sabato 19 ottobre 2024

AMORE E GINNASTICA E ALTRI RACCONTI

 

 
Edmondo De Amicis
AMORE E GINNASTICA E ALTRI RACCONTI
Rizzoli
1986, brossurato
250 pagine, 8000 lire

E’ un peccato che il successo entusiasmante, plurigenerazionale e internazionale di “Cuore” (o meglio, del “libro Cuore”, come è stato, chissà perché, sempre chiamato), pubblicato nel 1886, abbia lasciato in ombra le altre opere di Edmondo De Amicis (1846-1908). Ligure (di Oneglia, in provincia di Imperia), di ideali socialisti (di quel socialismo patriottico e votato all’impegno civile post risorgimentale), combattente nella Terza Guerra d’Indipendenza, fu autore di reportage di viaggi, giornalista brillante, acuto testimone della sua epoca, prosatore gradevole e divertente, scrittore efficace e pertanto di valore. Non fu mai, per quel che ne se dice, uno a cui il successo diede alla testa. In vecchiaia, si raccontava così: “Io non sono che un giornalista, uno che annota la vita d’ogni giorno, e sceglie in essa quel che più d’esemplare vi accade. Certe volte mi piace divertire i miei lettori, ma per consolarli. Non ho altra ambizione”. Spesso, limitandosi a “Cuore”, si è criticato il suo indulgere sulla sfortuna, le malattie, la povertà, le disgrazie che affliggono i protagonisti dei suoi racconti per accattivarsi l'emotività dei lettori (“il povero gobbino”, il bambino “con il braccio morto”, quello che si trascina per tutto il libro sulle stampelle o l’altro con il labbro leporino). Si sono fatti studi che dimostrano però come davvero, in quegli anni, gli infortuni e la miseria fossero la quotidianità, ma resta il fatto che De Amicis si servì delle pagine strappalacrime del suo libro più noto per denunciare drammi e ingiustizie sociali, per parlare di emigrazione, di sanità, dei problemi delle classi più umili e più deboli. Ma non sempre De Amicis si serve dello stesso registro, e lo dimostrano i quattro testi scelti da Giorgio de Rienzo per questa deliziosa antologia, che contiene un romanzo breve, “Amore e ginnastica”, un racconto lungo, “La maestrina degli operai”, e due “ritratti”, divertenti al punto da risultare esilaranti, uno dedicato a un libraio vessato dai ragazzini suoi clienti lungo la strada verso la scuola e l’altro a un pedante professore con il quale non c’è modo di parlare senza venire corretti su ogni frase che si pronunci. Quella di “Amore e ginnastica” è una storia deliziosa e a tratti maliziosa, come da De Amicis non ci si aspetterebbe. Racconta la trasformazione operata dall’innamoramento del rigido segretario Celzani (ex seminarista, soprannominato per questo “don Celzani”) nei confronti della maestra Pedani, insegnante di ginnastica e inquilina del suo stesso casamento. Casamento abitato da una nutrita schiera di pettegoli, tutti ben caratterizzati, che malignano e sghignazzano sulle stramberie che l’inappuntabile Celzani comincia a fare, da autentico imbranato, per dichiarare il suo amore alla maestrina, che non sembra degnarlo della minima considerazione, se non quella del “buongiorno” e “buonasera”. Il moralismo e il perbenismo della società sabauda vengono argutamente presi in giro. Non dirò quale sia il finale dei maneggi del “don”, ma non si resta delusi. Una certa malizia nel descrivere il turbamento della maestra Varetti si può notare anche ne “La maestrina degli operai”, che racconta le inquietudini di una giovane insegnante assegnata suo malgrado a una scuola serale frequentata da studenti lavoratori di vario genere e di varie età, ma certo non ragazzini rispettosi come quelli a cui aveva insegnato fino a quel momento. La Varetti si sente addosso gli sguardi di uomini scafati che la spogliano con gli occhi, al punto che lei giunge a far lezione abbottonata dal collo alle caviglie. Uno degli operai, il Muroni, dapprima gradasso, giunge poi a farle provare un qualche brivido perché il suo comportamento si trasforma progressivamente in un corteggiamento che sembra sincero. Qui, però, non c’è il tono da commedia di “Amore e ginnastica”, predomina l’attenzione alle relazioni fra le classi sociali. Un entrambi i racconti le donne sono protagoniste, e già si intravede l’emancipazione femminile di cui il De Amicis si fa propugnatore, nei modi e nei limiti dell’epoca in cui visse. Di "Amore e ginnastica" esiste una versione cinematografica diretta nel 1973 da Luigi Filippo d'Amico, con Senta Berger e Lino Capolicchio.



venerdì 11 ottobre 2024

LA FOSSA DEI LUPI

 

Ben Pastor
LA FOSSA DEI LUPI
Mondadori
2024, brossurato
420 pagine, 20 euro

Il sottotitolo di questo romanzo, “Come proseguono I Promessi Sposi”, rischia di trarre in inganno. Perché, in realtà, Ben Pastor (scrittrice italo-americana, specializzata in gialli storici), con confeziona un vero e proprio sequel del capolavoro manzoniano, ma ne usa i principali personaggi e l’ambientazione per congegnare una vicenda molto intrigante e ben calata nella realtà storica, incentrata sulle indagini di un luogotenente di giustizia milanese sull’omicidio di Francesco Bernardino Visconti, Conte del Sagrato, detto l’Innominato – che l’autrice decide invece di nominare con dovizia di generalità, sulla base delle più accreditate ipotesi elaborate dagli esegeti del Manzoni. Così come un nome viene dato anche alla Monaca di Monza, Marianna de Leyva e non già Gertrude (consacrata come Suor Virginia Maria), e al di lei amante, identificato in Giampaolo Osio dagli storici (e nascosto da don Lisander sotto le spoglie di un anonimo Egidio). Il Manzoni, sempre combattuto fra verità e verosimiglianza, trasportò nel suo romanzo la torbida vicenda della Monaca, rendendola peraltro assai meno torbida di come fu in realtà, spostandola venticinque anni di più avanti. Ben Pastor accetta la datazione manzoniana, ma si tratta dell’unica libertà che si è concessa, mentre per il resto l’ambientazione del 1631, un anno dopo la peste, è piuttosto credibile e anzi, la documentazione alla base della ricostruzione degli scenari e dei personaggi sembra molto rigorosa. Tutto appare più vero e credibile che ne “I promessi sposi”, romanzo peraltro tutt’altro che scollegato dalla realtà, ma pervaso da una inevitabile patina di cattolica  ritrosia nel descrivere la sfera sessuale, da una eccessiva dose di buoni sentimenti tesi a esaltare i valori religiosi e il ruolo della fede nella Provvidenza nelle cose del mondo. Dico questo essendo comunque convinto che il capolavoro manzoniano sia effettivamente un capolavoro assolutamente da leggere con il massimo entusiasmo (ne abbiamo parlato anche in questo spazio), così come “La fossa dei lupi” è soltanto un ottimo giallo storico che non ambisce certo a divenire testo scolastico. Però Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio così come li descrive l’autrice diventano personaggi più reali. Nessuna delle figure de “I promessi sposi” è, comunque, protagonista del romanzo  di Ben Pastor, che mette al centro della narrazione Diego Antonio Sarrìa de Olivares, una sorta di poliziotto dell’epoca, che ha il proposito di farsi missionario gesuita e andare a cercare il martirio nelle Americhe (chi ha visto il film “Manto Nero” sa di che cosa stiamo parlando). Però, l’incontro con la giovane e nobile vedova Polissena de’ Stampi, figura magistrale di donna che dispone di se stessa a dispetto del moralismo dell’epoca, gli fa scoprire l’amore e il richiamo del sesso e i progetti del luogotenente di giustizia finiscono per cambiare. Nella Milano del 1631 descritta da Ben Pastor ci sono del resto le prostitute su cui il Manzoni non si sofferma, c’è la milizia armata del Cardinale Borromeo, descritto come tutt’altro che in odore di santità (al pari di Agnese, che non fa bella figura), ci sono i funzionari della dominazione spagnola con cui, tutto sommato, l’autrice è invece indulgente. E’ bello ritrovare qua e là nelle pagine anche i personaggi minori de “I Promessi Sposi”, come i bravi dell’Innominato o Tonio, l’amico di Renzo. Benché “La fossa dei lupi” si basi sulle indagini per scoprire chi ha ucciso l’Innominato, alla fine il nome del colpevole non è così interessante come tutte le vicende che servono per giungere alla soluzione, che intrigano il lettore al punto che si vorrebbe durassero di più. La soluzione del caso, comunque, arriva ed è convincente.


domenica 29 settembre 2024

AGOSTINO



Alberto Moravia
AGOSTINO
Bompiani
1989, brossurato
142 pagine, 8000 lire

A volte i libri devono aspettare il momento giusto della vita di un lettore per riuscire a farsi apprezzare, o addirittura amare. Confesso di aver avuto per la prima volta per le mani “Agostino”, di Alberto Moravia (1907-1990), durante gli anni del liceo, e di aver smesso di leggerlo, infastidito se non disgustato, dopo il primo capitolo, giunto a pagina venti. Mi era sembrato che l’argomento fosse un insano rapporto edipico fra madre e figlio, o quantomeno che si parlasse, più o meno morbosamente, di un adolescente attratto dal corpo della giovane mamma, o di lei innamorato. Mi parve qualcosa di cui non volevo sapere niente, e lasciai perdere il romanzo. Ma, convinto come sono che un libro iniziato lo si deve finire per forza, e con il bagaglio di letture e conoscenze maturato in oltre quarant’anni dal primo tentativo, eccomi a recuperare il racconto, anche perché, tutto sommato, poco più di cento pagine si leggono, volendo, in una sera. E mi sono accorto così che il romanzo comincia in realtà con il secondo capitolo, e la narrazione dà luogo a uno sviluppo del tutto diverso, in cui la figura della madre di Agostino si dissolve piano piano, fino a trasformarsi in qualcosa da cui il figlio si vuole allontanare, alla scoperta del resto del misterioso e conturbante universo femminile, e ancora di più alla scoperta del resto del mondo. Pubblicato per la prima volta nel 1943 in una edizione semiclandestina a causa della censura fascista che giudicò il romanzo troppo scabroso (in realtà, anche i temi dell’omosessualità, della pedofilia e della prostituzione vengono affrontati senza compiacimento, per allusioni, lasciando immaginare cose non dette), si ebbe una edizione definitiva nel 1945, a guerra conclusa. La vicenda è ambientata durante un’assolata estate in Versilia, e Agostino, che frequenta uno stabilimento balneare riservato ai benestanti, scopre l’esistenza delle spiagge popolari dove bivaccano ragazzi di strada da cui viene “iniziato” alla vita così com’è, al di là delle protettive braccia della mamma, fuori dalla bambagia. Non gli si rivela il “male” del mondo, ma la sua “non purezza”. L'adolescente scopre che vivere è crescere, scegliere, imparare a cavarsela, a fidarsi e a non fidarsi. La scrittura di Moravia è magistrale. Insomma, lieto di averti ritrovato, Agostino.



domenica 22 settembre 2024

PICCOLO CACTUS E… LA SIGNORA C



 
Cristina Contini
PICCOLO CACTUS E… LA SIGNORA C
Tielleci
2024, spillato
24 pagine

A volte non servono libri pubblicati da grandi editori e firmati da autori famosi per regalare delle emozioni. Né questo blog deve intendersi riservato a pubblicazioni blasonate. Perciò mi fa piacere parlare, questa volta, di un opuscolo spillato di formato orizzontale, del tutto simile ai vecchi album da disegno di quando andavamo a scuola, e persino stampato su una carta particolarmente adatta alle illustrazioni a matita che vi sono riprodotte. E in effetti di un album scolastico si tratta, essendo il risultato finale di un corso di illustrazione dell’anno accademico 2023-2024 dell’Università Popolare di Parma, sotto la guida della docente Roberta Ferretti. La particolarità della pubblicazione è rappresentata dal fatto che l’autrice, Cristina Contini, non lavora come illustratrice, né intende farlo (non almeno per mestiere). E’ una simpatica signora dal pollice verde, felicemente in pensione, che cerca di dedicarsi a tutto ciò che non aveva il tempo di fare quando lavorava, compreso frequentare un corso di disegno. Il risultato della sua applicazione è un piccolo libro dalla grafica deliziosa che racconta benissimo una storia “vera” tratta dal vissuto quotidiano, con protagonisti la Signora C (lei stessa), la sua gatta Macchia e un Piccolo Cactus rinato a nuova vita e dimostratosi incredibilmente prolifico. Il racconto è minimale, ma non sono minimali (non almeno nel senso di essere poca e piccola cosa) i disegni, assolutamente semplici quanto accattivanti e (miracolo della sensibilità, dell’istinto, del talento naturale) perfettamente funzionali alla narrazione rivolta, e non ci se ne meravigli, a grandi e bambini.
 


domenica 15 settembre 2024

TRADITORI DI TUTTI



 
Giorgio Scerbanenco
TRADITORI DI TUTTI
Garzanti
2014, brossurato
230 pagine, 8.90 euro

Di Giorgio Scerbanenco (1911-1969) e del suo Duca Lamberti (protagonista di quattro romanzi pubblicati tra il 1966 e il 1969) abbiamo già parlato quando ci siamo occupati di “Venere privata”, il primo titolo della serie. Per leggerne la recensione e quanto serve per inquadrare l’autore e il personaggio, basta cliccare qui.
“Traditori di tutti” è la seconda indagine di Duca Lamberti, uscita (come la precedente) nel 1966. Conviene, prima di approfondire alcuni aspetti, aggiustare un poco il tiro riguardo a quando ho scritto introducendo la prima inchiesta. Ho parlato infatti di una similitudine fra Georges Simenon e Giorgio Scerbanenco, elencando i punti di contatto tra i due scrittori e i loro romanzi: calati nella realtà, attenti alla psicologia dei personaggi e a capirne il disagio, pronti a bazzicare i bassifondi e provare empatia verso le vittime di un contesto sociale degradato, grande capacità di scrittura e di affabulazione. Ma ci sono anche diversità, inevitabilmente: Scerbanenco descrive una Milano da due milioni di abitanti, metropoli internazionale e non più città di provincia, crocevia di traffici illeciti di ogni genere, e Duca Lamberti è un duro, molto più duro di Maigret, che pure non scherza. Per di più, Lamberti non è un poliziotto e può agire al di fuori della Legge che, secondo lui, è troppo indulgente. Scerbanenco è uomo del suo tempo e non ci si può aspettare il rispetto della mistica del politicamente corretto. L’interrogatorio di Duca Lamberti al gestore del ristorante “La Binaschina” lascia a bocca aperta (si potrebbe contestare il metodo, ma il risultato è stupefacente). Scerbanenco già ametà anni Sessanta apre la strada all'hard boiled italiano (ma non “all’italiana”).
Oltre a indagare su tre duplici delitti avvenuti con le stesse modalità (le vittime sono annegati chiusi in auto affondate nel Naviglio), Duca Lamberti affronta gli accadimenti della sua vita privata, a partire dal suo senso di colpa per ciò che è accaduto a Livia Ussaro, la donna che ama, fino alla possibilità che gli viene offerta di venire reintegrato nell’Ordine dei medici se firma una dichiarazione in cui prende le distanze dall’eutanasia da lui compiuta per aiutare una paziente terminale a morire (lui risponde copiando l’abiura di Galileo Galilei). Il coinvolgimento dell’ex medico nella vicenda avviene in seguito alla richiesta di praticare una imenoplastica per ripristinare una verginità perduta, pretesa dal fidanzato della procace Giovanna Marelli, ma nel complicato intreccio di personaggi (alcuni ricorrenti, come il commissario Carrua e l’agente Mascaranti, o la sorella Lorenza e la nipotina Sara) si affrontano temi diversi, come il traffico di armi, il terrorismo altoatesino, le relazioni malate, gli psicopatici, i crimini di guerra e la lotta partigiana. Nel turbinare di situazioni, però, sembra esserci una sola certezza: tutti tradiscono tutti, come dice il titolo. Non tradisce, però, lo scrittore: il lettore se ne può fidare, a patto che non si attenda in lieto fine. Almeno, non quello a tarallucci e vino.


sabato 14 settembre 2024

VENERE PRIVATA

 

 
Giorgio Scerbanenco
VENERE PRIVATA
Garzanti
2014, brossurato
250 pagine, 8.90 euro

Concludendo la lettura di “Venere privata” di Giorgio Scerbanenco mi è venuto immediato un paragone con Georges Simenon. La Milano di Duca Lamberti (l’investigatore sui generis scerbanenchiano) è osservata con occhi simili alla Parigi di Maigret, con attenzione alla reale topografia, ai nomi dei quartieri e delle strade, e le indagini sono condotte tra gente vera, descritta nelle miserie e nelle debolezze al di là delle differenze sociali. E poi ci sono l’alcol, il fumo, la prostituzione, la pornografia, le nevrosi, la polvere, il sudore, le stanze d’albergo e gli appartamenti. C’è la malavita, organizzata e non, c’è la quotidianità di una città calata nel tempo (per Scerbanenco, gli anni Sessanta). C’è una centrale di polizia che non è nel Quai des Orfèvres ma in via Fatebenefratelli, e ci sono i poliziotti ricorrenti e riconoscibili per tratti caratteriali diversi fra loro. C’è un personaggio carismatico burbero e taciturno, Duca Lamberti, in realtà parecchio più problematico di Julius Maigret e con una concezione un po’ particolare della giustizia, ma al pari del francese con le idee chiare su come affrontare le situazioni e gli interrogatori, su come leggere nella testa degli interlocutori al di là di ciò che dicono le apparenze o di ciò che essi vogliono dare a bere. Due grandi scrittori, Simenon e Scerbanenco, peraltro contemporanei, e altrettanto versatili e prolifici. Peccato che la saga di Duca Lamberti conti appena quattro romanzi contro i settantacinque di Maigret. Per fortuna c'è molto altro e il consiglio è di leggere quanto più Scerbanenco possibile, iniziando magari proprio da “Venere privata”. Lo scrittore milanese (ma solo d’adozione) è in realtà nato a Kiev nel 1911 (quando c’era ancora lo zar) da padre ucraino e da madre italiana. Dopo la rivoluzione, il padre venne ucciso (come molti insegnanti) dai bolscevichi e la madre tornò a Roma, sua città di origine, attraverso un rocambolesco rimpatrio via Odessa e Istanbul, portandosi dietro il figlio. Lo racconta lo stesso scrittore in un suo brillante articolo autobiografico che Garzanti pubblica in appendice al romanzo: “Io, Vladimir Scerbanenko”. Non ancora ventenne, dopo aver italianizzato il suo nome, Scerbanenco si trasferisce a Milano, dove non ha vita facile, sia per le condizioni economiche famigliari sia per lo stato di salute (viene ricoverato a lungo in sanatorio). Poi, le cose cambiano: comincia a scrivere racconti, novelle e romanzi (dei generi più disparati: western, rosa, fantascienza, poliziesco), a collaborare con riviste e Case editrici. Dal 1939 inizia a curare per “Grazia” la rubrica “La posta del cuore”: sono le migliaia di lettere che riceve a fornirgli la grande conoscenza (dimostrata poi dai suoi scritti) di ciò che vortica negli animi delle persone. A differenza di Simenon, vissuto ottantasei anni, Scerbanenco scompare prematuramente nel 1969.  “Venere privata” è del 1966. All’inizio del romanzo, Duca Lamberti è appena uscito di prigione, dove ha scontato tre anni di reclusione. E’ anche stato radiato dall’albo dei medici, per lo stesso motivo che gli è costata la condanna: ha aiutato una paziente terminale a morire, praticandole una eutanasia. Si trova dunque nella condizione di dover ricominciare la vita da capo, avendo anche una sorella ragazza madre, Lorenza, da aiutare a mantenersi. Essendo figlio di un poliziotto (morto) di cui tutti, in via Fatebenefratelli, conservano stima e ricordo, può contare sull’amicizia del commissario Càrrua. L'ex medico accetta un incarico da un ricco imprenditore, che lo assume perché aiuti suo figlio, Davide Auseri, a uscire dalla dipendenza dall’alcol. Duca si rende conto che c’è qualcosa che spinge il giovane a bere: Davide si sente responsabile del suicidio di una ragazza, Alberta Radelli, avvenuto un anno prima. Della faccenda Davide non intende parlare, ma Lamberti lo spinge, con sapienza psicologica, a confidarsi. Duca ottiene dai suoi amici poliziotti maggiori informazioni sul caso, e scopre che non si tratta affatto di suicidio. Non solo: Alberta non è l’unica vittima. Salta fuori una torbida storia di sfruttamento della prostituzione. A risolvere il caso contribuisce in maniera fondamentale Livia Ussaro, una giovane donna bella, intraprendente e spigliata, con cui Lamberti sembra sul punto di iniziare una storia d’amore, ma che lui convince a prestarsi a essere usata come esca. Chissà se il nome di Livia dato da Camilleri alla fidanzata del suo Montalbano non derivi proprio dalla Ussaro scerbanenchiana, dato che anche la Livia di Duca Lamberti diviene una figura ricorrente nei successivi romanzi. “Venere privata” non ha però un lieto fine: gli assassini di Alberta pagano le loro colpe, ma ci sono risvolti tragici per l’ex-medico e la donna che ama pur dandole ancora del “lei”. Forse in questa disperazione di fondo c’è, in effetti, una delle più evidenti differenze fra Scerbanenco e Simenon.



venerdì 13 settembre 2024

TORNO A PRENDERTI

 

 
Stephen King
TORNO A PRENDERTI
Pickwick
2013, brossurato
108 pagine, 8.90 euro

Potrebbe sembrare strano che un romanzo di Stephen King sia lungo soltanto poco più di cento pagine. Di solito il Re quando scrive è un fiume in piena. Naturalmente c’è una spiegazione. “Torno a prenderti” non è esattamente un romanzo. E’ un racconto. Come racconto, in effetti, è piuttosto lungo, e tutto torna. E’ un racconto datato luglio 2007, pubblicato originariamente con il titolo “The Gingerbread Girl” sulla rivista statunitense “Esquire” e, prima dell’edizione Pickwick che sto recensendo, era già apparso in traduzione italiana (di Tullio Dobner, particolare che parlando di King non andrebbe mai omesso, almeno secondo i fedeli lettori) prima in appendice al romanzo “Blaze” (2007) a costituire una sorta di trailer per una successiva antologia, poi appunto nella raccolta “Al crepuscolo” (2008), entrambi targati Sperling & Kupfer. Nel 2013 ecco una insolita riproposta in “solitaria”, come un 45 giri estratto da un 33. Riproposta che funziona perché cento pagine si leggono agilmente e perché il racconto è adatto anche per un pubblico non particolarmente interessato all’horror o al fantastico. Non c’è magia, non ci sono streghe, non ci sono fantasmi, non ci sono mostri. O meglio, di mostri ce n’è uno ma è un uomo (cosa che magari terrorizza ancora di più, perché le streghe e i fantasmi non esistono, gli uomini sì). Inoltre la protagonista, Emily, è una giovane donna con cui è facile empatizzare. Ha perso una figlia ancora piccolissima, il trauma ha mandato a pezzi il suo matrimonio, la valvola di sfogo in cui si rifugia è la corsa, disperata, quotidiana, prima lungo le strade attorno a casa, poi in altre che la portano sempre più lontano, finché a casa non torna più. Fugge e si trasferisce nella villetta al mare che suo padre non usa più, su un’isola quasi disabitata durante l’inverno, in cerca di ritrovare una nuova ragione di vita. L’isola, però, non è abbastanza disabitata. O almeno, anche qualcun altro la usa per nascondersi dal mondo. Emily rischia la pelle, e King ci coinvolge nella lotta per sopravvivere della sua gingerbread girl, fino a un finale adrenalinico che fa tirare un sospiro di sollievo. Perché Emily si merita di vivere, come noi lettori siamo tutti d’accordo, e capiamo con lei che la vita stessa è una ragione di vita.


sabato 31 agosto 2024

LA PICCOLA OMBRA

 

 


All'inizio del mese di luglio 2024 è uscito lo Zagor n° 708 (Zenith 759), intitolato "Verdetto finale". Potete leggere il mio commento cliccando sul titolo (colorato). Se lo farete, fra le altre cose troverete scritto:
 
nella seconda parte dell'albo è contenuta una avventura breve e autoconclusiva, di 46 pagine, intitolata "La piccola ombra", da me sceneggiata per Fabrizio De Fabritiis. Di questa avventura parleremo prossimamente in un post apposito.

Poiché ogni promessa è debito, eccomi appunto a parlarvene. Ma dato che a una storia breve si addice un commento breve, per una disamina più lunga vi rimando alla recensione di Marco Corbetta pubblicata sul blog “Zagor e altro”.


Da parte mia, comincio con il riportare le parole con cui io stesso ho presentato “La piccola ombra” nella rubrica “I tamburi di Darkwood” a pagina 4 dell’albo Zenith 759:
 
“Verdetto finale” è caratterizzato dall’esordio sulla Collana Zenith di Fabrizio De Fabritiis, classe 1974, pescarese di nascita e novarese di adozione, con una poliedrica e multiforme attività nel curriculum, appartenente allo staff di Dragonero ma già visto alle prese con lo Spirito con la Scure nel 2022, con una storia della serie “I racconti di Darkwood” apparsa sul n° 5 di “Zagor Più”. Fabrizio è noto anche con il soprannome di “disegnatore esplosivo”, come lo chiamano i suoi numerosi ammiratori, e guardando le sue tavole da pagina 52 in poi si può capire anche il perché, visto come scardina le tradizionali tre strisce della cosiddetta “gabbia” bonelliana in funzione dell’efficacia narrativa di un racconto di comunque soltanto quarantasei pagine. Non è la prima volta che, nella nostra collana, dopo la conclusione di una storia lunga ne viene inserita una breve per completare un albo: basterà ricordare i precedenti di “Natale calibro 45” (sullo Zagor n° 54) e di “Puerto Juarez” (sul n°99).  
 
Fabrizio De Fabritiis

 

Ora, il talento di Fabrizio è indiscutibile, come dimostra l'illustrazione in apertura (e chi lo discute, evidentemente, offre motivo di discussione sulla propria capacità di giudizio, poi si sa che c’è chi dice che la Terra sia piatta), e sono stati innumerevoli gli apprezzamenti sulla sua opera giunti in redazione. L’eco di qualche voce critica mi è giunta solo riguardo allo “scardinamento” della gabbia bonelliana: c’era proprio bisogno di uscire dal seminato? Per sapere come la penso io riguardo alla gabbia a tre strisce basta recuperare un mio articolo pubblicato su questo blog nel 2011

perciò non sussistono dubbi al riguardo. Tuttavia, De Fabritiis ha usato una impaginazione libera delle vignette zagoriane non per un suo bizzarro ghiribizzo, ma per una mia precisa richiesta. Il che lo affranca da ogni responsabilità. Lui saprebbe disegnare benissimo anche dentro la tavola canonica. E perché io gli ho fatto una richiesta del genere? Bizzarro ghiribizzo mio? La risposta dovrebbe essere immediatamente deducibile rendendosi conto che si tratta di una storia di poco più di quaranta tavole e ricordando che esiste una serie nella serie intitolata “I racconti di Darkwood” (pubblicata prima sui Maxi e adesso su Zagor Più) costituita appunto da episodi di quaranta pagine. A parte la brevità, la caratteristica principale di questo format è la libertà di impaginazione grafica concessa a disegnatori per lo più ospiti volta a dimostrare come le avventure dello Spirito con la Scure possano venire narrate anche con tecniche narrative diverse, in funzione (naturalmente) di ciò che si intende raccontare e delle emozioni che si desiderano suscitare. Abbiamo potuto pubblicare storie molto apprezzate (una su tutte, “Brezza di Luna” illustrata, fuori da ogni gabbia, da Lola Airaghi). 
 
 
 
E’ evidente a tutti (tranne ai detrattori) che, essendo rimasta fino all’ultimo l’incertezza sulla lunghezza della storia con il ritorno di Supermike disegnata da Marco Verni (che cercava di battere il record precedente dell’avventura più lunga), si è trattato di dover riempire con un episodio breve, ma di una brevità “su misura”, la parte restante di “Verdetto finale” (come Guido Nolitta aveva fatto con i già citati casi di “Natale Calibro 45” e “Puerto Juarez”). Quindi, “La piccola ombra” è un “racconto di Darkwood” dirottato sulla Collana Zenith. Ecco spiegata l’insolita impaginazione. Che è insolita soltanto per Zagor, perché poi su Dylan Dog o Nathan Never da anni la libertà è la norma. E' la norma persino sui cartonati "alla francese" di Tex.
 
Peraltro, i lettori giungevano alle tavole di De Fabritiis dopo ben 518 pagine di  Verni, cioè disegnate con lo stile più classico possibile. Avendo goduto della “gabbia” nel suo massimo splendore per sei mesi di fila, lamentarsi di 46 tavole fuori dall’ordinario mi sembra proprio strambo. Però, c’è chi si lamenta del tappo delle bottiglie di plastica che non si stacca, dunque non c’è da meravigliarsi di nulla. Che poi, gabbia o non gabbia, l’unico punto della questione dovrebbe essere: la vicenda narrata da “La piccola ombra” è, pur nella sua brevità, interessante? Suscita una qualche emozione? Oppure no? Per quanto mi riguarda, Fabrizio l’ha narrata benissimo. Ognuno, poi, risponda come crede.




sabato 24 agosto 2024

MAESTRI DEL PENSIERO E DELLA PAROLA

 


 
Georg Popp
MAESTRI DEL PENSIERO E DELLA PAROLA
Fratelli Fabbri Editori
1961, cartonato
90 pagine

Tra i libri per ragazzi di una volta c’erano, oltre ai romanzi ritenuti adatti a loro (a volte anche equivocando), quelli edificanti o educativi destinati ad avvicinare i più giovani alle grandi figure o ai grandi fatti della storia. Le basi della mia personale  conoscenza della mitologica greca risalgono, per esempio, alla lettura fatta durante le elementari di “Storia delle storie del mondo” di Laura Orvieto, un libro scritto nel 1911 e ininterrottamente ristampato. La collana “I grandi personaggi del mondo” dei Fratelli Fabbri proponeva brevi biografie di esploratori (“Uomini alla scoperta della Terra”), scienziati (“Uomini al servizio della scienza”), musicisti (“Creatori di melodie eterne”), artisti (“Maestri dell’arte”). Ho recuperato su una bancarella “Maestri del pensiero e della parola”, tradotto dal tedesco e pubblicato in Italia nel 1961, attirato dal buono stato di conservazione e dalla nostalgia per quel tipo di produzione ben rilegata che veniva proposta ai nipoti dagli zii o dai nonni come regalo di Natale, compleanno, prima comunione e cresima. Ricordo che a me piaceva molto ricevere regali del genere, che preferivo ai calzini o alle maglie. Ad attirarmi ha contribuito anche la copertina di Alessandro Biffignandi (autore anche delle illustrazioni interne), che poi sarebbe diventato celebre anche per le cover del sexy pocket della Edifumetto di Renzo Barbieri. Di chi parla il libro? Di nove caposaldi della filosofia e della letteratura, a ciascuno dei quali viene dedicato un ritratto biografico (proposto in modo laico e tutto sommato corretto, pur se didascalico adatto a lettori giovanissimi) e un racconto che narra un particolare episodio della sua vita (in cui è evidente l’intento agiografico teso a suscitare ammirazione verso la figura di cui si parla). Si parte con Socrate, Platone e Aristotele, dei quali si compendia il pensiero filosofico in modo limitato ma accattivante, per passare poi a Dante Alighieri e, strano ma vero (visto che non è il primo nome che viene in mente), Giambattista Vico. Ci sono poi quattro scrittori stranieri, indicati all’italiana come Michele De Cervantes, Guglielmo Shakespeare, Giovanni Volfango Von Goethe, Giovanni Cristiano Andersen (anche in quest'ultimo caso ci si chiede il motivo della scelta). La lettura è divertente e briosa, alcuni aneddoti mi erano sconosciuti (come quello di Platone ridotto in schiavitù dal tiranno siracusano Dionigi), di altri viene da interrogarsi circa il perché si sia deciso di narrarlo (come la vicenda del cane di Aubry che Goethe non voleva far salire sul palcoscenico del teatro di Weimar). Del resto, però, qualcuno di voi si starà interrogando sul perché io abbia sentito il bisogno di scrivere questa recensione (così come io mi interrogo sul perché voi la stiate leggendo).


lunedì 19 agosto 2024

L’ALBERGO DEI FANTASMI



Wilkie Collins
L’ALBERGO DEI FANTASMI
I Classici del Giallo Mondadori
1990, brossura
176 pagine, 5000 lire

Confesso la mia passione per i giallisti d’epoca. Non disdegno i moderni e i conremporanei, ma prediligo quelli attivi nella prima metà del secolo scorso. Wilkie Collins è ancora più datato. Nato nel 1824 e morto nel 1889, fu addirittura grande amico e collaboratore di Charles Dickens.  “L’albergo dei fantasmi”, noto anche come “L’albergo stregato” (The Hounted Hotel), è del 1879. Ma c’è  qualcosa per cui Collins viene soprattutto ricordato, ed è il tenebroso romanzo (di grandissimo successo) “La pietra della luna”, del 1868, che secondo T. S. Eliot è stato “Il primo e il più grande romanzo poliziesco inglese, un genere scoperto da Collins, non da Poe”. G. K. Chesterton, del resto, lo definì “il miglior romanzo poliziesco mai scritto” (almeno fino a quel momento). Comunque sia, un caposaldo. Proprio in ragione della fama dell’autore (la cui biografia riserva non poche sorprese), ho recuperato una vecchia edizione nei Classici del Giallo Mondadori de “L’albergo dei fantasmi” e non sono rimasto deluso. La narrazione, ambientata nel 1860, si svolge in parte a Londra e in parte a Venezia, là dove sorge, appunto, l’Hotel Palace, da poco inaugurato dopo una ristrutturazione tesa a recuperare un antico palazzo fatiscente che era stato pochi mesi prima teatro di una misteriosa scomparsa (quella di un accompagnatore turistico) e di una strana morte (quella del nobile inglese, Herbert Westwick, che lo aveva preso in affitto). Una delle stanze dell’albergo sembra infestata da oscure presenze che si manifestano con spettrali apparizioni, incubi e malesseri che colpiscono chi vi trascorre la notte, esalazioni di cattivi odori. La trama gialla (che fine ha fatto la persona scomparsa? Davvero il nobile che questi accompagnava è morto per malattia? Che senso hanno i suoi strani comportamenti di Herbert Wickwick precedenti al trapasso?) si intreccia con una storia d’amore che sembra uscita da un romanzo di Jane Austen (con una rigida suddivisione in classi della società) o di Charles Dickens. Non c’è un investigatore, ma due forti protagoniste femminili ben caratterizzate, Agnes Lockwood e la contessa Narona.


martedì 6 agosto 2024

IL PASSATO DI VIVIANE, L'INFERMIERA



 

Filippo Pieri
Cryx
IL PASSATO DI VIVIANE, L'INFERMIERA
Sbam!
2024, brossurato
64 pagine, 10 euro 

Filippo Pieri e Cristiano Cryx Corsani ci consegnano il terzo, divertente libro di Viviane, "Il passato di Viviane, l'infermiera".  Che poi è il prequel del primo, "Viviane, l'infermiera" di cui abbiamo parlato qui (e che aveva una mia prefazione):

https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/2018/07/viviane-linfermiera.html

e quindi precede anche il secondo, "Sulle tracce di Viviane, l'infermiera", recensito invece qui:
Così come la seconda puntata aveva caratteristiche diverse dalla prima (humor amaro e alanfordiano contro commedia sexy soft), questa terza (che cronologicamente precede le altre) è diversa da entrambe, proponendo un intreccio brillante di equivoci e situazioni da sit-com alternate a skeytches e gag slapstick, in un alternarsi di personaggi che vanno e vengono togliendo la scena alla protagonista, Viviane, che pur essendo la primadonna finisce per recitare meno degli altri (il che va benissimo) partecipando però da comprimaria al gioco di squadra. Gli spunti sexy sono ridotti al minimo sindacale, ma ci sono parecchie buone battute e qualche divertente colpo di scena. Mi sono sembrati buffi soprattutto i due investigatori privati Ordigno Belluomo e Dinamitardo Bellino (i cui genitori erano ammiratori  della cantante Mina), che fra i tanti rimandi che si possono rintracciare assomigliano a Smalto & Johnny di Pezzin e Cavazzano.  Filippo Pieri, che da grande non voleva fare il pompiere (ma il fumettaro), e il sodale Cryx, che a un certo punto della vita ha sbagliato bivio trovandosi a lavorare come informatico (come si autoraccontano) si confermano sceneggiatore e disegnatore del dopocena ma con il vantaggio di divertirsi nel potersi sbizzarrire senza vincoli di orario e senza dover timbrare il cartellino.
 
 

giovedì 1 agosto 2024

IL RE DI DARKWOOD



Guido Nolitta
Gallieno Ferri
IL RE DI DARKWOOD
Sergio Bonelli Editore
 2024, cartonato
176 pagine, 27 euro
 
Ci sono storie che non invecchiano mai. Sicuramente, “Zagor racconta…” (1969) è fra queste: un classico evergreen, un capolavoro nei testi come nei disegni.   La prima puntata, su un totale di sei albetti a striscia (in quello che era il formato tipico delle pubblicazioni a fumetti degli anni Cinquanta e Sessanta), apparve in edicola il 10 luglio 1969 proprio con il titolo che serve a identificare tutta la storia. Si trattava del n° 62 della quarta serie della “Collana Lampo”. Seguirono, con cadenza quindicinale, gli episodi “Il demone della vendetta”, “Vento di morte”, “L’orribile verità”, “Zagor entra scena” e “Il re della foresta” (quest’ultimo datato 25 settembre). L’avventura venne poi riproposta sui numeri Zenith Gigante 106 e 107  (1970) e quindi sui numeri 56 e 57 di Zagor Ristampa (1974) e Tutto Zagor (1990). Per ben due volte il racconto è giunto in libreria sottoforma di cartonato a colori, prima con il marchio Cepim (1977) e poi con quello Sergio Bonelli Editore (2016). Il volume che vedete nella foto in apertura rappresenta una terza edizione con una nuova veste grafica e una nuova introduzione, vista la continua richiesta da parte dei lettori. “Il re di Darkwood” narra di come un ragazzo chiamato Patrick Wilding, attraverso una serie di tragici eventi che segnano la sua vita, giunge a vestire i panni dello Spirito con la Scure e a investirsi della missione di portare pace e giustizia nella regione in cui è nato, facendo da peacekeeper fra le varie etnie e comunità che la popolano.
Quando Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli) iniziò a sceneggiare l’avventura per affidarla ai pennelli di Gallieno Ferri, erano passati meno di tre anni dall’uscita in edicola di una storia intitolata “Il passato di Tex” (1966), scritta da suo padre, Giovanni Luigi Bonelli. Il successo era stato tale da convincere il figlio che anche i lettori dello Spirito con la Scure avrebbero apprezzato che venissero svelate le origini del loro beniamino. Anche perché il primo numero della saga del Re di Darkwood, intitolato “La foresta degli agguati” (1961), nulla diceva di cosa avesse portato il personaggio a vestire i panni del giustiziere e come fosse riuscito a farsi considerare un inviato di Manito dai pellerossa. Quando l’eroe dalla casacca rossa compare per la prima volta sulla scena, tutto è già accaduto e ciò che ci viene narrato è solo il suo incontro con Cico. Per otto anni, il folto pubblico zagoriano ha ignorato persino il vero nome del protagonista delle loro avventure preferite.  Va detto che, comunque, “Zagor racconta…” questo nome non lo rivela, e Nolitta si limita al cognome: Wilding. Per scoprire che lo Spirito con la Scure si chiama Patrick bisognerà attendere addirittura il 1995, quando lo si scopre nello Special “Darkwood Anno Zero”.
Nel 2019, in occasione del cinquantennale del classico dei classici di cui ci stiano occupando, sono cominciati a uscire in libreria i sei volumi  (poi pubblicati anche come albi da edicola) della serie “Zagor: le Origini”, in cui le vicende del “Re di Darkwood” sono state raccontate in modo più esteso e analitico, fornendo spiegazioni sulle questioni lasciate in sospeso da Nolitta e Ferri.

mercoledì 31 luglio 2024

DI AMORE E DI GUERRA

 


Mino Milani
DI AMORE E DI GUERRA
Interlinea
2018, brossurato
164 pagine, 15 euro

All’anagrafe era Guglielmo, ma tutti lo hanno sempre chiamato Mino. Nato a Pavia nel 1928 e morto nella sua città nel 2022 a 94 anni, Mino Milani è autore di una lista infinita di romanzi e di racconti, per ragazzi e per adulti, e per adulti ragazzi e ragazzi adulti, e di una serie di fumetti ancora più infinita (so che non può esserci un infinito più infinito di un altro, ma per Milani valgono le eccezioni alle regole), per non parlare della divulgazione storica e biografica e della saggistica dedicata alla sua terra e all’Italia intera, medievale come risorgimentale. 
Giornalista e direttore di giornali, collaboratore prolifico del “Corriere dei Piccoli” e del “Corriere dei Ragazzi”, sceneggiatore per fumettisti illustri (tra i quali Pratt, Manara, Battaglia, Toppi e Micheluzzi), maestro di Alfredo Castelli e Tiziano Sclavi, creatore di personaggi memorabili (come Tommy River, Efrem, Melchiorre Ferrari, Selina), Mino Milani è soprattutto uno straordinario affabulatore, in grado di narrare qualunque storia, vera o inventata, facendo restare tutti incantati, trascinati nel suo racconto. Lo dimostra “Di amore e di guerra”, un coinvolgente diario, personale e generazionale, locale e universale, degli anni della Guerra da lui vissuti durante gli anni dell’adolescenza e  del liceo (frequentò il Classico “Ugo Foscolo” di Pavia). “Fu certo una stagione difficile. Per i ragazzi richiamati alle armi; per gli altri, che riuscivano a nascondersi, per altri ancora che per convinzione o per caso o per convenienza si mettevano dall’una o dall’altra parte, chi con i fascisti, cioè, chi con i partigiani”, scrive l’autore. L’autobiografia è limitata agli anni tra il 1940 e il 1945 ma sono anni fondamentali, per Milani e per l’Italia: il titolo ben suggerisce l’idea di un percorso di crescita e di presa di coscienza lungo un percorso da “romanzo di formazione” grazie al quale il giovane Milo scopre il sesso e si confronta con la morte sempre dietro l’angolo. La narrazione è ricca di aneddoti coinvolgenti, a volte divertenti, più spesso drammatici, con l’attenzione sempre puntata sulla vita quotidiana della gente pavese, presa a paradigma dell’intera società, chiamata a una prova suprema. Milani descrive le cose com’erano e come stavano, senza livore ideologico, comprese le difficoltà del decidere che fare di fronte a scelte terribili. Si arriva al momento in cui schierarsi diventa obbligatorio e benché molto giovane (sedici anni) Mino collabora come interprete e corriere con la Resistenza. Non si vanta di imprese gloriose, non si atteggia a eroe, piange anche la morte di ragazzi come lui caduti dalla parte sbagliata. Il racconto è sempre misurato, poche parole bastano a tratteggiare scenari ed emozioni. Un gran bel libro.



martedì 30 luglio 2024

LE FINESTRE DI FRONTE

 
 


Georges Simenon
LE FINESTRE DI FRONTE
Adelphi
2022, brossurato
184 pagine, 12 euro

La prima cosa che mi sono chiesto a lettura terminata è se Georges Simenon avesse davvero visitato le coste sovietiche del Mar Nero. Mi sono risposto di sì prima ancora di averne conferma da una breve ricerca nella biografia dello scrittore, che effettivamente nella primavera del 1933 compì un viaggio a Odessa e in altre città  dell’Unione Sovietica spingendosi fino in Georgia, e testimoniò in un celebre reportage su “Le Jour” le conseguenze sulla popolazione della tragica carestia nota come Holodomor. “Le finestre di fronte”, pubblicato nell’autunno di quell’anno, evidentemente sull’onda emotiva che lo spinse a dare al più presto anche la forma di romanzo alle sue esperienze di viaggiatore, è ambientato a Batum, città portuale sul Mar Nero, georgiana ma in territorio sovietico, negli secondi anni Venti. Le vestigia di un passato vivace e mercantile si stanno sfaldando in un lugubre abbandono, stritolato dal regime stalinista (Stalin peraltro era nato in Georgia), dovunque regnano sporcizia, miseria, burocrazia, oppressione, disperazione. Quella di Simenon è una delle prime voci ad aprire uno squarcio sulla realtà dell’URSS, descrivendone in modo incisivo le storture kafkiane.  Commenta Goffredo Parise: “Scritto da un genio, questo breve capolavoro è il romanzo del controllo e dell’annullamento totale dell’uomo sotto la più potente, importante e demiurgica dittatura poliziesca che l’umanità moderna abbia mai conosciuto”. Protagonista sono il giovane console turco Adil bey, appena giunto a Batum dopo la morte (misteriosa) del suo predecessore, e Sonia, la sua interprete e segretaria georgiana che si ostina a dichiarare che tutto va nel migliore dei modi, quando è evidente che non è così: si attendono documenti da Mosca che non arrivano mai, i dischi di musica occidentale vengono sequestrati, ci sono arresti arbitrari e si fucila chiunque solo per il sospetto che si voglia fuggire all’estero. Adil bey cerca personale per il suo consolato e non lo trova nonostante il gran numero di affamati per le strade, perché anche i domestici devono essere selezionati dalle autorità sovietiche tra le spie al proprio servizio, e le finestre della casa di fronte non sono aperture da cui sbirciare la vita dei vicini ma, come il giovane turco capisce troppo tardi, perché chi ci alloggia possa spiare lui. Adil si innamora di Sonia e vorrebbe portarla con sé a Istanbul, scappando dall’URSS prima di fare una brutta fine: ma come? Sembra che l’unico modo sia farla imbarcare clandestinamente su una nave in partenza verso l’Occidente, ma venendo scoperti si rischia l’immediata fucilazione. Le ultime pagine del romanzo sono degne dei migliori thriller.



domenica 28 luglio 2024

FRANKENSTEIN

 



Mary  Shelley
FRANKENSTEIN
Newton & Compton Editori
2003, brossurato
150 pagine

L’edizione di “Frankenstein o il moderno Prometeo” che ho letto è contenuta in una antologia (pregevole in tutto tranne che nel titolo, “Mostri & Co”) insieme ad altri classici ottocenteschi della letteratura horror, praticamente quelli fondativi del genere, come “Dracula” di Bram Stoker, “Il Golem” di Gustav Meyrink, “Il dottor Jekyll e mister Hyde” di Robert Louis Stevenson, “Il signore dei lupi” di Alexandre Dumas, “La mummia” di Theophile Gautier”, “Il vampiro” di John William Polidori. Ciascun romanzo è preceduto da una approfondita introduzione critica. Nel caso di “Frankenstein” c’è anche la nota dell’autrice, Mary Shelley, che fu premessa all’edizione del 1831, la terza e definitiva, dopo quelle del 1818 e del 1823. “Ho accolto con piacere la richiesta dell’editore affinché fornissi qualche informazione su com’è nata la storia”, scrive la Shelley, “perché così potrò dare una volta per tutte risposta a un quesito che mi viene posto con tanta frequenza: come ho potuto io, allora una ragazzina, concepire e sviluppare un’idea così orrenda”. Quando l’idea di “Frankenstein” prese corpo si era nel 1816 e l’autrice aveva soltanto diciannove anni (essendo nata nel 1797). La vicenda è nota: si trovava con il marito, Percy Bysshe Shelley, ospite di lord Byron a villa Diodati, sul lago di Ginevra, in Svizzera, e con loro c’era anche John William Polidori, che di Byron era il medico personale. Il 1816 fu “the year without summer”, l’anno senza estate, per le conseguenze che ebbe sul clima europeo l’eruzione di un vulcano asiatico. I quattro amici furono costretti a restare in casa per giorni e giorni a causa della pioggia incessante, e la forzata clausura li portò a concepire una sorta di sfida: “ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi”, propose lord Byron. E la storia di fantasmi di Mary Shelley fu quel “Frankenstein” che le avrebbe portato fama imperitura. Nella sua versione definitiva, quella del 1831, il romanzo della Shelley è un vero gioiello di scrittura. L’analisi delle fonti, delle implicazioni filosofiche, delle influenze sulla letteratura, della fortuna multimediale, dell’iconografia collegata ai due protagonisti (lo scienziato Frankenstein e la creatura da lui portata alla vita) ha riempito centinaia di saggi e di disamine (ne citerò una in grado di compendiarne la maggior parte “Frankenstein, il mito tra scienza e immaginario”, di Marco Ciardi e Pier Luigi Gaspa, edito da Carocci). Certo di non potere aggiungere niente di originale (neppure rimandando ai robot di Asimov, o alla versione di Dean R. Koontz, piuttosto che al Molok zagoriano), mi limiterò a qualche brevissimo appunto. 
Innanzitutto, se qualcuno si chiede se valga la pena di leggere un romanzo scritto nel 1818, temendo una lettura resa faticosa dalla polvere del tempo, la risposta è “assolutamente sì”. Vale la pena. Certo, non è un romanzo di Stephen King (che non sarebbe stato Stephen King senza Mary Shelley), ma si legge con facilità e piacevolezza. Non è neppure troppo horror, nel senso che l’autrice non calca la mano e le emozioni derivano non da scene splatter e violente, ma dal turbinare di inquietudine e disperazione che agita le menti dei due protagonisti, Frankenstein e la sua creatura, che si giudicano entrambi maledetti dall’esperimento che il primo ha condotto e alla seconda data una vita non richiesta e diversa da quella degli altri. Un po’ invecchiata è la struttura, divisa in tre parti (la prima pubblicazione avvenne del resto in tre volumi), con una prima sezione marinaresca-avventurosa narrata dal capitano di una nave che scrive alla sorella raccontando la sua missione esplorativa tra i ghiacci artici, poi una seconda occupata dal resoconto di Frankenstein, qui una terza in cui è la creatura a raccontare le cose dal proprio punto di vista. Mi ha colpito la scoperta del mondo attraverso i sensi, che insegnano al mostro attraverso l’esperienza (mi ha ricordato il “Trattato delle Sensazioni” di Condillac). Mi sono stupito anche del fatto che lo scienziato avesse l’intenzione di dar vita a una creatura di bell’aspetto (intenzione poi fallita) e ho trovato la spiegazione del perché il mostro fosse così gigantesco: lavorare sul formato grande era più facile. Mancano gli approfondimenti scientifici (non si accenna a come Frankenstein possa aver fatto quel che ha fatto), mancano riferimenti al divino (la creatura ha un’anima?), non c’è nessun castello isolato colpito da un fulmine. In ogni caso, ben fatto Mary.

 

venerdì 12 luglio 2024

UNA STORIA SEMPLICE



 
 
 
Leonardo Sciascia
UNA STORIA SEMPLICE
Adelphi
2023, brossurato
80 pagine, 10 euro

Leonardo Sciascia (1921-1989) è sempre un autore straordinario, anche nelle opere meno note. Non saprei dire se “Una storia semplice” (1989) sia un’opera meno nota de “Il giorno della civetta”, sicuramente è più breve. Si tratta dell’ultimo romanzo dello scrittore di Racalmuto, da cui nel 1991 è stato tratto un film con Gian Maria Volonté, che a sua volta recitò per l’ultima volta in una pellicola italiana (era stato tra gli interpreti anche delle versioni cinematografiche di “A ciascuno il suo” e di “Todo modo”). “Una storia semplice”, il cui spunto iniziale venne fornito a Sciascia da un fatto di cronaca (il furto della Natività del Caravaggio, tela rubata a Palermo nel 1969 e mai più ritrovata), è in realtà una storia complicata e, com’è regola nei racconti dell’autore, senza lieto fine. Siamo in una località siciliana, Monterosso, dove il 18 marzo 1989 (la data è citata) viene ucciso, in casa propria, l’ex diplomatico Giorgio Roccella, tornato, senza preavviso e dopo una lunga assenza, nella casa di origine, una masseria in campagna, lasciata in custodia al parroco del luogo, padre Cricco. L’assassino, persona nota alla vittima, inscena un suicidio, commettendo però qualche piccolo errore. Inizialmente, proprio come un caso di suicidio si pensa di archiviare le pratica: una storia semplice, appunto. Una storia che si legge, ammirandone la scrittura puntuale ed essenziale, come se fosse un giallo, e in effetti di un giallo si tratta, con indizi disseminati e particolari rivelatori, dalle tinte noir e persino thriller (drammatica e tesissima la scena del commissario che pulisce la pistola puntandola contro il brigadiere), ma i canoni del genere vengono contraddetti allorché si racconta dell’inefficienza degli esperti della scientifica, della rivalità tra poliziotti e carabinieri, della presunzione dei graduati incaricati delle indagini che si rifiutano di ascoltare il parere degli inferiori di grado che però l’hanno vista giusta, della preferenza degli investigatori verso la pista facile, degli arresti senza senso, degli aggiustamenti della realtà da parte delle istituzioni in favore di versioni di comodo che mettano le magagne a tacere, della connivenza con la malavita delle autorità. Si diceva della scrittura puntuale ed essenziale: l’autore parla della propria, allorché descrive il brigadiere (così definito, senza un nome, per tutto il romanzo) che prende appunti sulla scena del delitto. Leggiamo, infatti: “il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie”. Non manca l’ironia, mutuata da Pirandello, e basta vedere, come esempio, ciò che si dice degli “esperti scientifici” della questura, che erano, secondo il brigadiere, soltanto dei “privilegiati, non avendo fino ad allora esperienza di un solo caso in cui costoro avessero dato un contributo risolutivo, di confusione piuttosto”. Un piccolo gioiello, di poco spessore soltanto quanto a numero di pagine.