domenica 31 marzo 2024

LA TREGUA

 
 
 
 
Primo Levi
LA TREGUA
Einaudi
2014, brossurato
234 pagine, 13 euro

Non c’è niente da ridere, naturalmente. Però, ne “La tregua” di Primo Levi (1919-1987) ci sono senza dubbio anche pagine che muovono al sorriso. Lo stesso, del resto, si potrebbe dire di un altro diario di guerra, “Un anno sull’altipiano”, di Emilio Lussu, quando vengono narrati aneddoti di variopinta e sagace umanità. Il secondo libro di Levi dopo quello dell’esordio, “Se questo è un uomo” (1946) inizialmente passato inosservato, racconta l’avventuroso ritorno a Torino dell'autore nell’ottobre del 1945, dopo la liberazione del lager di Auschwitz, in Polonia, avvenuta nel gennaio dello stesso anno. Per alcune settimane, gli internati del campo rimangono nelle loro baracche e continuano a morire di stenti e di malattie, anche in assenza degli aguzzini nazisti. Poi, il destino decide chi sono i salvati e chi i sommersi. Primo Levi, chimico ed ebreo torinese entrato in clandestinità fra le fila partigiane, era stato arrestato nel dicembre 1943 in Val d’Aosta e tradotto ad Auschwitz nel febbraio del 1944. Lì, riesce a sopravvivere un anno, fino alla fuga dei tedeschi pressati dall’avanzata dell’esercito sovietico. Proprio i russi si fanno carico degli scampati allo sterminio, in una situazione comunque precaria che non risparmia ai liberati altri mesi di privazioni, fame, traduzioni in treno in carri merci in viaggi apparentemente senza senso, tragitti verso destinazione ignote. Neppure la notizia della fine della guerra significa, per Levi e i suoi compagni, che sia giunto il momento del rimpatrio. Il percorso che avrebbe potuto essere lineare assume la forma di un arabesco tra i confini polacchi, bielorussi, russi, rumeni, austriaci, in una odissea durata dieci mesi, attaverso l'Europa distrutta dalla guerra. La prima parte del diario, ambientata ad Auschwitz, è molto drammatica, sia pure scritta con registro asciutto senza indulgere sull’orrore del lager, come pure sarebbe stato lecito, ma anche senza nascondere o tacere niente. Tragico per esempio, il ritratto del bambino Hurbinek, nato (non si sa come) nel campo e lì sempre vissuto nei suoi tre o quattro anni, che non sa neppure parlare ma lotta caparbiamente per la vita. Dopo la partenza dal campo di sterminio comincia a prevalere la speranza, sempre frustrata da cocenti disillusioni. Iniziano però anche gli aneddoti sull’inventiva degli ex-prigionieri per procurarsi da mangiare, o scarpe da calze, ragazze da sposare o soltanto da portare a letto. Fra i compagni di Levi facciamo la conoscenza di Cesare, in grado di vendere qualunque cosa a chiunque pur parlando soltanto romanesco, ma anche del medico Leonardo, a cui lo scrittore fa da infermiere, del gigantesco veneto Avesani, detto il Moro, gran bestemmiatore. Ma si descrivono anche gli arrivisti, gli intrallazzatori, i manipolatori, i millantatori. Colpisce il resoconto degli spettacoli teatrali organizzati durante la permanenza a Staryje Doroghi, la “casa rossa”, segno di una insopprimibile desiderio dell’animo umano di esprimersi attraverso l’arte. Il titolo “La tregua” si riferisce alla breve pausa fra una guerra e le successive, ma anche alla parentesi nella vita di Primo Levi costituita dagli assurdi mesi del viaggio verso casa. Il libro ebbe subito un grande successo e vinse la prima edizione del Premio Campiello, riaccendendo l’attenzione, in Italia e all’estero, anche su “Se questo è un uomo”. Da leggere, assolutamente, tutti e due.

sabato 30 marzo 2024

L' ARTE DI GOVERNARE LA CARTA

 

Ambrogio Borsani
L'ARTE DI GOVERNARE LA CARTA
Editrice Bibliografica
2017, brossurato
152 pagine, 20 euro

“Follia e disciplina nelle biblioteche di casa”, spiega il sottotitolo dando una più precisa idea del contenuto, già comunque ben resa dal titolo stesso. Il senso del volumetto, però, è ancor meglio rappresentato in una citazione da Anatole France che fa da preambolo: “Non passo quasi mai davanti alle bancarelle senza scovare qualche libro che mi mancava e che non sospettavo minimamente di non avere. Al rientro, devo affrontare le grida della governante, che mi accusa di riempire la casa di cartacce fatte apposta per attirare i topi”. Chi di noi bibliofili non si riconosce nel quadretto? E ancor di più ci si riconosce nella trattazione dei vari aspetti della sindrome da bibliofilia data da Ambrogio Borsani, affetto anche lui dalla stessa patologia e che quindi, dopo aver raccontato la storia del libro (nato dai rotoli manoscritti) elenca con cognizione di causa le problematiche: la mancanza di spazio, la collocazione negli scaffali, la classificazione delle collezioni (si cita la Dewey, si sconsiglia l’ordine alfabetico per autore, ci suggerisce la divisione per nazioni), i danni alle strutture stesse delle case, il pericolo di crolli degli scaffali. L’aneddotica è ricca.  
 
Mentre leggevo, con piacere, il manuale di Borsani, mi sono reso conto di aver scritto anch’io, ancora prima di lui (nel 2011), un articolo pubblicato sul mio blog “Freddo cane in questa palude”, intitolato “C’è posto per te”. Siccome le mie considerazioni e le soluzioni proposte non sono troppo diverse, ho pensato di selezionare alcuni passaggi, che trovate qui di seguito.
 

C'E' POSTO PER TE
di Moreno Burattini
 
Mi gongolo di soddisfazione tutte le volte che miro e rimiro le mie scaffalature piene di libri, volumi, albi e fascicoli, perfettamente disposti per serie, per argomento, per tipologia, per colore delle costoline. Non c’è nessuna comodità da digitalizzazione che possa ripagare la soddisfazione di vedere delle librerie colme di carta. Stante questa sacrosanta verità, resta da capire come accidenti fare quando le librerie sono fin troppo colme e non c’è più spazio per infilare tra un volume e l’altro neppure una cartolina. Nella mia pluridecennale esperienza di stivaggio (arte in cui mi considero ormai un genio – riconosciuto peraltro da tutto il parentado), la prima cosa che mio viene da dire è questa: non è vero. Segnatevi questa verità fondamentale: quando le apparenze vi fanno credere che lo spazio sia esaurito, le apparenze ingannano. Si tratta soltanto di disporre meglio gli albi. Magari invece che in un’unica fila orizzontale si possono fare tante pile verticali, una affiancata all’altra. C’è sempre dello spazio in più, se ci si pensa bene e si studia il problema con attenzione.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, regola numero uno: mai rinunciare all’acquisto di un libro o di un fumetto “perché in casa non c’è più posto”. Si deve sempre partire dal presupposto che il posto c’è. Se non c’è, si trova. Per esempio, si compra una casa nuova. Sembra una battuta ma è un’affermazione seria. Se in una famiglia i figli crescono di numero e in età, non si pensa forse a un trasloco in una dimora più larga e accogliente? Non c’è niente di scandaloso nel fatto che un collezionista possa scegliere un appartamento con una stanza in più pensando a un luogo dove conservare le sue collezioni. Chi ha la moto non si compra forse una casa con un garage o uno scantinato? Chi ha il pollice verde non la sceglie con un giardino o con una ampia terrazza? Bene, chi legge fumetti si fa mettere in progetto un salottino da lettura. Se proprio una casa nuova è fuori discussione, restano comunque delle alternative. Il garage e la soffitta, per esempio. Che ci fanno tutte quelle cianfrusaglie inutili in solaio? Fuori! Una bella scaffalatura e il sottotetto diventa una biblioteca. E la casa dei genitori, dove la mettiamo? Quando qualcuno si sposa o va a vivere da solo, di solito lascia libera la propria cameretta. Quella ci appartiene di diritto. E’ nostra. Ci siamo cresciuti. E adesso la riempiamo con i nostri albi. Le mamme non possono che essere contente. I figli tornano a salutarle con frequenza settimanale o bisettimanale. Le salutano di passaggio, ovviamente, andando a posare o riprendere i loro fumetti, ma intanto le salutano. Esiste anche la possibilità di prendere in affitto una piccola stanza da un vicino, o un monolocale.
Ma facciamo l’ipotesi peggiore: c’è soltanto una casa. La prima cosa da fare è razionalizzare lo spazio. Il motivo per cui di solito si dice che non c’è più posto è che si sono riempiti tutti gli scaffali della libreria del salotto o dello studio. Al che, la prima considerazione da fare è la seguente: quanta parete libera si vede, in giro per la casa?
C’è da scommettere che l’arredamento della prima ora abbia lasciato muri bianchi grandi come schermi cinematografici, con al centro magari un paio di quadretti di pessimo gusto comprati durante le vacanze a Maiorca perché li faceva un artista di strada. La regola numero due è: non ci devono essere pareti libere. Dove c’è una parete libera, ci si mette davanti una libreria. Tanto i muri bianchi ingialliscono, i bambini li scarabocchiano, ci vengono spiaccicate le zanzare, ci vanno gli schizzi di olio e di vino, ci fanno la cacca le mosche. Una bella libreria invece arreda in modo leggiadro e isola anche acusticamente e termicamente. Mogli e fidanzate tenteranno in tutti i modi di riempire gli scaffali di soprammobili. Deve essere loro impedito a costo di ricorrere allo scudiscio. Regola numero tre: i soprammobili sono vietati. Che poi non è il soprammobile in sé che dà noia, è il fatto che si pretenda che attorno al soprammobile ci sia il vuoto.
Ma il punto fondamentale che distingue il collezionista di genio dal dilettante allo sbaraglio è la misura dello spazio vuoto tra un ripiano e l’altro. Gli sciocchi di solito comprano una libreria così com’è: ammettiamo che la vendano con tre ripiani distanti fra loro trenta centimetri (che creano quattro diversi spazi). Ergo, se io dentro ci metto una fila di fumetti alti venti centimetri, avanzano dieci centimetri. Moltiplicati per quattro spazi, sono quaranta centimetri! In pratica, nello stesso scaffale ci starebbero altre due file degli stessi fumetti. Basterebbe mettere due ripiani in più, calcolati sulla base delle altezze degli albi. E vogliamo parlare di quanto spazio libero c’è fra la fine della libreria e il soffitto? Di solito, almeno un metro! Quanta carta stampata ci potrebbe stare in quel vuoto assurdo! Perciò, regola numero quattro: farsi fare delle librerie su misura, che occupino tutto lo spazio sfruttabile, con i ripiani calcolati alla giusta distanza fra loro sulla base del materiale collezionato.
Ma non è finita. Ammettiamo che delle scaffalature perfette riempiano lo spazio domestico in modo impeccabile. Volete raddoppiare la disponibilità con uno schioccar delle dita? Basterà accertarsi che la larghezza degli scaffali consenta di poter mettere gli albi in doppia fila. Perciò, niente Billy per i fumetti Bonelli! Ci sta una fila sola. Bisogna comprare modelli più larghi, capaci di ospitare una fila davanti e una fila dietro. In certi casi le file possono perfino essere tre. Il mio sogno, quello di cui parlo sempre con la persona amata quando ci sdraiamo insieme sull’erba del prato a guardare le stelle, è non solo di avere una sola grande stanza in un’unica casa in cui conservare tutti i miei libri e i miei fumetti divisi in almeno quattro case diverse, ma (ed ecco la vera libidine) con tutte le costoline disposte in singola fila. E’, naturalmente, un sogno irrealizzabile. Appunto per questo, in mancanza di meglio, vada per la doppia fila.


domenica 24 marzo 2024

BREVE STORIA DELLA CHIMICA



Isaac Asimov
BREVE STORIA DELLA CHIMICA
Zanichelli
2019, brossurato
202 pagine, 26.40 euro

Da grande appassionato di qualunque cosa abbia scritto Isaac Asimov (le cui opere occupano tre ripiani in tripla fila nella mia libreria in salotto) colleziono non soltanto i suoi romanzi e le sue antologie di racconti (fantascienza e giallo, soprattutto) ma anche tutta la sua sterminata produzione saggistica (saggi, raccolte di articoli). Proprio i suoi articoli di divulgazione scientifica hanno fondato le basi della mia curiosità sulla fisica, l’astronomia, la chimica, la biologia ma anche le mie prime conoscenze sulla storia della scienza e le mie convinzioni sulla necessità della lotta alle superstizioni e all’oscurantismo. Da quel grande narratore che era, Asimov (1920-1992) si è dimostrato anche uno straordinario divulgatore. Era chimico e biochimico e, con il titolo di Ph.D, ha insegnato alla Columbia University e alla Boston University School of Medicine, ma sapeva spaziare in ogni campo, compreso quello filosofico e letterario. Il suo saggio “Breve storia della chimica” è del 1965, e tratta della nascita e dell’evoluzione delle conoscenze dell’uomo in campo chimico, dalla preistoria fino agli studi sugli elementi transuranici: il saggio si ferma con l’annuncio dei fisici sovietici, nel 1964, della scoperta dell’elemento 104, da loro chiamato “kurchatovium” (ma dal 1969 il nome divenne rutherfordio). Da allora siamo arrivati all’elemento 118, ma non per questo il resoconto di Asimov può dirsi superato perché, si tratta di una cronistoria dei progressi sempre più rapidi dell’umanità e non dell’esposizione delle più recenti novità. La parte più affascinante, secondo me, è quella che va dall’età della pietra fino al XVII secolo, quando i chimici smisero di essere alchimisti, più o meno ai tempi di Robert Boyle, e quando le scoperte cominciarono a succedersi a rotta di collo. Per quanto entusiasmanti possano essere stati i successi del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento, niente mi ha emozionato di più le supposizioni di Asimov su come gli uomini primitivi abbiano imparato ad accendere il fuoco prima e a fondere il rame poi. Per quanto l’argomento vada sempre più complicandosi per la necessità di spiegare fenomeni chimici anche molto complessi, è ammirevole la capacità del “good doctor” di esporre tutto con chiarezza estrema. Due parole sul volume Zanichelli del 2019 che ho in mano nella foto allegata: non si tratta di una nuova edizione del testo uscito in Italia nel 1968, ma di una sorta di ristampa anastatica ottenuta, si direbbe, scansionando un po’ alla meno peggio il libro originale.


domenica 17 marzo 2024

FIORI SOPRA L’INFERNO

 
Ilaria Tuti
FIORI SOPRA L’INFERNO
Tea
Brossurato, 2018
368 pagine, 12 euro

Leggere “Fiori sopra l’inferno”, in grave ritardo sul resto dell’umanità, mi ha fatto lo stesso effetto di quando ho letto “La verità su caso Harry Quebert”, di Joel Dicker. Vale a dire che quando un libro vende centinaia di migliaia di copie e viene tradotto con successo in mezzo mondo, non resta che leggerlo per non privarsi delle emozioni godute da tutti gli altri, soprattutto se i giudizi positivi sono unanimi e dovunque si levano gridolini di giubilo. Se poi però uno lo legge e rimane perplesso, ecco, la cosa non è piacevole perché ci si sente quelli sbagliati. Da parte mia, mi chiedo che cos’è che gli altri hanno capito e io invece non ci arrivo. Mi capitò così anche con il caso di Harry Quebert, e me ne dispiacque parecchio. Eppure, “Fiori sopra l’inferno” è diventata una serie TV, ho letto i complimenti di Donato Carrisi e tutta una serie di lusinghiere recensioni, in un programma alla radio si descriveva il commissario Teresa Battaglia come un personaggio memorabile. Ecco, non so come dirlo, ma a me Teresa Battaglia è sembrata profondamente antipatica dalla prima all’ultima pagina. Il modo arrogante e sgarbato in cui tratta tutti quelli che gli stanno attorno, soprattutto il giovane ispettore Massimo Marino, dà ai nervi e c’è da chiedersi com’è che venga tollerato. Vero è che, forse, proprio questo rende memorabile l’anziana poliziotta: una così non passa inosservata. Altrettanto vero che anche Maigret si può definire burbero (ma non ispira antipatia). Soprattutto vero è che Teresa Battaglia ha un passato difficile (un figlio perduto, un compagno violento) e un presente angosciante (coglie in se stessa, oltre i segni dell’età, i sintomi dell’Alzheimer). Inoltre, e questo va riconosciuto, si tratta di un personaggio fuori dagli stereotipi. “Fiori sopra l’inferno” è il primo romanzo di cui la Battaglia è protagonista e il successo ha imposto a Ilaria Tuti (1976) di dare il via a una serie, ma l’autrice ha scritto anche altro (da “Fiore di roccia” a “Come il vento cucito alla terra”, e persino un graphic novel). La Tuti è friulana (di Gemona) e, come lei stessa spiega nella nota conclusiva, “Fiori sopra l’inferno” affonda le radici nei paesaggi della sua terra: “In questo senso, nulla è stato inventato. Travenì, con la sua foresta millenaria, l’orrido, le miniere, i laghi alpini e le vette da vertigine, esiste davvero, sotto altro nome”. Certamente lo scenario del Friuli e le descrizioni della gente difficile di Travenì sono un punto di forza del romanzo. Quel che non convince, come non convince in Joel Dicker, è la forzatura di una storia che si vorrebbe realistica a spiegazioni che, pur inquietanti e insolite, non convincono il lettore più scettico, nonostante tutto si basi sulle conseguenze di disumani esperimenti scientifici realmente condotti su un gruppo di bambini, negli anni Quaranta, da uno psicanalista austriaco, René Spitz. Impossibile, naturalmente, entrare troppo nei dettagli senza fare dello spoiler, tuttavia si sa che il lettore deve giungere alla suspension of disbelief, o sospensione dell’incredulità, e io, che pure sono sempre disposto (anzi, non chiedo di meglio) a calarmi nei romanzi, questa volta non ci sono riuscito. Non ho mai creduto che dei bambini parlino e si comportino come i ragazzini di cui racconta la Tuti, non sono riuscito a convincermi che il serial killer a cui si dà la caccia possa avere le caratteristiche e le origini che gli vengono attribuite, non ho provato empatia nei confronti di nessun personaggio, men che mai di Teresa Battaglia. Mi sono sembrate strane e sconclusionate anche le tecniche investigative o l’aspetto da “police procedural” del romanzo. Non ho la minima idea, naturalmente, se al Quai des Orfèvres le indagini venivano condotte davvero come le svolgeva Maigret, ma ci ho sempre creduto. Non ho difficoltà neppure nel credere al pagliaccio di “It” o al Randall Flag de “L’ombra dello scorpione”, perché Stephen King mi irretisce. Ecco, purtroppo Ilaria Tuti no. Sono rimasto perplesso anche di fronte alla prosa. Non che mi aspetti che tutti siano Sciascia o Simenon, però sentite l’incipit: “C’era una leggenda che gravava su quel posto. Una di quelle che si appiccicano ai luoghi come un odore persistente. Si diceva che in autunno inoltrato, prima che le piogge si tramutassero in beve, il lago alpino esalasse respiri sinistri”. Mi si scusi se non capisco, ma qual è la leggenda? E’ una leggenda che in autunno un lago esali “respiri sinistri”? Lo sarebbe se fossero i respiri di un mostro che a qualcuno capita talvolta di incontrare, ma non se ne fa cenno. L’impressione è che la prosa sia ridondante e cerchi un effetto senza sostanza. Eppure, nel gruppo di lettura che frequento, in cui sono l’unico uomo, si è discusso di “Come vento cucito alla terra”, romanzo di ambientazione storica nella Londra ai tempi della Prima Guerra Mondiale (mi ha ricordato “Un semplice caso di infedeltà” della scrittrice inglese Jacqueline Winspear, con protagonista l’investigatrice Maise Dobbs) e le lettrici se ne sono dette entusiaste (mi riprometto di leggerlo anch’io). Mi chiedo pertanto se possa esserci un approccio diverso, di genere, tra uomini e donne, di fronte a Teresa Battaglia, e dunque diverse le sensibilità e diversi i giudizi finali.


sabato 16 marzo 2024

UNITI PER IL PIANETA



 
Bepi Vigna
Germano Bonazzi
Marco Foderà
Fabio Grimaldi
UNITI PER IL PIANETA
Sergio Bonelli Editore
cartonato, 2021
80 pagine, 18 euro

“Pensando al futuro, anche gli eroi dei fumetti (non soltanto bonelliani) hanno il dovere di scendere in campo”, scrive Davide Bonelli nella sua introduzione al volume, intitolata “I quattro cavalieri”. Gli eroi che scendono in campo, “uniti per il pianeta” (appunto), sono in effetti quattro: Nathan Never (il personaggio di punta, che ospita gli altri) Legs Weaver, Martin Mystère e Mister No (in copertina Legs non c’è, rappresentata evidentemente da Nathan). Tuttavia della squadra fa parte anche Greta Suzuki (il nome di battesimo immagino non sia stato scelto a caso, viste le tematiche ambientaliste), definita “la maggior esperta mondiale di problemi ecologici” dei tempi dell’Agenzia Alfa e della Planet Earth Geographic Society (siamo dunque nel futuro). Il fattore tempo è determinante perché, per risolvere una grave minaccia all’equilibrio naturale terrestre, l’equipe deve viaggiare attraverso le epoche e contattare prima Mister No, nell’Amazzonia del ventesimo secolo, poi Martin Mystère nella New York del Ventunesimo, dando vita a un vero e proprio team up. Bepi Vigna, chiamato a gestire l’incontro fra personaggi così diversi e dei loro rispettivi mondi, se la cava piuttosto bene, coadiuvato dai tre disegnatori che lo affiancano (ciascuno alle prese con le tavole dedicate in prevalenza a un eroe piuttosto che a un altro). La brava colorista Daria Cerchi riesce a dare omogeneità alla narrazione grafica affidata a mani diverse. Le sessantaquattro tavole a fumetti di “Uniti per il pianeta” rientrano nellaproduzione bonelliana di volumi realizzati in collaborazione con enti, associazioni, organizzazioni, agenzie, come l’ESA. Basterà qui ricordare quelli in cui Nathan Never ha incontrato l’astronauta Luca Parmitano, ma anche altri personaggi hanno sponsorizzato campagne di sensibilizzazione su temi sociali, scientifici, culturali, ambientalisti, umanitari, a partire dalla promozione gratuita offerta da Sergio Bonelli alla LIPU, o all’iniziativa “Droga out” che vide testimonial Dylan Dog. In questo caso, “Uniti per il pianeta” reca in copertina l’egida del MITE (Ministero della Transazione Ecologica) e presenta una appendice saggistica sul cambiamento climatico.

 

domenica 10 marzo 2024

VIVO O MORTO!



Mauro Boselli
Roberto De Angelis
VIVO O MORTO!
Sergio Bonelli Editore
Cartonato, 2023
258 pagine, 28 euro

Nel novembre del 2018 fece la sua prima apparizione nelle edicole italiane una nuova collana riservata a Tex, dedicata alle avventure giovanili del personaggio creato da Giovanni Luigi Bonelli nel 1948 (si festeggiavano per l’appunto i settanta anni di vita editoriale di Aquila della Notte), curata (e in gran parte sceneggiata) da Mauro Boselli. Lo spin-off venne intitolato, per differenziarlo dalla testata madre, “Tex Willer”. La foliazione era più agile, sole 64 tavole a fumetti contro le 110 della serie regolare. Ma, soprattutto, oltre alla più giovane età del protagonista era diverso il ritmo, il mood narrativo. Il giovane Tex è scavezzacollo, vive avventure rocambolesche, serrate come erano, anche in ragione del minor spazio concesso dal formato a strisce delle origini, gli episodi degli anni Quaranta e Cinquanta. L’operazione si rivela fortunata, riscontrando l’apprezzamento del pubblico. Nel 2021, la Sergio Bonelli Editore comincia a raccogliere e riproporre in una collana cronologica di volumi cartonati destinati alla distribuzione in libreria le tavole degli albi da edicola, in prima edizione a colori, in bianco e nero nelle successive (il volume del 2023 fotografato nelle mie mani che vedete in apertura è una terza edizione del giugno 2023). Scrive Mauro Boselli nella sua introduzione intitolata “Quando il West era giovane”: “Il Tex che conosciamo ha 45 anni, ed è vedovo, con un figlio grande. I suoi lettori affezionati, però, conservano indelebile, nella memoria e nell’anima, il ricordo del giovane scatenato che era: le due immagini, il fuorilegge coraggioso ingiustamente perseguitato e l’odierno ranger e capo Navajo, si sovrappongono, concorrendo entrambe al fascino del personaggio”. Le avventure del Tex ventenne riempiono gli spazi vuoti lasciati da Giovanni Luigi Bonelli nella sintesi delle sue prime sceneggiature: per esempio, in “Vivo o morto!” scopriamo gli antefatti della vignetta d’esordio del personaggio, quella in cui il giovane ricercato si chiede se i cavalieri che vede giungere sulla sua pista siano gli uomini di un certo sceriffo, e ci vengono fornite esaustive spiegazioni circa i precedenti dell’indianina Tesah (fortunatamente con le cosce scoperte prima della censura imposta nelle ristampe degli anni Cinquanta dal famigerato marchio “Garanzia Morale”). In avventure successive vediamo in azione anche Kit Carson, Mefisto, Montales, Cochise, anch’essi con venticinque anni di meno. Questo primo volume raccoglie quattro albi di “Tex Willer”, illustrati da uno strepitoso Roberto De Angelis, che già si era cimentato con successo con Aquila della Notte nel 2004 con il diciottesimo “Texone” (“Ombre nella notte”, testi di Claudio Nizzi). Tuttavia, in quel caso, era ancora un illustre ospite in prestito dalla serie di Nathan Never. Con “Vivo o morto!” il passaggio al western è (o sembra) definitivo: De Angelis sembra tuttavia non aver fatto altro.

sabato 9 marzo 2024

29 STORIE BREVI

 
 


Ferdinando Tacconi
29 STORIE BREVI
Allagalla
Cartonato, 2022
268 pagine, 40 euro

Se dovessi riassumere l’opera a fumetti di Ferdinando Tacconi con uno slogan, sceglierei il titolo, molto brillante, usato da Gianni Bruno nel suo testo introduttivo a questo volume Allagalla: “Un uomo per tutte le collane”. Infatti, se talvolta si tende a identificare un autore con un personaggio, o con un genere, con Tacconi la cosa è difficile se non impossibile. Al limite, lo si potrebbe legare alla sua passione per gli aerei (di cui era un vero esperto). Per il resto, il disegnatore milanese (1922-2006), attivo a partire da 1946 (come copertinista per la Mondadori), ha giocato sui campi di tutte le squadre e in ogni campionato. Nel 1948 illustra i suoi primi fumetti per l’editore Giurleo: “Morgan il Corsaro”, “Jack il pilota” e “Miss Diavolo”. Passa poi nella scuderia di Tristano Torelli per le assai più impegnativa serie di “Nat del Santa Cruz” e “Sciuscià”. La facciamo breve: dopo questi promettenti esordi,  eccolo incontrare Rinaldo Dami e Giorgio Bellavitis, che facevano gli agenti per i disegnatori italiani al lavoro in Gran Bretagna, e quindi collaborare con vari editori inglesi. Spiega Alfredo Castelli in un altro articolo dell’apparato critico a corredo del volume: «Per un lungo periodo aveva vissuto a Londra, dove aveva dato inizio a una lunga collaborazione con la Casa editrice Fleetway, la maggior produttrice (e la miglior pagatrice, tanto che molti disegnatori italiani e spagnoli cominciarono a collaborarvi) di storie a fumetti d’oltremanica; si era specializzato soprattutto in storie di guerra per la “War Picture Library” (la nostra “Collana Eroica”). Nel 1955-56 aveva addirittura disegnato Jeff Hawke in una serie a colori per il pubblico giovanile pubblicata dall’ “Express Weekly”, ottenendo l’apprezzamento di Sydney Jordan, il creatore del personaggio, che molti anni dopo ha voluto conoscerlo personalmente per complimentarsi con lui». Negli anni Settanta, Ferdinando Tacconi torna a lavorare in Italia e proprio con Castelli realizza la lunga e fortunata serie de “Gli Aristocratici” pubblicata sul “Corriere dei Ragazzi”, testata per la quale illustra anche decine di storie brevi raccontando fatti della storia. Ma c’è anche un Tacconi copertinista e fumettista per Renzo Barbieri e la sua produzione erotica (“Fiabe proibite”, “Il dottor Barnard”). Così come lo troviamo attivo su “Il Giornalino” (ne parla Stefano Gorla in ulteriore articolo che intervalla le sezioni del volume), spesso su testi di Gino d’Antonio. E come tacere del Tacconi “bonelliano”, a partire da ben due storie della collana “Un uomo un’avventura”? Troviamo il suo nome su molti albi di Dylan Dog e di Nick Raider (di cui, secondo me,  il miglior interprete). A chiusura del volume Allagalla c’è un commento di Luigi Siniscalchi, che spiega il suo punto di vista (di disegnatore) sull’arte di Tacconi: «Negli anni Ottanta cercavo di capire, scandagliando tra i segni, le tecniche per disegnare fumetti. Rimasi subito attratto da quella pennellata sicura e veloce che contornava personaggi e parte degli ambienti, con l’aggiunta di grosse campiture di nero. La rigidità precisa degli oggetti e delle onomatopee mi suggeriva che i passaggi e il cambio di strumenti per inchiostrare erano più di uno. I grafismi necessari a personalizzare quel segno sono imprevedibili e servono a creare le masse, i volumi dei visi, dei panneggi e tutto quello che ha bisogno di una caratterizzazione». Tacconi anche maestro e punto di riferimento, dunque. Il multiforme ingegno dell’autore è ben rappresentato da questa antologia di storie degli anni Settanta e Ottanta pubblicate quasi tutte (tranne poche eccezioni) sul “Corriere dei Ragazzi” e sul “Giornalino”. Tra gli autori delle sceneggiature troviamo, oltre al già citato Castelli, anche Claudio Nizzi (a sua volta autore di un breve saggio che racconta dei suoi rapporti con Ferdinando), ma pure Mino Milani, Pier Carpi, Giorgio Pezzin e molti altri.

 

venerdì 8 marzo 2024

TODO MODO


 
 
Leonardo Sciascia
TODO MODO
Adelphi
brossurato, 2003
124 pagine, 10.45 euro


Credo sia impossibile recensire efficacemente “Todo modo” di Leonardo Sciascia (senza pretendere che queste mie brevi annotazioni si possano dire a pieno titolo recensioni e men che mai efficaci) evitando di accennare al finale e dunque di svelarlo facendo quel che si suole dire “dello spoiler”, peccato tanto più grave quando si tratta di un giallo. Tuttavia, è sommamente vero che il romanzo non si esaurisce nel suo risvolto poliziesco, e forse (anzi, sicuramente) questo aspetto è ciò che meno importa all’autore. Quindi, il fatto di conoscere come va (o non va) a finire non dovrebbe scoraggiare nessun lettore, di certo in grado di apprezzare comunque tutto il resto. Dunque, mettiamoci d’accordo: questa arzigogolata premessa valga come avviso contro lo spoiler: qui di seguito rivelerò il nome dell’assassino (e cercherò di spiegare perché non possa fare a meno di argomentarci sopra). 
Cominciamo dall’autore e dal titolo. Leonardo Sciascia (1921-1989) intitolò così il suo quinto romanzo, ambientato negli anni Settanta e uscito nel 1974 (il primo, “Il giorno della civetta”, è del 1961) utilizzando l’inizio di una citazione dagli “Esercizi spirituali” di Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti: "todo modo para buscar la voluntad divina" cioè "ogni mezzo per cercare la volontà divina". Degli insoliti “esercizi spirituali” che coinvolgono amministratori, notabili e uomini d’affari, sotto la guida dell’ineffabile don Gaetano (vero protagonista del racconto) fanno per l'appunto da sfondo all’intero romanzo, a significare evidentemente la commistione tra la Chiesa e la politica. Il punto di vista laico e non compromesso, quello di Sciascia parrebbe di poter dire, è rappresentato dall’io narrante, di cui si sa soltanto che è un famoso pittore, uomo curioso oltre che di cultura, attento osservatore della realtà come si richiede appunto da chi faccia il suo mestiere. 
Lo scenario è quello di un moderno albergo costruito inglobando un antico romitorio, l’Eremo di Zafer (sulla cui ubicazione non ci sono indizi). Qualcuno fra i commentatori ha notato che negli anni Sessanta e Settanta a Zafferana Etnea si ritiravano periodicamente in ritiro, per così dire, spirituale i maggiorenti della Democrazia Cristiana. Lecito dunque ipotizzare un riferimento con gli “esercizi spirituali” di una settimana organizzati ogni anno da don Gaetano, costruttore dell’albergo (e di altre strutture simili, a dimostrazione della sua abilità nell’avere le mani in pasta e nel saper gestire gli affari mondani oltre quelli religiosi). Invitati a prendervi parte sono un gruppo di esponenti dei potentati, ministri e cardinali e via via scendendo fino a direttori di banca, avvocati e imprenditori. Per alcuni di loro, non si sa chi, è l’occasione per far alloggiare nell’hotel anche le amanti (e infatti il pittore nota cinque donne sole, dall’espetto provocante e appariscente, che già alloggiano nell’Eremo di Zafer prima ancora che arrivino gli ospiti, e si tratta di persone non registrate alla reception: don Gaetano chiude un occhio). Per tutti, la settimana serve a concordare affari, spartirsi mazzette, chiedere e scambiare favori. Il pittore finisce per caso nell’albergo: cerca un luogo per sostare una notte durante un viaggio, viene a sapere del raduno che sta per aver luogo e, incuriosito, chiede a don Gaetano di potersi trattenere qualche giorno in più nonostante la struttura non sia, per la settimana degli “esercizi”, aperta al pubblico. Le conversazioni fra il celebre artista e il prete, che dietro l’aspetto dimesso cela una cultura in grado di rivaleggiare con quella di dotti e porporati, sono affascinanti e inquietanti al tempo stesso, come gli occhiali pince nez che il religioso porta sul naso, identici a quelli indossati dal demonio in un antico dipinto custodito nel suo studio. Il romanzo si tinge di giallo allorché in una breve successione di pochi giorni vengono commessi due omicidi tra gli ospiti dell’hotel, e il procuratore Scalambri impedisce a chiunque di allontanarsi, dimostrandoti comunque soltanto in grado di scoprire, grazie a un Commissario che lo assiste, un giro di mazzette che la prima vittima, il senatore Michelozzi, stava distribuendo a tutti gli altri del gruppo. Nessun progresso invece sull’identità dell’assassino. Il pittore si rivela indagatore ben più dotato ma nulla rivela al lettore, se non che ha capito tutto in seguito a certi sopralluoghi alla ricerca di prove. Quali siano queste prove, però, non lo si sa. Anche se, a dire il vero, non mancano le allusioni. Il romanzo si conclude, in pratica, con un terzo omicidio: quello di don Gaetano. Un vero colpo di scena! Peccato che la soluzione del giallo, con la ricostruzione dei fatti e dei moventi, e la rivelazione del nome dell’assassino, o degli assassini, non ci sia. Qualcuno ha ipotizzato che l’io narrante sia il colpevole almeno dell’uccisione di don Gaetano, e appunto i suoi non detti, simili a quelli di Agatha Christie ne “L’assassinio di Roger Ackroyd”, nascondano le sue effettive mosse. In effetti il pittore, in una frase sibilliana che sembra detta per scherzo, dice di essere per l'apputo lui l'assassino. Io sono di parere diverso, ed ecco cosa ho annotato nel mio diario (da buon grafomane, ne tengo uno): «Finisco di leggere “Todo modo”, restando molto perplesso. Scrittura magnifica, personaggi interessanti, trama che invoglia a proseguire nella lettura, poi improvvisamente un finale aperto in cui tre delitti restano senza spiegazione e si dice espressamente che l’assassino non si troverà mai. Naturalmente capisco che a Sciascia interessi di più, o solamente, alludere al malaffare, ai delitti e agli intrighi del sottobosco della politica (ben rappresentati dal gran burattinaio don Gaetano, prete misterioso e affascinante nella sua ambiguità), di cui non si riesce mai a venire a capo, ma un giallo senza colpevole grida vendetta al cospetto di Dio. Secondo me, l’assassino è lo stesso don Gaetano che da ultimo si è suicidato, vistosi sul punto di venire coinvolto nello scandalo delle mazzette scoperto nel corso del romanzo. Del resto una pistola viene trovata accanto al suo cadavere, a poca distanza dalla sua mano (per di più, una pistola da tutti ricercata dopo il primo delitto, e misteriosamente scomparsa: adesso invece non è stata nascosta). L'ipotesi del suicidio viene fatta ma subigto scartata ma apparentemente soltanto perché non si infaghi il buon nme di don Gaetano o perché non si può ritenere un uomo di tanto spessore capace di una bassezza, ma il titolo del romanzo è "todo modo", "con ogni mezzo", anche quelli più estremi, e che c'è di più estremo del suicidio?». Sciascia comunque mette in bocca ai suoi personaggi due affermazioni: che la verità con sarà mai scoperta, ma anche che, come la “lettera rubata” di Edgar Allan Poe, è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno la vede.

lunedì 4 marzo 2024

L’OCEANO DEI VELENI

 


Alfredo Castelli
Giancarlo Alessandrini
L’OCEANO DEI VELENI
Sergio Bonelli Editore
Cartonato, 2022
242 pagine, 24 euro

Questa lunga storia del Detective dell’Impossibile, raccolta in un unico volume cartonato destinato alla distribuzione libraria, apparve per la prima volta in edicola tra l’aprile e il giugno del 1991 sugli albi mensili n° 109, 110 e 111 di Martin Mystère. Secondo Alfredo Castelli (1947-2024), autore (oltre che della sceneggiatura) di una esaustiva presentazione, si tratta del capolavoro grafico di Giancarlo Alessandrini (1950) per il suo “uso dei bianchi e dei neri davvero sapiente”. Si potrebbe discutere se in altri casi Alessandrini sia stato ancora più sapiente, ma che le tavole de “L’oceano dei veleni” siano magistrali non c’è alcun dubbio. Colpisce l’aneddoto che Castelli racconta a proposito dell’ingresso del disegnatore nello staff del “Corriere dei Ragazzi”, nella cui redazione i due si incontrarono. Correva l'anno 1972, e Giancarlo era venuto a Milano accompagnando un professionista già affermato che cercava lavoro. Lui, poco più che ragazzino, aveva portato dei suoi schizzi per farsi dare dei consigli da qualcuno degli illustratori che fossero stati presenti in sede. Risultato, il professionista viene bocciato, mentre del ragazzino Aldo Di Gennaro dichiara: “Ehi! Abbiamo qui un talento naturale!”. Così Alessandrini torna a casa con già una prima sceneggiatura da disegnare. “L’oceano dei veleni” riporta Martin Mystère sulle isole del Pacifico (il primo arcipelago nelle cui acque cui vediamo il Detective dell’Impossibile, una volta tanto in vacanza, immergersi con Java per fare riprese subacquee è quello delle Samoa), e non mancano i riferimenti a precedenti avventure in Oceania, che spiegano il legame psichico
che si stringe fra lui e un nativo (siamo in zona “terzo occhio”, quella “mistica” della saga martinmysteriana), legame da cui prende le mosse il coinvolgimento del BVZM in un losco intrigo internazionale. Siamo ancora in clima di Guerra Fredda e c’è di mezzo il recupero di un satellite americano che non avrebbe dovuto esserci, abbattuto in mare da un satellite killer sovietico, il quale a sua volta non avrebbe dovuto esserci. Però le cose si complicano allorché quale nave incaricata dell’operazione viene scelta una utilizzata da compagnie senza scrupoli per seppellire nelle profondità oceaniche rifiuti tossici, che devono essere rapidamente affondati in basse acque coralline. Da qui una strage di nativi, che nessuno bloccherebbe se Martin non intervenisse. La sceneggiatura di Castelli trae origine da un soggetto” di Elio Ottonello (1954), laureato in biologia marina, scrittore di romanzi, attivo collaboratore del BVZA quando si tratta di indagare sui misteri del mare (suoi gli spunti di altre storie mysteriose sull’argomento). Una piacevole e avvincente rilettura. Ah, ci sono due vignette con Diana in topless (all'epoca si poteva). Stefania Divertito e Marco Gisotti, giornalisti ambientali, firmano, in apertura di volume, un saggio di approfondimento scientifico sull'inquinamento degli oceani.


domenica 3 marzo 2024

BOUNTY HUNTERS

 

Pasquale Ruju
Massimo Rotundo
BOUNTY HUNTERS
Sergio Bonelli Editore
cartonato, 2024
52 pagine, 9.90 euro


Per me, il nome di Massimo Rotundo resterà per sempre legato al graphic novel post apocalittico "Il pescatore", sceneggiato da Riccardo Barreiro e pubblicato ne "Gli albi di Orient Exress" dopo essere apparso su rivista nel 1983. Una di quelle letture che lasciano il segno, che si riprendono in mano più volte nel corso degli anni. Mi sono sempre chiesto perché non ne sia nata una intera serie. Ma anche Sera Torbara, del 1987, personaggio di ambientazione storica ottocentesca sceneggiato da Giuseppe Ferrandino, è stato una gioia per gli occhi. Ho apprezzato gli "Ex Libris Eroticis" e naturalmente ho seguito Rotundo in Bonelli su Brendon, Volto Nascosto e Shangai Devil. Sono stato felice di vederlo arrivare a Tex, e quindi lieto di vederlo all'opera su questo nuovo cartonato "alla francese" di Aquila della Notte di cui ha realizzato, oltre ai disegno, anche i colori. "Alla francese" per formato, policromia, scansione narrativa e taglio delle tavole, ma distribuito "all'italiana" in edicola, a un prezzo che, rapportato alle caratteristiche editoriali, è quanto di più concorrenziale si possa desiderare. La sceneggiatura, firmata dal veterano Pasquale Ruju, è quanto di più classico si possa immaginare: un bandito in fuga in territorio messicano, Tex che lo cattura, un gruppo di bounty killers che fanno comunella per soffiargli la preda prima che venga riportata oltre il confine americano e consegnata a uno sceriffo. Che bello però se il prossimo lavoro di Rotundo fosse una miniserie con protagonista il Pescatore o Sera Torbara.