svolti degli interrogatori e dunque delle indagini, si scopre il colpevole – che viene condannato e punito. A dire il vero, sul fatto che Caino sia stato il vero assassino ho i miei dubbi, che ho esposto in un racconto intitolato “La signora Miller e Dio” (lo trovate nell’antologia “Dall’altra parte”, edita da Cut-Up Publishing). Ma non divaghiamo. Genesi a parte, il capostipite del genere giallo viene pressoché unanimemente considerato "I delitti della Rue Morgue" di Edgar Allan Poe (1809-1849), datato 1841, anche se non propone un vero poliziotto quale autore delle indagini e propone una trama tutto sommato fantastica che si discosta dal realismo che contraddistingue invece il poliziesco vittoriano, da cui nasce una scuola giunta fino ai nostri giorni. Tuttavia è innegabile che Auguste Dupin (protagonista di altri due racconti dello scrittore bostoniano) sia un perfetto Sherlock Holmes ante litteram e l’amico che funge da io narrante sembra la controfigura del dottor Watson (condizioni economiche a parte). Quando, soltanto grazie al ragionamento, Dupin segue il flusso dei pensieri dell’altro e risponde a voce alta a una considerazione fatta dal compagno soltanto nella propria testa, pare proprio che a scrivere sia Conan Doyle. Oltre a essere il primo giallo letterario della storia, “I delitti della Rue Morgue” è anche il primo caso della “camera chiusa”. Il racconto è perfetto per ritmo, tempistica e climax, e la soluzione del mistero, per quanto insolita, risulta convincente (ne ho fatto la parodia in “Cico Detective”). Aldo Luigi Mancusi firma una nuova traduzione e una interessante postfazione. Cut-Up Publishing confeziona un libretto delizioso.
Va segnalato, però, che c’è chi sostiene che nei “Delitti della Rue Morgue” ci sia in realtà lo zampino di Alexandre Dumas. Un giallo nel giallo. La tesi è di Ugo Cundari e provo a riassumerla. Esiste un racconto di Dumas pubblicato a puntate tra il 28 dicembre 1860 e l’8 gennaio 1861, di cui esistono, negli archivi di tutto il mondo, pochissime copie, e che era, fino a poco tempo fa, praticamente sconosciuto: “L’assassinio di Rue Saint Roche”. La lettura lascia del tutto sbigottiti, perché si tratta di un clamoroso plagio dei "Delitti di Rue Morgue" di Poe. Stessa ambientazione parigina, stessa situazione, stesse vittime, stessa soluzione del caso. Non solo: anche i particolari sono i medesimi, dalle voci provenienti dalla casa chiusa scambiate dai vicini per lingue straniere sempre diverse, al dettaglio delle finestre inchiodate. Che cosa cambia? Cambia, innanzitutto, il fatto che il detective risolutore del caso è lo stesso Edgar Allan Poe. Cioè Dumas racconta di aver incontrato lo scrittore americano a Parigi nel 1832 e, mentre era in sua compagnia, di averlo veduto incuriosirsi di un caso descritto sui giornali e quindi indagare sulla faccenda fino a venirne a capo. Ora, i "Delitti della Rue Morgue" è stato pubblicato nel 1841, dunque vent'anni prima il racconto di Dumas. Dunque tutto lascia pensare che sia stato lo scrittore francese a copiare Poe. Il che non sarebbe neppure improbabile, essendo Dumas uso ad attingere a piene mani di qua e di là, al punto da aver subito diversi processi con l'accusa di appropriazione indebita di scritti altrui. Però, la questione non è così semplice. Nella sua lunga e avvincente postfazione, Cundari elenca tutta una serie di circostanze misteriose. Tanto per cominciare, anche nel racconto di Poe compare un Dumas, che è uno dei personaggi secondari. Una combinazione? E se Dumas e Poe si fossero davvero incontrati, nel 1832? Perché, infatti, Poe ambienta proprio a Parigi il suo giallo, e non a Boston o Philadelphia? Come può conoscere così bene la capitale francese, com'è dimostrato dal suo testo? La biografia di Poe è, incredibilmente, misteriosa e lacunosa sui suoi spostamenti in quell'anno e ci sono testimonianze che lo vogliono in Russia, in Francia, in Inghilterra. Il curatore elenca una serie impressionante di indizi che sembrano far supporre che il contatto ci sia stato, e che una bozza di racconto possa essere stato visto e letto da Poe, oppure discusso con Dumas, che sarebbe stato però l'artefice dell'opera, avendone collocato l'azione su uno sfondo parigino che l'americano non aveva ragione di usare. Per quel che può valere la mia opinione, credo in un plagio del parigino ai danni di Poe, ma è possibile che i due si siano davvero incontrati a Parigi.
domenica 21 aprile 2024
STORIE DI GUERRA
STORIE DI GUERRA
Allagalla
2023, cartonato
100 pagine, 20 euro
Angelo Stano (“uno dei migliori disegnatori del mondo”, secondo Aldo Di Gennaro, che di disegno se ne intende) è nato a Santeramo in Colle, in provincia di Bari, nel 1953.Le sei storie di guerra da lui illustrate raccolte in questo volume da Allagalla sono datate tra il 1976 e il 1977. Quindi, ci ripropongono il lavoro di un autore di ventitré o ventiquattro anni, da poco trasferitosi a Milano e con all’attivo soltanto le prime collaborazioni a fumetti (la prima, datata 1971, è una riduzione del romanzo di Verne “Dalla Terra alla Luna”). Nel 1975 lo troviamo a illustrare racconti di uomini in guerra per la Dardo, una Casa editrice che a partire dai primi anni Sessanta aveva visto furoreggiare in edicola testate come “Collana Eroica” e “Super Eroica”, di provenienza inglese (anche se per la Fleetway che le realizzava lavoravano autori di tutto il mondo, tra cui molti italiani, quali Tacconi, Calegari, D’Antonio, Tarquinio e persino Pratt). A metà degli anni Settanta, però, assecondando il clima politico mutato dalla contestazione giovanile, Giuseppe Casarotti, patron della Dardo, pensa di pubblicare una testata di vicende belliche ma con risvolti antimilitaristi, con ambientazioni storiche e ricostruzioni di contesti più accurati, con personaggi realistici e non necessariamente eroici. Nacque così la collana “Uomini e guerra”, per la quale viene ingaggiato il giovane Stano. La testata non riscuote il successo sperato, ma il disegnatore fa in tempo a realizzare una mezza dozzina di racconti, quelli contenuti in questo volume (cinque pubblicati, uno rimasto inedito), che sicuramente servono a fargli fare le ossa e a gettare le basi per la sua carriera. Le sceneggiature sono di Franco Fattori e dello Staff di If e hanno il torto (forse per una precisa indicazione editoriale) di essere ridondanti di didascalie. Tuttavia, la scelta degli scenari di guerra e della tipologie di trame è interessante: la prima, ambientata sul fronte dell’Altopiano di Asiago nel 1915, comincia ricordando come in trincea finissero fanti “morti di fame”, miseri spediti al macello. Una delle storie ricostruisce il raid di Entebbe, lamentando le vittime ugandesi. I disegni, giovanili ma già straordinariamente efficaci, mostrano controluce il grande autore che muove i primi passi, quelli che lo avrebbero portato a divenire il creatore grafico e il copertinista di Dylan Dog, arrivando a maturare un segno inconfondibile.
sabato 20 aprile 2024
PASQUALE FRISENDA ARTBOOK
ARTBOOK
Cut-Up Publishing
2024, cartonato
96 pagine, 35 euro
Gli artbook sono un genere a se stante. Si potrebbero definire “cataloghi” o “campionari” delle opere di un artista, realizzati indipendentemente da una mostra che le esponga in una galleria o in un museo. Dunque, vere e proprie mostre essi stessi, da tenersi in casa, da venire portate in giro, da poter essere visitate semplicemente sfogliando le pagine di un libro ogni volta che lo si desideri. Non sono il “ricordo” di una esposizione, sono l’esposizione stessa. Gli artbook risultano particolarmente interessanti quando ripercorrono l’evoluzione di anni di lavoro di un fumettista perché dimostrano come i disegnatori di comics siano al tempo stesso narratori di storie e illustratori, e si dimostrino in grado di eccellere in ambiti diversi, ora al servizio di una storia articolata o di un personaggio dalla lunga tradizione che si intende rispettare o reinterpretare, ora folgorandoci o incantandoci con una sola immagine, che basta a se stessa. Tutto ciò è straordinariamente ben dimostrato dall’artbook di Pasquale Frisenda, classe 1970, milanese, attivo a livello professionale a partire dal 1991 (l’esordio avviene sulla rivista “Cyborg”) ma alle prese con chine e matite (e sogni) già dal 1985, grazie al suo incontro con lo Studio Comix di Carlo Ambrosini, Giampiero Casertano ed Enea Riboldi, dove fa apprendistato. Ci sono, nel volume edito da Cut-Up, anche esercitazioni grafiche precedenti, a testimonianza di come si nasce fumettisti anche prima di imparare la tecnica, esercitandosi, copiando, inventando racconti disegnati. Ma la svolta, per Frisenda, arriva grazie alla collaborazione con Ivo Milazzo che lo mette al lavoro su storie di Ken Parker sceneggiate da Giancarlo Berardi, pubblicate sul “Ken Parker Magazine”. Da Lungo Fucile a Magico Vento il passo è breve: entrambi grandi personaggi autoriali (il secondo è scritto da Gianfranco Manfredi), eroi western fuori dai canoni. Di Magico Vento, Pasquale diventa anche il copertinista. Fuori dal canoni è anche il Texone che Frisenda viene incaricato di illustrare nel 2009, su testi di Mauro Boselli, intitolato “Patagonia”. Un capolavoro che gli vale di Gran Guinigi a Lucca Comics & Games, e che dimostra (se mai ce ne fosse il bisogno) sia la dignità del fumetto popolare in grado di proporsi come produzione “alta” senza rinnegare i propri canoni, sia la vocazione di Frisenda a incarnare il popolare d’autore nella più nobile accezione. Da quel momento in poi è impossibile non considerarlo un maestro, qualunque cosa faccia, a colori e in bianco e nero, in Italia e all’estero (Dylan Dog, Deadwood Dick, Le Storie, Peux Epaisses). Nel 2024 esce la versione a fumetti de “Il deserto dei tartari”, di Dino Buzzati, su sceneggiatura di Michele Medda. L’artbook della Cut-Up si ferma tuttavia al 2021. Ho un solo rimpianto: che manchi l’illustrazione realizzata con la biro e pubblicata su un numero della rivista “Dime Press”, raffigurante un poderoso Zagor la cui sagoma avanza verso il lettore stagliata contro la luce di un fulmine.