venerdì 31 agosto 2018

I RACCONTI DI OSCAR



Mauro Adorni
I RACCONTI DI OSCAR
Ficcadori Editore
brossurato, 1998
100 pagine

Il dialetto di Sissa è del tutto diverso da quello dei paesi vicini (siamo lungo la riva del Po dalle parti di Colorno, nei pressi di Parma). Si parla soltanto lì, non esistono né grammatiche né vocabolari. Però, proprio in sissese Mauro Adorni ha scritto i suoi racconti e le sue poesie raccolte in questo libro, che Luigi Alfieri ha tradotto in italiano lasciando il testo originario a fronte. Ora, il motivo per cui mi sia messo a leggere le storie del falegname Oscar e di sua sorella Lina non è del tutto chiaro neppure a me, però credo sia in relazione al fatto che Adorni (classe 1941) è un attore comico dialettale descritto come "irresistibile" da Paolo Briganti, autore dell'introduzione. Attore, capomico, ma anche autore di testi (almeno una ventina le sue commedie), poeta: "Chi ha visto e sentito almeno una volta Mauro Adorni recitare sul palcoscenico potrà godere ancora di più (nel leggere questi racconti) pensando alle sue maschere, alla sua voce, ai suoi sguardi, alle sue timidezze che tanto ricordano il grande Gilberto Govi". Ecco: ho fatto la prova. Mi sono messo a confrontare il testo dialettale con la traduzione: "A riva in biciclata la moiera dal masalén par dir che so marì l'era stà mal durant la nota e al n'sa sintéva mia ad masar". In italiano: "Arriva in bicicletta la moglie del norcino per dire che suo marito si era sentito male durante la notte e non era in grado di dar luogo alla maialatura". Cioè, per quel che capisco, l'uccisione del maiale. Ecco, con tutto il rispetto per il traduttore, il racconto ha senso solo se immaginato letto da Adorni in sissese. Come capita, del resto, e qui faccio un riferimento alla mia personale esperienza di commediografo vernacolare, per le commedie in vernacolo fiorentino che si cerca di tradurre in lingua. "I racconti di Oscar" non hanno un gran trama: sono brevi scenette tratte dalla vita di campagna com'era un tempo, anche piuttosto triviali (flatulenze, mal di pancia, scherzi da cortile o da osteria), ma l'estro dialettale con cui vengono raccontate vale la lettura.

mercoledì 29 agosto 2018

SATANICHE E INCANTANTE



Giuseppe Peruzzo
SATANICHE E INCANTANTE
Femmine, censure e viandanze nell'opera di Magnus
Q Press
2017, brossura
130 pagine, 12.90 euro

"Lei è il più grande disegnatore del mondo", disse il giovane (men che ventenne) Giuseppe Peruzzo, durante l'edizione 1980 di Lucca Comics, a Magnus che incontrava per la prima (e ultima) volta. A distanza di quasi quarant'anni, Peruzzo, oltre a raccontare di quel suo incontro, salda il suo debito di lettore (informato attento e consapevole) confezionando un saggio sull'opera di Roberto Raviola (appunto, Magnus, 1939-1996). Saggio che il sottotitolo lascerebbe intendere dedicato all'erotismo nelle tavole del grande disegnatore bolognese, ma che in realtà è un perfetto e compiuto vademecum su tutti gli aspetti della sua produzione. Le "viandanze" a cui si allude sono le peregrinazioni tra i generi e le esperienze che caratterizzano i fumetti di Magnus, che nella seconda parte della sua vita si firmava anche con il simbolo orientale del Viandante, appunto. Fa piacere vedere considerare degne di ugual stima e attenzione sia le pubblicazioni dell'Editoriale Corno, quelle con i testi rivoluzionari e dirompenti di Max Bunker (e dunque Kriminal, Satanik, Maxmagnus, Alan Ford - ma anche Gesebel e Dennis Cobb) sia le successive al "divorzio" con Luciano Secchi, quelle che portarono Magnus a percorrere strade complicate e tortuose. La distinzione fra fumetto popolare e d'autore è astrusa, dato che se c'è un fumetto c'è anche un autore. Peruzzo riconosce gli straordinari meriti di Bunker come autore di sceneggiature che Magnus seppe interpretare in modo altrettanto straordinario, e individua nel racconto breve "Il soldatino impiombato" (apparso su "Eureka") la summa e il top della loro produzione: perfettamente d'accordo. Poi segue il Maestro nelle sue peregrinazioni e nei suoi contorcimenti esistenziali e artistici in grado di dar vita a lavori mozzafiato spremuti da travagli e passioni, senza che mai Raviola abbia rinnegato la sua vita precedente, da cinque albi al mese da mandare in edicola. I Briganti, lo Sconosciuto, la Compagnia della Forca, Le 110 Pillole, Le Femmine Incantate, Necron, il Texone. Facendo bene i conti, è una leggenda urbana quella di un Magnus che, dopo Alan Ford, avrebbe disegnato poco: la sua produzione tra il 1976 e il 1996 è, anche quantitativamente, esuberante. Peccato per lo strambo formato dell'aureo saggio, tascabile e orizzontale, e per la carenza di illustrazioni a corredo del testo. Per il resto, è da avere, leggere, tenere a portata di mano rileggendo l'opera omnia di Roberto Raviola.

martedì 28 agosto 2018

LA SETTIMANA BIANCA




LA SETTIMANA BIANCA
di Emmanuel Carrère
Adelphi
2014, 140 pagine
brossurato, € 16.00


Diventare grandi significa dover affrontare, da soli e senza difese, gli orrori della vita. Potrebbe essere questo il senso de "La settimana bianca" dello scrittore francese Emmanuel Carrère, qui alle prese con un racconto di pura invenzione prima di scegliere la strada, che sta proseguendo tuttora, della ricostruzione storica e dell'autobiografia. La storia è raccontata dal punto di vista Nicolas, un ragazzino timido e introverso costretto a partire per la settimana bianca organizzata dalla sua scuola: a nulla è valso il tentativo di darsi malato, dato che il medico di famiglia si è rifiutato di stilare un falso certificato, ritenendo anzi utile al piccolo paziente confrontarsi con gli altri e iniziare a socializzare. Anzi, tutta la trasferta in montagna è stata organizzata proprio per favorire il distacco degli adolescenti dal nido famigliare, al punto che sono state vietati i contatti telefonici. Però Nicolas è un bambino "strano", che qualche volta fa ancora la pipì nel letto e ha il terrore che i suoi compagni se ne accorgano. Il suo disagio nei rapporti con i coetanei è reso in modo magistrale attraverso piccoli dettagli e quasi in assenza di accadimenti particolarmente traumatici: tutto però genera inquietudine e stringe un cappio alla gola del lettore. Se inizialmente la vicenda sembra una storia di "formazione" (Nicolas vive per la prima volta l'esperienza di una polluzione notturna e si accorge dell'erezione di un compagno che gli si strofina addosso), poi ci si rende conto di come la fragilità del protagonista deriva da qualcosa di traumatico (e di non detto, ma che il lettore percepisce) all'interno della sua stessa famiglia, e di cui sono stati forniti tutti gli indizi fin dall'inizio, dato che nessun particolare è stato lasciato al caso. La verità sulla figura del padre di Nicolas si scopre nel finale, sempre attraverso il filtro delle percezioni e delle emozioni di Nicolas: tutto è narrato dai suoi dintorni, rasoterra, per cui i campi lunghi o le visioni dall'alto sono escluse, lo sfondo è sfumato. Solo da ultimo ci si rende conto di aver letto un thriller o un noir, senza però scene di sangue né inseguimenti da parte di un assassino. L'assassino è la vita, il mondo fuori, il destino che ci aspetta.

domenica 26 agosto 2018

DIMMI CHE CREDI AL DESTINO



Luca Bianchini
DIMMI CHE CREDI AL DESTINO
Mondadori Oscar absolute
2016, 256 pagine

brossura, 13.50 euro

E' difficile, per me, recensire un libro come questo, perché è impossibile parlarne male ma, allo stesso tempo, è impossibile consigliarne la lettura. Non si può neppure ritenerlo senza infamia e senza lode perché se è piaciuto in giro così tanto da divenire un bestseller qualche merito ce l'avrà e, del resto, è scritto in modo così carino che fa tenerezza, come si fa a infamarlo? Mi rifugio nella banalità: non è il mio genere. E' quel tipo di romanzo che magari piace ai fruitori di soap opera e di sitcom, con una Londra da telefilm (o da film con Hugh Grant) in cui gli immigrati italiani invece di lavorare da sguatteri senza tutele e garanzie (come descritto in un altro libro i cui ci siamo occupati, "108 metri") gestiscono un "Italian bookshop" o fanno i barbieri liberi di aprire e chiudere a piacimento per chiacchierare con la fioraia del negozio accanto o dare una mano, appunto, alla libreria di fronte. Ornella, la libraia, ha il tempo di passeggiare amabilmente per i parchi e sedersi sulla panchina a conversare della vita con il vecchio mister George che, guarda caso, passa il tempo leggendo Italo Calvino in lingua originale. I personaggi sono tutti ilari, leggeri, e anche se vivono i loro drammi il tono non diventa mai davvero drammatico. Persino le comunità di recupero per tossicodipendenti e la morte di un marito per droga sono raccontate all'acqua di rosa: si dà più importanza alla Patti innamorata di un giardiniere della comunità che all'incubo sicuramente vissuto da chi in quella comunità cerca di disintossicarsi. Ansie e angosce restano appena accennati, i personaggi vivono di aperitivi, birre al pub, chiacchiere con i vicini, corteggiamenti impacciati, messaggini telefonici, pettegolezzi: un teatrino di cui fa parte Diego, napoletano emigrato senza problemi se non quello di decidersi ad accettare la propria omosessualità (la accetta a Londra dove può dedicarsi alla libera caccia, mica a Napoli dove sarebbe stato più problematico). Il destino della libreria minacciata di chiusura, la storia d'amore di Ornella con il dirimpettaio Bernard, l'eredità attesa alla Patti, le pulsioni erotiche di Diego, sono tutti elementi di una commediola che a tratti può risultare anche divertente, ma che alla fine lascia con la fastidiosa sensazione di aver assistito a una rappresentazione inutile perché falsa: la vita non è così, Londra non è così, gli amori non sono così. Mancano i figli, il sesso, la miseria, il dolore, i litigi, le malattie, le violenze domestiche, il rancore, la cattiveria. Tutto è colorato di rosa, semplice, fru fru. Sarò cinico, ma del destino di nessun personaggio mi è importato nulla, dall'inizio alla fine.

venerdì 24 agosto 2018

L'AMICO RITROVATO



L'AMICO RITROVATO

di Fred Uhlman

Feltrinelli

2013, brossurato

92 pagine, 7 euro

 
 "L'amico ritrovato" (1971) fa parte della straordinaria "trilogia del ritorno" di Fred Uhman, insieme ad altri due romanzi brevi romanzi ("Un'anima non vile" e "Niente resurrezioni, per favore"). Nel 1989 è stato anche tratto un film. Il libro, davvero bellissimo (sono belli anche i due sequel), struggente e drammatico ma senza enfasi né retorica, terrorizza e commuove grazie a una prosa pulita, quotidiana, che mostra il crescere in sordina di un orrore che indicibile.  A venire raccontata è l'amicizia fra un ebreo tedesco, il sedicenne Hans Schwartz, e un suo coetaneo, il giovane conte Könradin von Hohenfels, ultimo rampollo di una stirpe di nobili svevi. I due frequentano entrambi il liceo Karl Alexander Gymnasium di Stoccarda, negli anni dell'ascesa al potere di Hitler. Il romanzo non affronta in modo specifico il tema della shoah o dei campi di sterminio, ma descrive soprattutto il periodo precedente allo scatenarsi delle persecuzioni razziali. Gli Schwartz, al pari di molti altri ebrei di Stoccarda si sentono perfettamente tedeschi e sono addirittura fieri di esserlo. Quando le idee naziste cominciano a serpeggiare, il padre di Hans rifiuta di trasferirsi in Palestina, come gli viene proposto di fare, convinto che il razzismo hitleriano sia una specie di follia passeggera che mai avrebbe contagiato la nazione di Goethe, Beethoven e Schiller. Invece, quella follia finisce per dividere Hans da Könradin, che pure erano stati amici per la pelle, e semina odio all'interno dei compagni di classe. Il giovane Schwartz riesce a fuggire in America in tempo per non venire travolto dagli eventi (non sarà questa, invece, la sorte dei suoi genitori) ma quel che accade in Germania, ovviamente, lo segna per sempre. Vent'anni dopo la guerra, Hans ritrova un elenco dei nomi della sua scolaresca, che reca accanto a ognuno l'indicazione di quale sia stato il destino dei suoi compagni nella tempesta degli eventi bellici. A lungo evita di verificare che cosa sia accaduto a Könradin, di cui non ha saputo più nulla. Vivo? Morto? Ma soprattutto, con le mani sporche di sangue? 

giovedì 23 agosto 2018

MEGLIO QUI CHE IN RIUNIONE



MEGLIO QUI CHE IN RIUNIONE
a cura di Eugenio Alberti Schatz e Marco Vaglieri
Rizzoli
prima edizione novembre 2009
brossura, 
180 pagine, 14 euro

Di che si tratta? Lo spiega abbastanza bene il sottotitolo: "224 autoepitaffi di italiani celebri e non del nostro tempo". In pratica, i curatori hanno chiesto ad alcune centinaia di persone più o meno illustri, contattandole una per una, di scriversi da soli il proprio epitaffio, vale a dire la frase da incidere sulla propria pietra tombale. Le risposte giunte sono state raccolte in un volume. Ora, a me non l'hanno chiesto (ma non gliene faccio una colpa). Peccato, perché finora di epitaffi me ne sono già scritti quattro e non escludo di compilarne altri da qui al momento dell'effettivo trapasso, allo scopo, è ovvio, di scegliere il migliore sul letto di morte. Per ora, il mio preferito è "Fate come se non ci fossi". Prego Alberti Schatz e Vaglieri di tenerlo presente nel caso di un secondo volume o di una ristampa rivista e corretta del primo. Tuttavia, leggere le oltre duecento frasi contenute nel libro è estremamente divertente (peraltro, tre o quattro dei personaggi sono effettivamente morti nel frattempo, come Candido Cannavò). Il volume si divora in mezz'ora, al termine del quale si può però dire di aver letto a tutti gli effetti un libro, e anche un libro in grado di far riflettere, colto, divertente, commovente e persino poetico. Cito alcuni degli epitaffi. Il giornalista Viviano Domenici: "Nato per soffrire, non ne volle sapere". La scrittrice Elena Loewenthal: "Si farà viva lei". Lo scrittore Aldo Nove: "Dopo una vita da precario, ha trovato il posto fisso". Il regista Riccardo Piferi: "Volevo scrivere qualcosa di intelligente, ma la morte mi ha colto di sorpresa". L'illustratrice Chiara Rapaccini: "Finalmente so che cosa c'era dopo. Ma non ve lo dico". Il viaggiatore Augusto Golin: "Qui si ferma per un po' Augusto Golin, almeno sapete dove trovarlo".

mercoledì 22 agosto 2018

IL MIO TEX



Fabio Civitelli
Giovanni Battista Verger
IL MIO TEX
Little Nemo
cartonato, 2010

Anche se il mio nome non compare in copertina, ci ho messo lo zampino: i testi a corredo sono quasi tutti miei. Si tratta di un autentico "libro d'arte", come lo ha definito l'editore Sergio Pignatone: il titolo è "Il mio Tex", il sottotitolo: "La ballata del West di Civitelli e Verger". Su chi sia Fabio Civitelli, non è il caso dilungarsi: chi legge le avventure di Aquila della Notte non può non conoscerlo e non apprezzarlo per il suo stile personale. Arrivato dallo staff di Mister No a quelle dell'immarcescibile Ranger con l'albo "Gli ostaggi" (marzo 1985),  da allora non ha più tolto le tende. Forse ci sarebbe da spiegare chi è Giovanni Battista Verger, Nino per gli amici (lo vedete nella foto poco sotto). Il libro è la sua terza fatica editoriale, dopo "Tex... e il sogno continua" del 1994 e "Cavalcando con Tex" del 1999, quest'ultima addirittura una vera e propria enciclopedia in cinque volumi dedicata alle avventure di Aquila della Notte, scritta insieme a me e a Francesco Manetti. 

Anche questa opera, come le altre, nasce dalla sua passione verso il Ranger di Giovanni Luigi Bonelli e di Aurelio Galleppini e dal desiderio di condividere con gli altri appassionati i disegni realizzati dagli illustratori dello staff texiano appositamente per la sua collezione di commission. Chiede cioè ai disegnatori di trasferire su carta i suoi sogni. Immagina scene e situazioni, emozionanti e suggestive, con protagonista Tex, le descrive minuziosamente agli autori, e poi si gode il privilegio di avere tra le mani qualcosa di davvero unico e inedito.

Ne "Il mio Tex", Verger presenta ben novanta illustrazioni mai viste di Fabio Civitelli, uno degli artisti più rappresentati nella sua collezione. In che cosa è consistito il mio lavoro, oltre a scrivere una introduzione che comincia con un verso di John Lennon? Devo dire che si è trattato di qualcosa di divertente ed entusiasmante, che mi ha fatto sentire più un romanziere che un saggista. Oppure, uno sceneggiatore. Infatti, ho preso una per una le novanta illustrazioni e, avendo soltanto quelle davanti ho scritto per ciascuna una decina di righe che le giustificassero.

Un esempio chiarirà meglio in concetto. Ecco la didascalia di una illustrazione che ho intitolato "Le due aquile". Il testo dice: "Ti vola attorno come se ti conoscesse, Tex. Come se sapesse, o avesse capito, che sei un'aquila anche tu. Aquila della Notte, il capo bianco dei Navajos, come dice chiaramente il simbolo cucito sul petto della casacca di pelle. In piedi su una rupe delle montagne innevate attorno al Lago Tahoe, dove sei salito per studiare il percorso che in basso è avvolto nella nebbia, tu vedi lei e lei vede te. Nei vostri sguardi che si incrociano, un compiaciuto saluto".

In pratica, ho scritto novanta piccoli soggetti, novanta piccole storie ispirate da novanta bellissimi disegni, tutti rigorosamente in bianco e nero. Come in bianco e nero è la copertina. I miei testi sono brevissimi perché sono i disegni a parlare, da soli. 


Scrive la Little Nemo presentando il libro: 
"Impresso in bianco e nero su carta di pregio nell'innovativo formato cm 29×29, raccoglie oltre 90 illustrazioni inedite di Fabio Civitelli realizzate per quest'opera nel corso di ben diciassette anni. I testi di Moreno Burattini e le illustrazioni dell'artista aretino renderanno possibile un viaggio affascinante attraverso il mondo creato da Giovanni Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini e i loro successori: dal West dell'avventura al mondo degli indiani, dai desolati paesaggi del deserto alle suggestive nevicate del grande Nord".

Il volume è stato realizzato in tiratura limitata, copertina cartonata. Ciascun volume è accompagnato da una litografia inedita firmata da Civitelli. 

martedì 21 agosto 2018

MAKING OF GUIDO NOLITTA MISTER NO



Franco Busatta – Gabriele Ferrero
MAKING OF GUIDO NOLITTA
MISTER NO
Edizioni If
Prima edizione ottobre  2005
brossurato – 130 pagine -  Euro 12

Si tratta del terzo volume la serie dei “Making Of”, passati alle Edizioni If dopo un esordio sotto il marchio Punto Zero. Curato di Franco Buratta e Gabriele Ferrero, il  “Making Of Guido Nolitta” è un saggio che, come spiega il titolo (e come sanno coloro che hanno letto i precedenti volumi della serie, dedicati uno a Napoleone e uno a Nick Raider), mostra i retroscena della realizzazione di una storia a fumetti. In questo caso, il racconto è l’ultima avventura di Mister No sceneggiata da Guido Nolitta, nome-de-plume di Sergio Bonelli. Quando il volume uscì, nel 2005, la lunga storia in sedici albi era ancora in corso di pubblicazione. Attraverso una lunga intervista con l’autore e un corposo corredo di illustrazioni fatto di fotografie, schizzi preparatori, rimandi iconografici a film e fumetti che hanno ispirato il suo lavoro, i curatori del libro sono riusciti a documentare il lungo lavoro necessario per realizzare il lungo commiato di Mister No dai suoi lettori.
“Sono passati ormai un paio di anni da quando Sergio Bonelli mi ha comunicato la decisione di rimettere mano sul suo Mister No per scriverne l’avventuea finale. O meglio, mi ha informato che delle ultime imprese dell’anti-eroe Jerry Drake si sarebbe occupato Guido Nolitta”. Così scrive, nel 2005, Michele Masiero nella sua introduzione al volume delle Edizioni If. Il suo racconto prosegue subito dopo: “Bonelli (o Nolitta, come preferite voi) si siede davanti a me, curatore della collana (figura che di fronte al creatore del personaggio, però, non può che timidamente farsi da parte), e comincia a ragionare sul ‘cosa scrivere’ in quest’ultima benedetta storia. E le prime parole che escono dalla bocca di Nolitta (o era Bonelli, stavolta?) sono: ‘Be’, purtroppo non posso farlo morire, visto che lo avete fatto vedere da vecchio in un paio di episodi. E se volessi una morte ‘epica’ non scriverei certo di un ottantenne pieno di acciacchi’. Ha detto così (parola più parola meno; lasciatemi un po’ romanzare una breve chiacchierata redazionale) e io ho tirato un sospiro di sollievo”. 
Esclusa la morte prematura, in quanto già contraddetta dalle apparizioni pregresse, Guido Nolitta torna a sceneggiare convinto di poter scrivere un convincente finale in pochi albi e predispone la chiusura per il 2005, vale a dire esattamente trent’anni dopo il primo numero. Sennonché, non ci riesce. Non a scrivere il convincente finale, ma a farlo nei tempi previsti. L’ultimo albo, il n° 379, intitolato “Una nuova vita”, esce infatti nel dicembre 2006, mettendo la parola fine a un lungo racconto (composto in realtà da vari capitoli) iniziato nel settembre 2005 con il n° 364, “Qualcosa è cambiato”. Sedici albi in tutto, per un totale di oltre millecinquecento tavole. Un torrenziale tour de force, segno evidente di come lo sceneggiatore si sia fatto prendere la mano dalla narrazione.   Nel già citato “Making of Mister No”, Nolitta spiega ancora meglio: “Ho cercato di tracciare un quadro fatto di piccoli tasselli che, una volta collegati tra loro, diano un’immagine più articolata possibile della nuova società che Jerry Drake non è più disposto ad accettare”. Negli ultimi sedici albi, insomma, si respira aria da “fine di un’epoca”. “Questa è proprio l’idea di fondo che m’interessava trasmettere – conferma lo sceneggiatore – La fine di un’epoca sia per chi ci viveva da privilegiato, sia per Mister No che l’aveva scelta come casa per le sue qualità di luogo isolato. E l’inizio di un’epoca, invece, per chi, finalmente, può sfruttare a fini di lucro la città e la foresta circostante”. Nel suo ultimo editoriale, a pagina 4 di  “Una nuova vita”, così Sergio saluta i lettori del personaggio che lo hanno seguito fino in fondo alla pista: “Quando mi sono impegnato a scrivere personalmente (dopo un letargo durato più o meno dodici anni) l’episodio finale di Mister No, pensavo a una storia la cui lunghezza non superasse i due, massimo tre albi. Ma, poi, mentre le pagine si accumulavano l’una sull’altra, l’antica passione ‘amazzonica’ si è nuovamente impadronita di me, e mi ha indotto a rimettere mano a libri dimenticati, a vecchi appunti e a ingiallite fotografie, sino a spingermi ben oltre la data prevista per apporre la fatidica parola ‘fine’. Millecinquecento pagine scritte, come al solito, di sera, nei pomeriggi cosiddetti ‘di festa’, nelle ore lasciate libere dalla cura che richiede l’intensa attività della Casa editrice. Non so quanto abbiate apprezzato la mia ultima opera; da parte mia, vi garantisco che io vi ho dedicato tutto il mio impegno e il mio desiderio di trasmettervi una fedele immagine dell’Amazzonia che ho conosciuto negli anni Settanta”. 


domenica 19 agosto 2018

SULLE FRONTIERE DEL FAR WEST



Emilio Salgari
SULLE FRONTIERE DEL FAR WEST
Mursia
1993 - cartonato
224 pagine -  lire 20.000

Chi crede che il nome di Emilio Salgari si debba associare solo agli scenari esotici e alle avventure di pirati malesi o caraibici, si sbaglia di grosso. Il più grande autore di romanzi d'avventura non si lasciò sfuggire un solo background su cui si potessero tessere le trame delle sue storie tese a trasportare il lettore (e sé stesso) lontano dall'Italia provincia del Mondo, e coinvolgerlo in una sarabanda di eroici furori e di ardimentose imprese. Così abbiamo romanzi ambientati in Australia, in America Latina, al Polo Nord, nella Cartagine dei tempi di Annibale, e addirittura nell'Anno Duemila. Non potevano mancare romanzi western: la frontiera americana gli offriva suggestioni irresistibili. "Sulle frontiere del Far West" è il primo romanzo di un ciclo destinato a chiudersi nel breve volgere di due titoli: avrebbe avuto un seguito con "La Scotennatrice" - anche se ci sono racconti vari western scollegati, come "lo stagno dei caimani" da poco ristampato e di cui ci siamo occupati. Magari il ciclo avrebbe potuto avere perfino ulteriori sviluppi se l'autore non fosse morto suicida nel 1911, appena tre anni dopo l'uscita dell'opera (avvenuta appunto nel 1908). La data di pubblicazione di questo testo lascia davvero meravigliati, perché considerando la disinformazione imperante in Italia, fino a pochi decenni fa, sulla realtà delle lotte fra uomini bianchi e uomini rossi, e sugli usi e costumi di questi ultimi, si stenta a credere che Salgari potesse essere così ben documentato. Ancora per tutti gli Anni Cinquanta, fumetti come Tex fornivano dei pellerossa una descrizione per sentito dire, mediata in gran parte dai film western. Editori come Bonelli si sono lamentati che fino a tempi recenti mancassero nel nostro paese libri attendibili e documentazioni iconografiche sui nativi del nord-America. Salgari, invece, in un'epoca in cui né radio né televisione potevano fornirgli spunti e notizie, dove verosimilmente non si traducevano libri d'oltreoceano che in percentuali millesimali, si dimostra informatissimo. Cita nomi di tribù e nomi di capi indiani, descrive le capanne e gli oggetti d'uso comune dei pellerossa chiamandoli addirittura con i nomi originali (wigwam, tomahawk, sakem, squaw, mocassino, yampa, calumet). Così come in lingua originale sono molti vocaboli in inglese e spagnolo giustamente ritenuti intraducibili in italiano: fazenderos, bowie-knife, grizzly, gambusino, leperos, squatters e chi più ne ha più ne metta.
Vero é che alcune ricostruzioni peccano un po' d'ingenuità, e che comunque tutta la vicenda non ha il carisma della plausibilità storica (basti pensare che vi compare un personaggio, Yalla, che un capotribù donna), tuttavia Salgari ce la mette tutta per inserire gli avvenimenti da lei narrati nel contesto delle vere guerre indiane, tant'è che nel finale gli eroi del romanzo vengono salvati dall'arrivo del colonnello Chivington sulle rive del Sand Creek. Chivington a dire il vero non è passato alla storia come un eroe, e il Sand Creek rimanda la memoria a una strage di innocenti, ma chissà di quali informazioni poteva disporre Salgari sul suo conto e in ogni caso quello che compare in questo romanzo è un personaggio immaginario, o quanto meno possiamo considerarlo tale.
Tanto sfoggio di documentazione fa venir voglia di sapere quali fossero le fonti dell'autore: già molti dei commentatori di racconti come "I Misteri della Jungla Nera" si sono meravigliati di come sembri che Salgari abbia veramente visitato il delta del Gange. In "Sulle frontiere del Far West", il buon Emilio non si smentisce: lo stile è sempre il solito, il ritmo serrato, le scariche di fucileria sono sempre "formidabili" e la situazione costantemente disperata.  Anche il plot è salgariano: il colonnello Devandel, fatto prigioniero dai Sioux, ha dovuto sposare la figlia del capo, Yalla, per salvare la capigliatura. E’ probabile che Giovanni Luigi Bonelli abbia attinto da qui lo spunto per il matromonio indiano fra Tex e Lilith, sia pure trasformandolo in tutt’altra cosa.  Da lei ha avuto un figlio, ma appena gli è stato possibile è fuggito tornando fra i bianchi. Ha messo su una fattoria, si è unito in nozze regolari con una donna della sua razza, ha avuto altri due figli. Ma Yalla non ha dimenticato il torto subito, e vuole vendicarsi della fuga del marito. Anche lei si è risposata, e ha avuto una figlia: Minnehaha. Approfittando della rivolta di Sioux e Arrapahoes, punta sulla fattoria di Devandel per ucciderlo insieme ai suoi figli. Devandel, appreso del piano di Yalla mentre è impegnato altrove, invia tre suoi uomini a mettere sull'avviso i suoi. Comincia così una lotta contro il tempo e un forsennato inseguimento nella prateria, che ha la scena più bella nella rocambolesca fuga dei bianchi attraverso i cunicoli pieni di grisou di una miniera di carbone. Nel finale, Yalla riesce comunque a catturare sia Devandel che i figli, e sta per ucciderli con la tortura quando arriva Chivington (a dire il vero, un po' troppo frettolosamente). Yalla muore a Sand Creek, ma Minnehaha sopravvive e intende portare a termine la sua opera, vendicando così anche la madre. Ma questo avverrà ne "La Scotennatrice".

giovedì 16 agosto 2018

PALMIRO



Sauro Ciantini
PALMIRO
Comix
I fumetti di Comix
Prima edizione maggio 1998
brossurato - 130 pagine -  lire 22.000


Il volume raccoglie (non in ordine cronologico, ma secondo un montaggio ideale) storie brevi e strisce pubblicate su Comix – quando ancora la rivista usciva e i tempi per il fumetto erano migliori. Le strisce di Palmiro sono sempre divertenti, ma quello che è davvero interessante è la grafica di Ciantini, essenziale eppure estremamente comunicativa. “Palmiro è un piccolo anatro che vive in perenne attesa di una lettera della sua Fidanzata Lontana che, come tutte le Fidanzate Lontane, vive felice e dinamica in un’altra città, laggiù oltre l’orizzonte, oltre quella sottile linea immaginaria tracciata a pennarello. E la sera, quando la luna inizia a spargere le sue struggenti onde magnetiche che agitano i cuori latini, a Palmiro non rimane che cercare conforto morale nelle parole dell’amico Bolivar, un cactus incredibilmente pieno di spine e profondo conoscitore delle cose della vita e dei problemi di cuore”. Così in quarta di copertina. E non c’è molto da aggiungere. Meglio leggere e rimpiangere le riviste su cui le strisce ancora uscivano.

martedì 14 agosto 2018

LE AVVENTURE DI GIUSEPPE PIGNATA



Giuseppe Pignata
LE AVVENTURE DI GIUSEPPE PIGNATA
FUGGITO DALLE CARCERI DELL'INQUISIZIONE A ROMA
Sellerio Editore
Terza edizione 1991
Collana La memoria
traduzione di Olindo Guerrini
brossurato - 190 pagine -  lire  10.000


Mosso all'acquisto dalla versione a fumetti realizzata da Magnus e da Tisselli, ho trovato questo libro estremamente gradevole, interessante e coinvolgente, e del resto il lavoro dei due fumettisti di cui sopra ne rende perfettamente il senso e lo spirito Arrivato ad Amsterdam nel giugno 1694  dopo lunghe peripezie durate un anno, Giuseppe Pignata racconta a un anonimo interlocutore la sua incredibile avventura (ma si avanza l'ipotesi che l'interlocutore sia in realtà egli stesso). Le sue traversie cominciarono allorché, nel 1690, Giuseppe Pignata venne arrestato a Roma dall'Inquisizione, e accusato di eresia per aver partecipato ad alcune discussioni di argomento teologico, in casa di amici. Già questo dà il clima dell'epoca. Chiuso nelle carceri della Santa Sede, Pignata attraversò umiliazioni e privazioni da cui riuscì comunque a difendersi grazie alla sua forza d'animo e alla sua inventiva, mai perdendo comunque la fede e sempre rivolgendosi a Dio (colpisce questa sua devozione, nonostante fosse proprio la Chiesa la causa dei suoi guai). Dopo interminabili mesi di prigionia, Pignata viene assolto dall'accusa, ma egualmenre trattenuto in prigione perpetua per penitenza ed espiazione (non si sa bene di che), e soprattutto gli vengono sequestrati tutti i beni (forse è questo il motivo della reclusione). Con il compagno di cella, il protagonista progetta una ingegnosa fuga, che a lui riesce (all'amico no). Si scatena in tutta l'Italia una furibonda caccia all'uomo, ma Pignata, per fortuna e per abilità, riesce a far perdere le proprie tracce pur attraversando sofferenze e patimenti di ogni sorta. Alla fine, dopo essere passato da Messina, arriva a Venezia. Non essendo al sicuro neppure lì, trova infine estremo rifugio in Olanda. La parte finale delle sue avventure, da Venezia in poi, è più noiosa delle altre. Forse perché ormai Pignata può contare sull'appoggio di nobili e ricchi signori che lo vestono e lo riempiono di denari, per cui la sua fuga è meno angosciosa che all'inizio. In appendice al testo, un saggio di Alessandro D'Ancona, molto ben documentato, conferma la veridicità del racconto di Pignata e trova riscontro a quanto egli riferisce: "Da queste testimonianze crediamo che sarebbe impossibile persistere nel dubbio circa la realtà della fuga". Insomma: interessante e coinvolgente. 

lunedì 13 agosto 2018

108 METRI





Alberto Prunetti
108 METRI
Editori Laterza
2018, brossurato
140 pagine, 15 euro



108 metri è la lunghezza delle singole rotaie ferroviarie prodotte dalle acciaierie di Piombino, in provincia di Livorno. Un altoforno affidato a manodopera specializzata in grado di realizzare le migliori colate del mondo, destinate a produrre, non per caso ma per straordinaria professionalità, l'acciaio più resistente e indeformabile. Alberto, partito dalla costa livornese in cerca di esperienze e di fortuna verso l'Inghilterra, se ne vanta con i suoi colleghi che condividono con lui gli squallidi lavori che gli immigrati (italiani e non) sono costretti a fare nel Regno Unito. "Io vengo da un posto che fa 108 metri d'acciaio. Binari lisci come cosce e senza smagliature. Le hanno imbullonate nelle ferrovie di tutta Europa, anche qui da voi, cari sguatteri. E sapere chi c'è a fare la manutenzione di questa acciaieria che non ha rivali nel continente? Il mi' babbo". Il babbo Renato, veterocomunista sempre in lotta con i padroni, aveva preparato un futuro per metalmeccanico anche per il figlio, che invece voleva studiare, addirittura fare il classico. Roba da far venire l'orticaria al padre solo a sentirlo dire: il classico è la scuola di quelli che poi faranno i leccaculo dei capitalisti. La mediazione porta allo scientifico, e quindi alla partenza di Alberto verso la Gran Bretagna, a Bristol per la precisione. E qui comincia l'inferno. Lavori umilianti, malpagati, senza diritti, alienanti, quelli destinati a working class senza speranze. La descrizione tragicomica di Prumetti, per metà scritta in vernacolo livornese, della disperata umanità degli immigrati, italiani in prima linea, sfruttati in Inghilterra è terrificante. Finché Alberto manda tutti a fanculo e torna a Piombino. Dove però trova spento l'altoforno dell'acciaieria. "Ma non è possibile, è stato acceso un secolo". "lo dici a me che l'ho tenuto in funzione?" gli risponde un vecchio operaio, "Gli ho dato da mangiare coke come fosse un figlio. Chi ho lavorato trent'anni là dentro. Dovevi vede' che artisti erano i fonditori. Dovevi vede' come lavoravano la colata. E questi dicono chiudete tutto, comprate le rotaie in Cina e mandate i vostri figlioli a fare i camerieri all'estero. Di che cosa camperà Piombino e tutto il circondario? Delle briciole di quelli che vanno in vacanza all'Elba? La mi' figliola è partita per Berlino, e io bevo guardando i binari che ho fatto con queste mani, 108 metri d'acciaio per farla scappare". Ecco, se è disperante la descrizione del lavori svilente in Inghilterra, lo è ancora di più la parte con il ritorno a una Piombino senza futuro, là dove gli operai, sempre in lotta contro i padroni, erano però orgogliosi del loro lavoro in altoforno.