giovedì 29 settembre 2022

CARLO V

 
 

 
 
Guido Gerosa
CARLO V
Mondadori
Collana Oscar Storia
2005, brossurato
480 pagine, 9,40 Euro

Il saggio di Guido Gerosa, giornalista fiumano classe 1933 morto a Milano nel 1999, è uscito la prima volta nel 2000 all’interno della collana mondadoriana, dei volumi cartonati de “Le scie”, è stato ristampato negli Oscar Storia nel 2002. Dietro la bella copertina (un particolare di un ritratto di Tiziano – ma peccato che poi all’interno del volume l’iconografia lasci a desiderare), Gerosa compila una avvincente biografia di Carlo V, imperatore sul cui impero non tramontava mai il sole, ma anche disegna un grande affresco della  sua epoca, il Cinquecento, che davvero si rivela affascinante e drammatica, di sicuro complessa e piena di fatti e personaggi. Carlo nacque proprio nel 1500, e visse 58 anni, segnando la storia dell’intero Occidente nella prima metà del secolo. Nato a Gand, in Borgogna, da Filippo il Bello (figlio di Anna di Borgogna e dell’austriaco Massimiliano I che l’aveva sposata quando era solo ancora arciduca) e da Giovanna La Pazza (che forse pazza non era, sfortunata figlia dei cattolicissimi sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella), Carlo divenne re di Spagna a sedici anni, alla morte del nonno materno e del padre. A diciannove anni fu eletto imperatore, essendosi comprato il voto dei sette elettori tedeschi, e strappando (in una sorta di asta) il titolo a Francesco I di Francia, soltanto un paio di anni più anziano di lui, che ambiva alla stessa corona e che per questo (ma non solo) gli serbò rancore tutta la vita divenendo il suo più acerrimo nemico, la sua vera spina nel fianco. Morto anche il nonno paterno, Carlo si trovò padrone di tutta l’Europa, eccezion fatta per la Francia e l’Inghilterra. Non fu facile per lui gestire tanti popoli, che lui voleva riunire sotto un solo regno cristiano. A parte le continue guerre a cui lo costringeva Francesco I, Carlo dovette fronteggiare la riforma luterana (incontrò Lutero a Worms nel 1521 e fu il più accanito sostenitore della necessità del Concilio di Trento), la minaccia dei turchi e dei pirati barbareschi, le rivolte interne (comuneros, anabattisti, fiorentini), la rivalità del Papa Clemente VII. Si trovò anche a dover gestire le scoperte del Nuovo Mondo e le spedizioni dei conquistadores Cortez e Bizzarro. Venne accusato (anche se lui, forse, non ne fu davvero responsabile) di aver ordinato il Sacco di Roma del 1527 e l’assedio di Firenze nel 1530. Riuscì a catturare prigionieri, in due diverse occasioni, sia il re di Francoia che il Papa, e tutti e due liberò comportandosi cavallerescamente (senza infierire sui loro territori), come del resto si conveniva a un cavaliere del Toson d’Oro, e da tutti e due fu tradito. Alla fine della sua vita, abdicò in favore del figlio Filippo II e si ritirò in convento in Spagna (era convintamene cattolico) e morì due anni dopo. Guido Gerosa racconta in maniera brillante e ricca di aneddoti la vita del sovrano e quella dei tanti che ebbero a che vedere con lui. e ci appassiona a vicende storiche lontane nel tempo che sembrano fatti di cronaca recente.

domenica 25 settembre 2022

OMICIDIO A LERICI

 


Claudio Nizzi
OMICIDIO A LERICI
Adelmo Iaccheri Editore
brossurato, 2022
208 pagine, 16.90 euro


Ho già detto che la scrittura di Claudio Nizzi è ipnotica? No, in realtà non l’ho ancora detto (ono andato a rileggermi le altre recensioni dei suoi romanzi pubblicate su questo blog), quindi lo posso dire adesso senza timore di ripetermi. Commentando il libro precedente, “L’orrendo delitto del vicolo Babbini”, il sesto della serie dedicata al pingue maresciallo dei carabinieri Lello Caruso, avevo però scritto: “Tutti i romanzi sono divertenti e gradevoli, scritti peraltro in punta di penna, utilizzando un linguaggio elegantissimo e puntuale, con frasi brevi in cui non c'è mai una parola di troppo ma che sono in grado di restituire l'efficacia di ogni scena come se la si vedesse scorrere davanti agli occhi un una pellicola in bianco e nero, essenziale ma ficcante, di un film degli anni giovanili di Nino Manfredi o Ugo Tognazzi”. Recensendo “L’americano” (il quarto con Caruso) avevo accennato invece a un possibile paragone con Andrea Vitali, per la ricostruzione della vita quotidiana di un paese di provincia negli anni del Dopoguerra, paese che nel caso di Nizzi si chiamo Borgo Torre, località inventata ma collocata nel Frignano, sulle montagne modenesi. Adesso azzardo un paragone invece con Ed McBain, lo scrittore della serie dell’87° distretto, non tanto per l’intreccio del giallo, quanto per la bravura nello scrivere i dialoghi. Non porto oltre l’argomento, mi basterà aver fatto capire quanto apprezzi il modo di scrivere dell’autore di Fiumalbo (sì, è evidente che Borgo Torre è Fiumalbo sotto falso nome). Ogni scrittore, ovviamente, ha il proprio stile: Nizzi irretisce e intriga con il suo periodare semplice ed essenziale e una volta rimasti incantati si divora il libro quasi senza accorgersene. Nel settimo romanzo della serie, come già nel sesto, Borgo Torre però non c’è. Se ne “L’orrendo delitto di vicolo Babbini” il maresciallo Caruso era andato a indagare in trasferta a Pavullo (località del Frignano realmente esistente), questa volta lo seguiamo in vacanza a Lerici, in Liguria, impegnato, con la moglie Erminia, nel trastullo dei nipotini, in un alloggio affittato vicino alla casa dei cognati. Sennonché, nei pressi del residence “Le Colombaie” (una serie di villini disposti in cerchio attorno a un parco in comune) viene trovato morto il giovane Manlio Bonaiuti, figlio di un notaio che abita proprio in quel complesso. Il maresciallo Calicò, della locale stazione dei carabinieri, coinvolge subito nelle indagini il collega in ferie, ritenendo che l’assassino possa nascondersi proprio fra i residenti del residence. In tutto, otto famiglie, più un custode. Ben presto si scopre che almeno quattro persone, fra i vicini di casa, avrebbero avuto ottimi motivi per uccidere Manlio (anche il lettore lo trova detestabile, del resto). Nizzi tratteggia da par suo le diverse personalità del teatrino di personaggi, abile in questo quanto nel caratterizzare quelli delle sue storie di Tex (di cui è stato uno dei più prolifici sceneggiatori). La soluzione del giallo convince, ma il romanzo si fa leggere soprattutto per come viene narrato da un affabulatore gradevole mai sopra le righe.

giovedì 22 settembre 2022

L’ARTE DI ESSERE FELICI



 

Arthur Schopenhauer
L’ARTE DI ESSERE FELICI
Adelphi
brossurato - 1997
116 pagine 
 
Un breve saggio di Franco Volpi informa, molto puntualmente, di come questo breve trattato di Schopenahuer, un prezioso livre de chevet che fa da pendant con "L’Arte di Ottenere Ragione", sia, a differenza di quello, un libro mai scritto. Anzi, compare per la prima volta in Italia, senza essere stato dato alle stampe neppure in Germania. Questo perché lo si è ricavato dagli appunti sparsi e dalle note che il filosofo aveva lasciato in vari suoi quaderni con la chiara intenzione di raggruppare poi le annotazioni e farne un breve trattato di “eudemonologia”, ovvero l’arte di comportarsi saggiamente allo scopo di condurre una esistenza felice. La definizione di “esistenza felice” la si ricava dalla massima n° 49 (in tutto, il libretto si divide in 50 massime): “un’esistenza che, considerata in termini puramente oggettivi – ovvero con una riflessione saggia e matura – sarebbe decisamente da preferirsi alla non-esistenza”.  Del resto, nella massima n° 22, Schopenahuer scrive che “il principio primo dell’eudemonologia è che questa stessa espressione è un eufemismo e che ‘vivere felici’ può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente”. Nella massima n° 17, si legge: “la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata”.
Giustamente, Franco Volpi annota quanto sia strano andare a lezione di felicità da un maestro del pessimismo come Schopnehauer. “A prima vista - scrive il Volpi – il suo radicale e disincantato pessimismo rende difficile persino associare la sua filosofia all’idea della felicità: essa gli appare una meta irraggiungibile per l’uomo e il termine stesso ‘felicità’, dal suo punto di vista è un eufemismo. Ciò non deve significare, però, deporre preventivamente le armi, cioè rinunciare a sfruttare le regole, gli espedienti e i criteri di prudenza che il nostro ingegno si suggerisce per contrastare le avversità di cui la vita abbonda”. 
L’ingegno, appunto: come nel caso dell’ "Arte di Ottenere Ragione", è questa la principale arma in dotazione di ogni individuo nella lotta contro il mondo. E del resto la massima n° 10 consiste in una citazione da Seneca: “Se vuoi assoggettare ogni cosa, assoggettati alla ragione”. La ragione suggerisce essenzialmente di limitare i castelli in aria, di almanaccare fantasie, di farsi illusioni. “Il giovane crede che il mondo sia fatto per essere goduto e sia un domicilio della felicità, la quale sfugge solo a coloro che non hanno l’abilità di cercarla; lo rafforzano in questa idea romanzi, poesie, e l’ipocrisia che il mondo continuamente e ovunque produce con la sua parvenza esterna” (massima n° 22).  “Il mezzo più sicuro per non diventare molto infelici consiste nel non chiedere di diventare molto felici” (massima n° 36). Le illusioni, per Schopenhauer, sono “alture da cui si può scendere solo cadendo” (massima n° 5). L’importante è convincersi subito, o il più presto possibile, che “il meglio che il mondo ci può offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore; se esso ci è dato sappiamo apprezzarlo, e si guardiamo bene dal guastarlo aspirando senza posa a gioie immaginarie o preoccupandoci con timore di un futuro sempre incerto che, per quanto lottiamo, rimane pur sempre, completamente nelle mani del destino” (massima n° 16). Da questo punto di vista, accontentandoci di quanto abbiamo e non coltivando aspettative che la vita difficilmente realizzerà, conviene godere dell’attimo presente senza vivere continuamente nella preoccupazione del futuro. “Coloro che, animati da una continua tensione, vivono solo nel futuro, guardano sempre avanti e corrono incontro con impazienza alle cose che sopraggiungono come alle sole che porteranno la vera felicità, lasciando intanto passare inosservato il presente senza goderne. Costoro vivono sempre solo ad interim fino alla morte. Per  non perdere la quiete di tutta la nostra vita badando a mali incerti e indeterminati, dobbiamo abituarci a considerare i primi come se non giungessero mai e i secondi come se non giungessero certo adesso” (massima n° 14). Del presente, dunque, conviene godere subito, se solo c’è da goderne. “Chi è sereno ha sempre motivo di esserlo, che è appunto il fatto di essere sereno. Niente quanto la serenità può sostituire sicuramente e in abbondanza ogni altro bene. Se si vuole giudicare la felicità di un individuo ricco, giovane, belle e onorato, ci si chieda se è anche sereno; viceversa, se è sereno, risulta indifferente se sia giovane o vecchio, povero o ricco: è felice. Dobbiamo quindi spalancare le porte alla serenità, in qualsiasi momento capiti, poiché non giunge mai inopportuna!”. Altrove il concetto viene ribadito: “Se si è sereni, non chiedere per giunta a se stessi l’autorizzazione a esserlo, stando lì a riflettere se si ha per davvero motivi di essere sereni da tutti i punti di vista” (massima n° 13).  La serenità si raggiunge anche non pensare più a quanto si è deciso dopo aver riflettuto sul da farsi, “tenendo chiuso il cassetto dei pensieri che lo riguardano e tranquillizzandosi con la convinzione che a suo tempo tutto è stato soppesato a dovere” (massima n° 7).  Guai a pensare troppo a quanto è già successo: “una volta che è capitata una sventura e non ci si può fare nulla, non concedersi nemmeno il pensiero che le cose avrebbero potuto andare diversamente” (massima n° 11).  Va coltivato, viceversa, il fatalismo: “ci si deve abituare a considerare ogni evento come necessario” (massima n° 39). Del resto, per mantenere la calma in tutte le avversità della vita bisogna considerare “il male presente come una parte minima di ciò che potrebbe capitargli” (massima n° 15), e dunque essere soddisfatti del fatto che per quanto le cose vadano male, potrebbero andare peggio. C’è, infatti, chi se la passa peggio di noi, ed è buona norma “osservare spesso quelli che stanno peggio di noi” (massima n° 27). Ed è fondamentale “evitare l’invidia” (massima n° 2). “Dobbiamo cercare di arrivare a guardare ciò che possediamo esattamente con gli stessi occhi con cui lo guarderemmo se ci fosse sottratto. Di qualunque cosa si tratti, beni, salute, amici, amata, moglie, figli, per lo più ne percepiamo il valore solo dopo averla perduta” (massima n° 25).  Nella massima n° 1 si legge: “Perché mai dovrebbe essere folle preoccuparsi sempre di godere il più possibile dell’unico, sicuro presente, se la vita intera altro non è che un frammento più grande di presente, e come tale assolutamente transeunte?”. Dunque, non farsi illusioni e godere di ciò che si ha: bisogna “limitare la propria cerchia, si offre così minor presa all’infelicità” (massima n° 8). E ancora: “la fonte del nostro scontento risiede nei nostri tentativi, continuamente rinnovantisi, per aumentare il termine costituito dalle pretese” (massima n° 4). Limitare le proprie pretese significa che “un uomo deve sapere ciò che vuole e sapere ciò che può. Una volta che siamo perfettamente consapevoli delle nostre forze e debolezze, non tenteremo neanche di dimostrare forze che non abbiamo, non giocheremo con la falsa moneta, perché tale ciurmeria finisce col fallire il suo scopo” (massima n° 3). In buona sostanza, occorre “fare di buon grado ciò che si può, e sopportare altrettanto di buon grado ciò che si deve” (massima n° 6). Per capire ciò che si può e ciò che si deve, serve “parlare il meno possibile con gli altri, moltissimo con sé stessi” (massima n° 12). In ogni caso, meglio “non manifestare grande giubilo o grande sofferenza riguardo ad alcun avvenimento” (massima n° 19), e non “lasciare trasparire l’ira o l’odio nelle parole o nelle espressioni del volto”. La massima n° 34 sottolinea come “è facile esagerare con i rimproveri contro se stessi. Il corso della nostra vita, infatti, non è opera nostra in termini così assoluti, ma è il prodotto di due fattori, vale a dire la serie degli eventi e quella delle nostre decisioni”. L’ultima massima, la cinquantesima, conclude: “la nostra felicità dipende da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si tiene conto del nostro destino e di ciò che abbiamo. Il destino può diventare migliore e la moderazione non pretende molto da esso, ma un babbeo rimane un babbeo e un ottuso gaglioffo e un ottuso gaglioffo per tutta l’eternità, fosse egli in paradiso circondato da uri. La personalità è la felicità più alta”.


giovedì 15 settembre 2022

HOMO DEUS

 

 


 

 

Yuval Noah Harari
HOMO DEUS
Bompiani
Brossurato, 2019
550 pagine


Una lettura affascinante e inquietante al tempo stesso. “Difficile immaginare qualcuno che nel leggere questo libro non provi ogni tanto un brivido di vertigine”, ha scritto “The Guardian”, e io sostituirei “ogni tanto” con “a ogni pagina”. Yuval Noah Harari (1976), saggista israeliano, storico laureato a d Oxford e titolare di una cattedra di storia all’università di Gerusalemme, attivista per i diritti civili e animalista, potrebbe anche fregiarsi del titolo di “futurologo” con cui venne etichettato Roberto Vacca dopo aver scritto, nel 1971, “Il medioevo prossimo venturo”: entrambi cercano di prevedere l’evoluzione della civiltà e della società umana (il sottotitolo di "Homo Deus" è "Breve storia del futuro"). Rispetto alle ipotesi dello studioso italiano, però, il saggio di quello israeliano non prevede una regressione della civiltà per la degradazione dei massimi sistemi destinati a divenire insostenibili, ma uno scontro fra uomo e intelligenze artificiali. Semplificando al massimo, secondo Harari si possono interpretare gli organismi viventi come algoritmi (che cos’è il DNA se non una serie di istruzioni?) e la vita come un processo di elaborazione dati. I computer sono ormai in grado di imparare da soli, correggere i propri errori, trovare strade e soluzioni alternative prima e meglio di come possano fare i cervelli umani, perciò “algoritmi non coscienti e inconsapevoli ma dotati di grande intelligenza potranno presto conoscerci meglio di quanto noi conosciamo noi stessi”, scrive Harari. E’ singolare che il nome Harari ricordi quello di Hari Seldon, lo scienziato nato dalla fantasia di Isaac Asimov, protagonista della saga fantascientifica “Fondazione”, il cui primo volume venne pubblicato nel 1951: Seldon ritiene che il corso della Storia, o meglio, il comportamento di grandi masse di persone (l’umanità nel suo complesso), si possa prevedere su base matematica, disponendo dei dati necessari. Impossibile non notare come l’elaborazione dei “big data” già permetta ai giorni nostri di fare previsioni attendibili sulle scelte non degli utenti di Internet e dei social. Harari esamina lo sviluppo storico della civiltà dell’Homo Sapiens, divenuta ormai la specie dominante sulla Terra con il potete di vita e di morte sulle altre creature e sul destino dell’intero pianeta: siamo già “Homo Deus”. Che cosa accadrà, adesso? Nessuno dice che la nostra evoluzione sia finita, e potrebbe anche accadere che siamo destinati a trasformarci in qualcosa di molto diverso, forse a essere sostituiti da intelligenze nate come artificiali ma in grado di prendere il nostro posto come noi abbiamo fatto con gli uomini di Neanderthal. Il che potrebbe non essere un male e rappresentare anzi l’approdo finale all’immortalità e alla felicità eterna. Di nuovo, viene in mente Asimov con il suo racconto “Biliardo darwiniano” (Darwinian Pool Room, 1950), in cui si ipotizza che la naturale evoluzione dell’essere umano siano i robot. Ma c’è qualcosa di ancora più clamoroso. A pagina 466, Harari scrive: “Gli umani sono meri strumenti per creare un sistema cosmico di elaborazione dati che sarebbe come Dio. Potrebbe alla fine espandersi dal pianeta Terra e invadere l’intera galassia e perfino tutto l’universo. Sarebbe dovunque e controllerebbe tutto quanto, gli uomini sono destinati a fondersi in Lui”. Ora, andate a rileggere uno dei caposaldi asimoviani, il racconto “L’ultima domanda” (The Last Question, 1956): è diviso in sette parti, ognuna delle quali immagina una sempre maggiore evoluzione della scienza e dell’umanità, finché gli uomini si fondono con la coscienza di un elaboratore dati divenuto ormai in grado di fare tutto, compreso creare un nuovo universo.

mercoledì 14 settembre 2022

L'UOMO CON LA FACCIA IN OMBRA

 

 


 


Tito Faraci
L'UOMO CON LA FACCIA IN OMBRA
Feltrinelli
brossurato, 2022
224 pagine, 18 euro
 
"L'uomo con la faccia in ombra" a cui allude il titolo è, evidentemente, lo sceneggiatore di fumetti. Una figura la cui esistenza, al di là della ristretta cerchia degli adepti e degli iniziati, sfugge al senso comune. Il rasoio di Occam, il principio filosofico che invita a sceglidere, fra le varie ipotesi possibili, quella più semplice, spinge a ritenere che i fumetti li faccia uno, e uno solo: il fumettaro. Se i fumetti li crea il disegnatore, costui è già il motore immobile aristotelico e non c'è bisogno di una entità precedente. Invece, coloro che lavorano nel mondo del fumetto si dividono principalmente in due grandi famiglie: autori dei testi, quelli cioè che inventano una storia e la raccontano dividendola in vignette, e disegnatori, che si occupano di illustrare quanto sceneggiato dai primi. In realtà non è così semplice, dato che a volte gli sceneggiatori sono persone diverse dai soggettisti, e i disegnatori possono divedersi in matististi, inchiostratori e coloristi, e poi ci sono i letteristi, i grafici e gli editor. Ma per non confondere le idee, limitiamoci a parlare di sceneggiatori e disegnatori. Tito Faraci appartiene alla prima categoria. E', appunto, una di quelle persone di cui pochissimi sospettano l'esistenza. Sto scherzando. In realtà, da autore vulcanico e poliedrico qual è, tutti lo conoscono. “Ho scritto tante cose molto diverse fra loro per non annoiarmi, e non annoiare”, ha dichiarato in una intervista a uBC. Nato a Gallarate (Milano) il 23 maggio 1965, Luca “Tito” Faraci, sceneggiatore non soltanto di storie a fumetti di eroi di propria ideazione, ma anche brillante e originale interprete di storici personaggi italiani e internazionali, tant’è vero che è stato uno dei primi scrittori europei a essersi cimentato con racconti di personaggi Marvel, quali Capitan America, Devil e l’Uomo Ragno. E' noto come sceneggiatore Disney (con particolare predilezione per Topolino), ma anche di Diabolik, di Tex, di Dylan Dog, di Zagor, di Lupo Aberto e perfino dell'Uomo Ragno. Aggiungiamoci vari graphic novel, alcuni romanzi, la direzione di collane di libri, la sua attività di critico musicale, di paroliere di brani rock e addirittura cantante e batterista.
Pochi autori di fumetti possono vantare un curriculum ricco come quello di I suoi primi passi nel mondo della carta stampata avvengono come giornalista musicale, per poi esordire in campo fumettistico lavorando sotto pseudonimo per un’ agenzia, prima di entrare, nel 1995, a far parte dello Staff di If e poter firmare con il suo vero nome le prime sceneggiature disneyane (la storia d’esordio, “Ciccio e la penna indigesta”, è del 1996). A partire dal 1998, Faraci comincia a collaborare direttamente con la Disney inaugurando una serie di storie “gialle” ambientate a Topolinia, caratterizzate da un taglio moderno e maturo sia nei contenuti che nello stile. Nel 2000, questi racconti vengono raccolti dalla Einaudi in un volume dal titolo “Topolino Noir”, destinato a dare molta notorietà all’autore anche al di fuori dal tradizionale circuito degli appassionati. Faraci dà un’impronta molto personale alle sue storie di Mickey Mouse, e dimostra, oltre che un grande talento comico (le sue gag sono sempre molto divertenti), anche una capacità di raccontare trame originali in cui elementi drammatici e avventurosi si sposano con l’umorismo in un gradevole mix. Tra i disegnatori con cui soprattutto stringe sodalizio c’è Giorgio Cavazzano: si deve ai due la creazione di Rock Sassi, uno rude e bizzarro poliziotto texano messo al fianco dell’ispettore Manetta. In ambito Disney, il suo nome è legato anche a collane innovative quali PKNA (Paperinik New Adventures) e MMMM (Mickey Mouse Mistery Magazine). A partire dal 1998 lo scrittore inizia a collaborare con Lupo Alberto e, soprattutto, con Diabolik, un personaggio da lui rinfrescato nella scelta delle tematiche e nel ritmo del racconto. Datato 1999 è inoltre l’approdo alla Sergio Bonelli Editore, con una proficua collaborazione (in cui è evidente la sua personale “calligrafia”, che lo porta a venire immediatamente identificato) che comincia con Dylan Dog. Tocca proprio a lui, comunque, inaugurare la tradizione delle miniserie bonelliane mandando in edicola, nel 2005, “Brad Barron”: un eroe fantascientifico che però vive le sue avventure in un passato alternativo fermo agli anni Cinquanta, con episodi ciascuno dedicato a un particolare genere letterario in modo da offrire una sorta di contaminazione postmoderna tra i miti dell’immaginario collettivo, cifra stilistica, questa, che contraddistingue da sempre il suo lavoro. L'attività in casa Disney mettono molto presto Tito Faraci in contatto con Giorgio Cavazzano, con il quale lo sceneggiatore realizza non solo molte storie di topi e di paperi, ma anche un graphic novel umoristico intitolato “Jungle Town” e una atipica storia Marvel dell’Uomo Ragno, ambientata a Venezia (“L’uomo ragno e il segreto del vetro”). Sempre per la “Casa delle Idee” newyorkese, nel 2006 l’autore sceneggia un'altra storia con due protagonisti in team up, Devil e Capitan America, dal titolo “Doppia morte”, illustrata da Claudio Villa. Altre due graphic novel a sua firma sono “Infierno!” (disegnato da Silvia Ziche), e “L’ultima battaglia” (con l’americano Danie Brereton). In ambito bonelliano, Faraci scrive storie per Nick Raider, Martin Mystère, Magico Vento, Tex, Zagor e Cico. Decine sono inoltre le storie da lui realizzate per Lupo Alberto e Diabolik. Nel 2008, Faraci firma la versione disneyana del “Novecento” di Alessandro Baricco, con Pippo quale protagonista: il sodalizio con lo scrittore porta anche alla versione a fumetti del romanzo baricchiano “Senza sangue”, affidato alle matite di Francesco Ripoli.Non va dimenticata l’opera di Faraci come talent scout, organizzatore di eventi, curatore di collane e anche editore in proprio, ma anche di scrittore: nel 2011 è uscito infatti l’ horror “Oltre la soglia”, pubblicato da Piemme, seguito da "Death Metal" per lo stesso editore. In precedenza, per la Disney Libri, era uscito il romanzo “Il popolo delle tenebre”. Sono seguiti poi i romanzi "Nato sette volte", "La vita in generale", "Spigole". Aggiungo la miniserie "Quei due", quattro volumi cartonati di una sit-com edita da Bonelli. E' difficile, naturalmente tracciare un ritratto esaustivo di un simile autore. Perciò la faccio breve aggiungendo che con "L'uomo con la faccia in ombra" Tito traccia una sorta di "manuale autobiografico" che racconta il suo innamoramento per il fumetto in anni (quella della nostra infanzia, sia mia che sua) che hanno segnato la nostra vita, e il suo percorso di avvicinamento verso la professione di sceneggiatore. Credo di aver compiuto la stessa operazione anche io con il mio saggio "Io e Zagor" (Cut-Up Publishing) in cui racconto esperienze simili. A seguire, un vademecum per scrivere soggetti e sceneggiature con esempi tratti da storie Disney, di Diabolik e di Zagor, nel caso qualcuno volesse cimentarsi con la scrittira di fumetti popolari (anche se, secondi me, il futuro è del graphic novel). Di Tito saggista sul fumetto ricordo il bellissimo "Mickey: uomini e Topo", che trovate recensito qui:

domenica 4 settembre 2022

IL DESTINO DI HELLINGEN

 
 
 

 
 
 
Moreno Burattini
Gianni Sedioli
Marco Verni
IL DESTINO DI HELLINGEN
brossurato, 2022
304 pagine, 15 euro


Gli albi della Collana Zenith raccolti in questo volume uscirono originariamente nelle edicole italiane tra il luglio e il settembre del 2019 (Zagor nn° 648-650). Pur divisa in tre puntate, si tratta di un’unica vicenda che si ricollega direttamente a quanto rimasto in sospeso al termine del precedente scontro tra l’eroe di Darkwood e il suo più pericoloso avversario, il professor Hellingen, risalente al 2015 (Zagor nn° 602-605). Quindi, l’avventura che state per leggere in questo volume, il settimo della serie, prosegue il racconto contenuto nel sesto (“Il giorno dell’invasione”) il quale, come si sarà accorto chi lo ha letto, lasciava appunto intendere che ci sarebbe stato un seguito, non risolvendo del tutto la situazione. Sesto e settimo volume raccontano dunque una sorta di lunga saga concepita per riportare Hellingen nelle esatte condizioni delle prime avventure sceneggiate da Sergio Bonelli. Restituirlo cioè alla dimensione di scienziato pazzo, senza addentellati magici e orrorifici, senza sortilegi, senza demoni e perfino senza extraterrestri. Tutto ciò, naturalmente, cercando di non contraddire quanto raccontato da Tiziano Sclavi e Mauro Boselli quando si sono confrontati da par loro con il mad doctor nolittiano, proponendone versioni autoriali assai diverse da quella delle origini, come non abbiamo mancato di far notare nelle introduzioni del quarto e del quinto volume della nostra collana. "Il destino di Hellingen" è il settimo e per il momento ultimo volume della collana da libreria dedicata alla lotta fra Zagor e il mad doctor che è il suo più irriducibie nemico. Giunti in fondo alla lettura di questo volume, capirete che ci sono i presupposti perché la saga continui. Del resto, Hellingen ha già fatto ritorno come avversario di Dylan Dog e Martin Mystère nello speciale che propone il terzo team up fra i due, intitolato “L’abisso del male”, datato 2018, scritto da Carlo Recagno e Alfredo Castelli e illustrato da Giovanni Freghieri. La sua figura è anche presente nella storia in cui Zagor incontra Flash, il velocista della DC Comics, uscita nel 2022 e intitolata “La scure e il fulmine” (sceneggiata da Giovanni Masi e Mauro Uzzeo e affidata ai disegni di Davide Gianfelice). Evidentemente, ci sono altre vicende che attendono di essere raccontate. Per il momento, però, il nostro percorso finisce qui. Ma, come si sa, il futuro è un’ipotesi e sicuramente ci riserverà nuove sorprese.Si diceva dell’intento dello sceneggiatore (il sottoscritto) di riportare Hellingen alla sua dimensione originaria, quella di mad doctor, senza più contaminazioni con la magia. Va tuttavia segnalato come sia stato lo stesso creatore del personaggio, Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli) a inserire l’elemento fantastico nella saga dello scienziato pazzo. L’ultima storia di Zagor da lui sceneggiata (ultima con Hellingen, ma anche quella che segna la fine del suo apporto come scrittore alla saga dello Spirito con la Scure – sarebbe poi rimasto comunque immutato il suo fondamentale ruolo di editore) si intitola proprio “Magia senza tempo”, e il titolo non inganna: il racconto contiene proprio elementi magici. Gli Akkroniani vengono sconfitti da armi inventate appartenute a un antico eroe rosso entrato in contatto con una divinità, Kiki Manito. Quindi, in realtà, l’utilizzo della magia operato da Mauro Boselli segue, amplificandone i risultati e portandoli alle estreme conseguenze, una scelta già operata da Sergio Bonelli. Riprendendo in mano un racconto in cui Hellingen è prigioniero in una dimensione parallela di un demone, dovevo per forza far ricorso ugualmente ad elementi magici, anche se con lo scopo di toglierli di mezzo. Quindi nessuna meraviglia nel ritrovare il Wendigo e il suo castello sul monte Naatani in una storia che si propone il ritorno alle origini.

sabato 3 settembre 2022

OMBRE SU ALGERI

 
 

 
 
Mirko Di Bella
OMBRE SU ALGERI
Amazon
2022, brossurato
92 pagine


Tra il 1934 e il 1936 il narratore americano Robert Ervin Howard (1906-1936), noto soprattutto per aver creato Conan (ma autore, nonostante la breve vita interrotta da un suicidio, di una sterminata messe di romanzi e racconti), scrisse tre racconti con protagonista Agnes de Chastillon, un’eroina che potremmo definire di “cappa e spada” calata nel contesto storico del XVI secolo. Le opere rimasero inedite: Howard non trovò nessuna rivista che li accettasse. Vennero ritrovate da Glenn Lord, agente letterario degli eredi, all’inizio degli anni Settanta, e soltanto allora pubblicate. Il motivo della difficoltà dello scrittore nel reperire un editore va forse individuata nel fatto che le avventure di Agnes erano realistiche e non inseribili nel genere heroic fantasy, come la maggior parte della restante produzione howardiana, e dunque vennero giudicate adatte a comparire su “Weird Tales” (il magazine su cui erano apparse le sue principali opere). Forse è per questo che dopo “Sword Woman” e “Blades for France” (i primi due racconti), nel terzo, “Mistress of Death”, contiene alcuni elementi fantastici: Agnes e l’avventuriero scozzese John Stuart (con cui ha stretto sodalizio) devono affrontare i sortilegi di uno stregone. A distanza di novant’anni, l’appassionato Mirko Di Bella, grande conoscitore e cultore dell’universo howardiano, si è cimentato nell’impresa di scrivere un quarto racconto con protagonista Agnes de Chastillon, appunto “Ombre su Algeri”. L’operazione è particolarmente riuscita perché Di Bella, oltre a restituirci una Agnes rispettosa del modello, riesce a collegare gli elementi dell’avventura storica, perfettamente inserita nella realtà cinquecentesca, con suggestioni e rimandi all’era hyboriana in cui è ambientata la saga di Conan. Il libro è corredato da una introduzione e da una appendice in cui questi rimandi sono spiegati in modo convincente. La trama è così riassunta in quarta di copertina: “Sulle tracce di una nobildonna rapita dai pirati barbareschi, Agnes de Chastillon giunge ad Algeri, centro nevralgico delle scorrerie ottomane nel Mediterraneo. Mentre l'avventuriera è impegnata nella ricerca, le serpentine ombre della congiura si addensano sulla città e sul suo signore, Kaireddin Barbarossa”. Un'eroina pronta per un film o una serie TV, la nostra Agnes.
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