sabato 24 febbraio 2018

IL RAGAZZO SENZA STORIA





IL RAGAZZO SENZA STORIA
di Ross Macdonald
Polillo Editore
2012, 265 pagine
brossura, 14.90 euro

La Polillo benemerita per la sua collana "I bassotti", di cui ho recensito qualche titolo, dedicata ai gialli classici di scuola inglese, ha al suo attivo una seconda serie, "I mastini", riservata invece alle crime stories americane. Ross Macdonald (1915-1983), californiano, è considerato un maestro del genere insieme a Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Il suo vero nome era Kenneth Millar,  nato in California ma cresciuto in Canada. Il principale personaggio di Macdonald, non a caso, è un detective privato, Lew Archer che è stato per varie volte interpretato sul grande schermo da Paul Newman (noi lo conosciamo come Harper, e il film più famoso è "Detective Harper: acqua alla gola"). Archer non è un duro, non spara, non picchia la gente. Però sa indagare. Ha fiuto per le piste, sa interrogare le persone facendo le giuste domande, non si lascia facilmente infinocchiare. Seguirlo mentre indaga è divertente e intrigante. In questo romanzo ("The Galton Case", l'ottavo della serie), datato 1959, i colpi di scena sono continui e tutto quel che sembra di aver capito viene smontato dalle scoperte fatte nel capitolo successivo. Che si deve chiedere di più a un poliziesco? Archer viene ingaggiato da una vecchia e ricca signora, l'eccentrica Maria Galton, perché ritrovi suo figlio Anthony, scomparso da vent'anni, quando se ne è andato di casa, volontariamente, senza più dare notizie, dopo una serie di scontri con la madre causati dal suo matrimonio con una ragazza di bassa estrazione sociale, dalla quale aspettava un figlio. S distanza di così tanti anni il caso sembra di difficile soluzione (Antohonyu ha fatto di tutto per non farsi ritrovare, come pare subito evidente)  ma il detective rintraccia il nipote, figlio dello scomparso, che, morto il padre, risulta essere l'unico erede delle sostanze della nonna. Ma davvero il ragazzo è chi dice di essere? La signora Galton è convinta di sé, e accoglie il giovane come se fosse suo figlio. Il medico di famiglia August Howell, invece, lo ritiene un impostore e resta sconvolto quando la sua stessa figlia, Sheila, si innamora del ragazzo. Intende smascherarlo! La soluzione è assolutamente sorprendente, e ribalta ogni attesa come in un gioco di specchi. La trama è complessa ma la storia scorre secondo la logica ferrea che, secondo me, tutti i gialli dovrebbero avere (e purtroppo non tutti hanno). Alla base c'è il meccanismo dell' agnizione tipo di molte tragedie greche, cioè quello del riconoscimento dio una persona data per persa o scomparsa, al suo ritorno a casa, ed è proprio a questo che Macdonald, che considerava questo romanzo il suo migliore, dice di essersi rifatto.


venerdì 23 febbraio 2018

MORTALITA'





MORTALITA'
di Christopher Hitchens
Piemme, 
2012, 100 pagine
cartonato, 12 euro

"Tra le più lucide e illuminanti pagine sulla condizione umana": così il New York Times ha recensito questo aureo libretto che raccoglie gli ultimi scritti di Hitchens, giornalista, polemista, intellettuale e conferenziere. Di lui, Richard Dawkins ha detto: "era il più grande oratore del nostro tempo", per la sua capacità di catturare e infiammare le platee. Ne abbiamo parlato, qui e sul blog, a proposito del libro "Processo a Dio", che raccoglie la discussione svoltasi durante un celebre dibattito televisivo dello scrittore con Tony Blair a proposito della religione, e ancora dopo parlando del saggio "La posizione della missionaria" in cui Hitchens puntava l'indice contro Madre Teresa di Calcutta (potete ritrovare tutte e due le mie recensioni da qualche parte nel mare magnum di "Freddo cane in questa palude"). Ma, soprattutto, Hitchens è l'autore del fondamentale "Dio non è grande" (fondamentale anche per chi crede, perché non si può prescindere dal considerare le idee dello scrittore, e nel caso replicare). Nel giugno 2009, mentre era impegnato nel tour promozionale della sua autobiografia "Hitch 22" (anch'essa imperdibile, edita in Italia da Einaudi), al giornalista viene diagnosticato un tumore all'esofago andato in metastasi. Nei successivi diciotto mesi, Hitchens racconta su "Vanity Fair" tutte le fasi della lotta contro il male (anche se scrive: "non sono io che combatto il cancro, è il cancro che combatte contro di me"), mettendo per scritto in modo lucido e impietoso sia le descrizioni delle sofferenze sia il dipanarsi delle sue riflessioni sulla vita e sulla morte. Gli articoli sono stati appunto raccolti in questo libro, e non smentiscono in nulla il grande talento dell'autore sia come polemista (formidabili le sue risposte a chi sosteneva che la sua malattia fosse una punizione divina e ne gioiva) sia come indagatore in campo letterario, filosofico, sociologico, politico. Commoventi gli ultimi appunti rimasti incompleti, raccolti nel capitolo conclusivo, tra cui questo aforisma che racconta tutto di lui: "Se mi converto sarà perché è meglio che muoia un credente che un ateo". Hitchens è morto nel dicembre 2011.


venerdì 16 febbraio 2018

LETTERA AL MIO GIUDICE



Georges Simenon
LETTERA AL MIO GIUDICE
Adelphi
2003, brossurato
206 pagine, 13.50 euro


Mi è parso di riconoscere gran parte delle tematiche de "L'uomo che guardava passare i treni", che Simenon scrisse nel 1938, in questa "Lettera al mio giudice" che invece è del 1946. In ambedue i romanzi il protagonista è un uomo dalla vita tranquilla che improvvisamente si ribella alle convenzioni sociali e sceglie di essere se stesso. O meglio, per usare una metafora contenuta nella "Lettera", di ritrovare la propria ombra. Charles Alavoine, medico di campagna, per due volte si sposa (la seconda dopo essere rimasto vedovo della prima moglie morta di parto) in ossequio a ciò che tutti si aspettano da un uomo come lui: che abbia un lavoro dignitoso, una consorte, dei figli. E lui si adatta, pur essendo insoddisfatto della propria vita. Non è che non veda vie di fuga: non considera l'ipotesi che le cose possano andare diversamente. Però si accorge sempre di più che gli manca l'ombra, come se la sua esistenza fosse senza sostanza, non vera. Finché non scatta una molla che cambia le cose. Charles conosce per caso una ragazza, Martine, di cui si innamora follemente, al punto da non concepire più come possibile la vita senza di lei. La cosa manda a monte il suo matrimonio con la borghesissima seconda moglie Armande, con cui da tempo non ha più neppure rapporto sessuali, che pure si dice disposta a tollerare che il marito sfoghi i propri bisogni con l'altra a patto che ciò avvenga discretamente e occasionalmente al di fuori delle mura domestiche, in modo da salvare le apparenze. Armande non ha capito che per Charles non si tratta di quello: si tratta della propria vita, del diritto di essere felice. Ci sono pagine molto belle che esprimono il concetto di una esistenza che deve assomigliare a chi la vive, e che spiegano cos'è l'amore. "Il bisogno di una presenza, anzitutto. Il bisogno necessario, assoluto, vitale come un bisogno fisico. Poi la smania di spiegarsi, a noi stessi e all'alto, perché siamo così estasiati, così consapevoli di essere di fronte a un miracolo. Abbiamo tanta paura di perdere quella cosa in cui non avevamo mai sperato, che il destino non ci doveva, che forse ci è stata donata per caso, da sentire continuamente il bisogno di rassicurarci e, per rassicurarci, capire". Purtroppo la forza dirompente della scoperta di come l'amore possa cambiare la vita, porta a degli scompensi in Charles. Il crollo delle precedenti certezze, che pure lui rifiuta con piena consapevolezza, è destabilizzante. Martine è una ragazza dal passato torbido. Probabilmente gli anni in cui il romanzo fu scritto non permisero a Simenon di essere più esplicito, o è lo stesso Charles, nel scrivere la sua Lettera al giudice (tutto il romanzo è costruito come una missiva scritta dal carcere), a essere reticente, ma si accenna di continuo all' "altra Martine", quella della vita prima del suo incontro con il medico. Ragazza dolce, docile, facile, che attira gli uomini da cui veniva sfruttata, manipolata, lusingata, e a cui piaceva trarre rassicurazioni dai desideri altrui, Martine forse è stata una prostituta, comunque è passata attraverso esperienze promiscue non meglio specificate. Dal momento in cui Charles se ne innamora, lui la vuole solo per sé. L'idea del suo passato lo manda un bestia e il medico diventa preda di una furia incontenibile - che porterà alla sua perdizione, e a quella della ragazza, che pure accetta il suo destino perché anche lei trova in quell'amore folle una catarsi desiderata. Drammatico e disturbante, soprattutto nel finale. Simenon sempre magistrale. Da questo romanzo è stato tratto il film "Il frutto proibito" (1952), di Henry Verneuil.

domenica 11 febbraio 2018

SILENZI




Emily Dickinson
SILENZI
Poesia - Feltrinelli
2016 - brossurato
212 pagine -  9.50 euro

Barbara Lanati, traduttrice e selezionatrice delle circa 140 poesie raccolte in questa antologia (delle oltre 1700 scritte dalla Dickinson), è anche l'autrice di un saggio introduttivo molto interessante, che serve a illuminare l'opera della schiva poetessa americana, nata ad Amherst (Massachussetts) nel 1830 e lì morta nel 1886, praticamente senza mai essersene allontanata. "Io non mi spingo oltre il giardino di mio padre, non vado a casa di nessuno, non vado in nessun'altra città", scrive la stessa Dickinson in una lettera del 1869 a Thomas Higginson, redattore di una rivista a cui aveva sottoposto in visione alcune sue poesie. Emily fu sempre timida, introversa, impaurita. La sua vita trascorse nell'attesa di un qualcosa o di un qualcuno che non arrivò mai, ritirata in una stanza, consumata nella lettura, nell'introspezione, nel silenzio dei pomeriggi spesi a lavorare a quelle brevi poesie che solo a quattro anni dalla morte lo stesso Higginson avrebbe dato alle stampe. Dopo averle, beninteso, edulcorate e corrette in nome di una considerazione della poesia femminile come composta e controllata. Cosa che i versi della Dickinson non sempre erano, e non solo l'atteggiamento equivoco di Emily nei confronti della religione ("Non mi sentirò a casa, lo so / nei cieli lulinosi. / Il Paradiso non mi piace / perché è domenica tutti i giorni / e l'intervallo non arriva mai" - poesia 413). C'è di più. Scorrendo i brevi componimenti raccolti in questa antologia ci si accorge subito di come la "vergine di Amherst" espliciti nei suoi versi un grande fermento, una grande passione, addirittura una grande sensualità. "Notti selvagge! Notti selvagge! / Fossi io con te / notti selvagge sarebbero / la nostra passione": così recita la poesia 249. E c'è da notare che il verso finale, tradotto fin troppo castigatamente dalla Lanati (che ha tolto anche il punto eclamativo), in inglese suona: "Our luxury!".  Ed ecco la 162: "Il mio fiume scorre verso di te / Azzurro Mare! Mi accoglierai? / Il mio fiume aspetta una risposta / Oh Mare, siimi benevolo / ti porterò ruscelli da angoli lontani / Ehi Mare, prendimi!". (Bellissima in inglese: "My Rivers runs to thee / Blue Sea! Wilt welcome me? / My Rivers waits reply / Oh Sea - look graciously / I'll fetch thee Brooks / From spotted nooks / Say - Sea - Take Me!").  Scrive la Lanati: "La poesia della Dickinson trascrive l'esperienza di una donna che seppe abbracciare la condizione della solitudine e farne un provocatorio strumento di conoscenza e avvicinamento all'uomo, una donna che visse nell'ostinata interrogazione del silenzio e a quel silenzio riuscì a dare un corpo: la parola poetica". Dunque, vita ritirata e schiva, ma grande impeto interiore sfogato unicamente nella poesia. Poesia che comunque, parla soltanto di lei stessa, è soggettiva, chiusa nel suo piccolo. L'introspezione della poesia dickinsoniana porta talvolta Emily a una scriuttura allusiva e astratta, verrebbe da dire comprensibile solo a lei stessa. Tuttavia, al contrario di molti altri poeti volutamente criptici, anche le poesie più ostiche suonano affascinanti e inquietanti allo stesso tempo. E c'è da notare come la Dickinson nell'originale inglese sia comunque sempre più chiara e più immediata della sua traduzione italiana. "I'm Nobody! Who are you? / Are you Nobody too? / Then there's a pair of us!" ("Io sono Nessuno! Tu chi sei? / Sei Nessuno anche tu? / Allora siamo in due!").


domenica 4 febbraio 2018

LOLITA



Vladimir Nabokov
LOLITA
Adelphi
2005, brossurato
400 pagine, 8.50 euro

Un consiglio: meglio leggerlo prima che lo censurino o finisca all'Indice. Una raccomandazione: meglio leggerlo perché è una esperienza che lascia il segno. Una constatazione: è disturbante ma scritto da una dio della scrittura. Una avvertenza: non c'è niente (ma proprio niente) di erotico. Per quante siano state (e furono tante) le difficoltà che ebbe Vladimir Nabokov (1899-1977) nel pubblicare "Lolita" a Parigi nel 1955, quasi certamente oggi l'autore ne incontrerebbe di più. Tuttavia, fin dalla immaginaria prefazione del fantomatico psicologo John Ray (che racconta di come il diario di un detenuto in attesa di giudizio morto in carcere nel 1952 fosse giunto nelle sue mani), la vicenda di Humbert Humbert, letterato europeo (di nazionalità svizzera) trapiantato negli Stati Uniti, viene considerata quella di un caso clinico. Non c'è nessuna indulgenza o simpatia da parte dell'autore verso il suo personaggio, nonostante questi narri in prima persona, e lo stesso H. H. considera se stesso come un malato, in qualche modo vittima del suo modo di essere. Dunque Nabokov non si compiace morbosamente di quel che racconta ma indaga l'animo umano e ne descrive una perversione che tutte le statistiche definiscono tutt'altro che insolita (viene citato uno studio che sostiene una incidenza del 12% tra i maschi americani). Nel 1956 Nabokov scrisse una postfazione ("Note su un libro chiamato Lolita"), allegata a ogni edizione del romanzo in cui ne spiega la genesi e le vicissitudini precedenti la pubblicazione prendendo garbatamente in giro i censori e facendo interessanti riferimenti anche alla propria madrelingua, il russo, abbandonata nel 1940 quando emigrò negli Stati Uniti, dove venne naturalizzato: sarebbe appunto questa il trauma che avrebbe segnato la sua vita e non certo alcun tipo di esperienza pedofila. In questo testo l'autore scrive di essere quel tipo di scrittore che "quando comincia a lavorare a un libro non ha altro intento se non quello di liberarsi del libro medesimo". "Lolita" si può dividere in due parti: nella prima (stranamente quella che disturba di più nonostante non vi sia descritta alcuna violenza ai danni di minori), Humbert Humbert descrive la propria ossessione per le "ninfette" e le sue strategie per tenerla a bada, prima in Europa e poi negli Stati Uniti in cui si trasferisce. Quando va ad alloggiare come pensionante nella casa di Charlotte Haze e vede sua figlia dodicenne, Dolores, ne resta folgorato. Lolita (così viene chiamata la bambina) è naturalmente maliziosa (è questo che trasforma, spiega Humbert, una bambina in una ninfetta) e l'io narrante (che scrive il suo diario in prigione, come viene fin dall'inizio dichiarato) studia infinite strategie per poterla guardare, sfiorare, toccare senza dare scandalo. Nella seconda parte del libro, quando Charlotte, che l'uomo ha finito per sposare, muore in un incidente stradale e Humbert diventa in qualche modo il tutore dell'orfana, le cose cambiano. Il pedofilo comincia ad avere rapporti sessuali con Lolita ma si scopre che la ragazzina già ne aveva avuti molti con i suoi coetanei ed è (per quanto si possa esserlo alla sua età) consenziente in cambio di regali. Humbert gira l'America con lei viziandola in ogni modo, sinceramente innamorato perso (per quanto possa esserlo un pedofilo) della bambina. Bambina che si rivela capricciosa, superficiale, svogliata, perfino stupida quando sceglie di cambiare pedofilo abbandonando Humbert e finendo dall'altro abbandonata in mezzo alla strada. Ci sono poi i risvolti noir della vicenda, perché prima il protagonista vorrebbe uccidere la moglie Charlotte per poter restare solo con Lolita (il destino lo previene), poi va a caccia, armato di pistola, dell'uomo che gli ha portato via la ragazzina, roso dalla gelosia e dalla passione. Humbert, per quanto perverso e consapevole della propria malattia, è uomo colto e intelligente e sa descrivere se stesso, gli altri, la società e gli avvenimenti alla luce di un filtro letterario che illumina tutto in modo anticonformistico e dissacrante. Dal romanzo di Nabokov Stanley Kubrick ha tratto un film nel 1962.

sabato 3 febbraio 2018

SENZANIMA



Luca Enoch - Stefano Vietti - Mario Alberti
SENZANIMA
Sergio Bonelli Editore
2027, cartonato,
80 pagine, 16 euro


Prima ancora che la miniserie "Senzanima" (dedicata alle avventure giovanili di Ian Aranill narrate con un linguaggio più crudo e "adulto" della originaria serie a fumetti di Dragonero) giunga in edicola, il primo episodio è stato pubblicato in un volume cartonato destinato al circuito librario. Dragonero è un personaggio legato a un genere, il fantasy (o più precisamente l'heroic fantasy), che ha i suoi cultori e che risponde a regole precise, per cui va sempre valutato tenendo conto dei codici letterari a cui risponde. Il recente successo di alcune serie TV che si inseriscono nel filone del "Signore degli Anelli" ha reso molto popolari (anche, appunto, grazie al successo dei film di Peter Jackson) gli stilemi e gli ingredienti di questo tipo di storie. "Senzanima", tuttavia, condisce di realistica asprezza le consuetudini del genere, nei dialoghi, nella scansione delle sequenze e nella trama, e dunque seleziona un pubblico più scafato. Qualcuno, tra il tradizionale pubblico bonelliano, potrebbe persino essere infastidito da certe tavole e da certi balloon. Siamo però al di fuori della collana regolare di Dragonero, e la miniserie che farà seguito al volume avrà un marchio editoriale diverso. Le prime sessanta tavole (tanto sono lunghi gli episodi, compreso questo d'esordio) raccontano di un giovane e ribelle Ian che fugge dal castello di famiglia dopo un litigio con i genitori e si arruola nella compagnia mercenaria dei Senzanima ("brutti soggetti, quelli.."), che prende il nome dal capitano Greevo Senz'anima che la comanda. I vari ceffi che compongono la compagnia sono tutti caratterizzati da poco piacevoli singolarità (ci sono cannibali e resuscitati dalla tomba), ma nel complesso il gruppo è coeso quanto temuto e disprezzato da amici e nemici. Ian resterà (già lo sappiamo) due anni con i Senzanima, prima che il nonno Herion lo rintracci e lo riporti a casa. L'avventura proposta in volume ha una trama esile che serve però a mettere sul tavolo ciò che serve in vista del successivo proseguo: ci viene spiegato anche il perché del naso rotto di Dragonero. Eccellenti gli sceneggiatori (che sono poi i due creatori del personaggio). I disegni sono affidati al grande Mario Alberti, che non sembra però neppure un lontano parente dello strepitoso illustratore della graphic novel di Tex realizzata prima di questa. Intendiamoci: bravissimo comunque. Ma lo stile è del tutto diverso: aspro, spigoloso, caotico come la storia che viene raccontata.

venerdì 2 febbraio 2018

AMORE A PRIMA VISTA





Wislawa Szymborska
AMORE A PRIMA VISTA
Adelphi
2017, brossurato
110 pagine, 10 euro

Ventisei poesie in tutto, con testo polacco a fronte (che a prima vista potrebbe sembrare cosa inutile, se non fosse che darci un'occhiata permette di fare ipotesi su come funzioni la metrica e il gioco delle rime nella musicalità originale). Wislawa Szymborska (1923-2012), Premio Nobel per la Letteratura nel 1996, è una delle poetesse più lette al mondo, a dispetto del nome impronunciabile (come nota il suo traduttore italiano Pietro Marchesani) e nonostante una sua celebre affermazione secondo la quale la poesia piace a due persone su mille. Secondo me, il problema non è nel piacere ma nel farla giungere (letta in un certo modo, insegnata in un certo modo, proposta in un certo modo). Ci sono poi i poeti criptici che nuocciono alla causa, non tanto perché non ci debbano essere (che ci siano pure, per i cultori e gli adepti, va benissimo) ma perché tendono a venire identificati con i poeti tout-court per cui si diffiderà sempre della poesia se si crederà che sia scritta in una lingua straniera. Wislawa Szymborska non appartiene alla categoria, come Emily Dickinson o Alda Merini, ma anche come Daria Menicanti o Patrizia Valduga, per attenerci alle poetesse. Parla e la capiamo. In tutto, l'autrice polacca pare abbia scritto non più di trecento liriche. E solo una piccola parte, una trentina, sono poesie d'amore: quasi tutte raccolte in questa silloge. Il motivo per cui la Szymborska non fa dell'amore il tema preponderante della sua poesia è spiegato nella prima composizione: "La musa in collera". "Perché scrivo canti d'amore / così raramente?", esordisce l'autrice. "Taccio / solo per timore / che il mio canto in futuro mi dia dolore, / che verrà giorno e d'un tratto / smentirà le parole, / resteranno ritmi e rime, / se ne andrà l'amore, / e sarà inafferrabile / come l'ombra di un ramo". L'approccio della poetessa verso la materia amorosa è, come si vede, insolito e insoliti sono i punti di vista di tutte le sue composizioni sull'argomento. In una, l'amore è paragonato a una chiave che, una volta smarrita, non apre più nessuna altra porta anche se qualcuno la raccoglie: un oggetto inutile buono solo per la ruggine. Però c'è anche l'amore ilare dei momenti gioiosi, quando lo sguardo dell'amato rende più bella l'amata, al punto da farla diventare immaginaria, come una visione provocata dall'ebbrezza. E che dire dello scandalo di un amore felice? "Chi non conosce l'amore felice / dica pure che in nessun luogo esiste l'amore felice. / Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire".