domenica 26 settembre 2021

LEO E ALISEO

 
 
 

 
 
Stefano Voltolini
LEO E ALISEO
Allagalla
2021, cartonato
200 pagine, 25 euro


"Nell'ottobre 1987 mi sono presentato, con la cartella sottobraccio, al grande sceneggiatore e disegnatore Gino D'Antonio, allora responsabile dei fumetti de 'Il Giornalino' delle Edizioni San Paolo. Nella cartella, oltre ai fumetti realizzati negli anni precedenti, avevo inserito una tavola che avevo disegnato rapidamente il giorno prima, spinto dalla mia passione per il medioevo, in cui presentavo Leo e Aliseo. Nelle mie intenzioni potevano essere i protagonisti di una nuova serie. Potete ben immaginare la mia sorpresa quando vidi D'Antonio interessarsi proprio a quella tavola e chiedermi di scrivere la sceneggiatura del primo episodio". Così Stefano Voltolini racconta l'inizio della saga di Leo e Aliseo, nella sua prefazione al volume. Volume che si inserisce nella meritoria opera portata avanti da Allagalla (e da altri editori) tesa a recuperare le cose migliori (e ce ne sono tante) tra i fumetti pubblicai da "Il Giornalino" ai bei tempi che furono. La serie "Leo e Aliseo", scritta e disegnata dal talentuoso Stefano Voltolini (oggi in forza a Zagor), esordì il 24 aprile 1991, e è proseguita fino al 2016. Proprio per festeggiarne i trent'anni lo stesso Voltolini ha selezionato diciannove storie che sono state raccolte in volume. L'autore parla di una sua passione per il medioevo, incoraggiata, probabilmente, dalla lettura de "Il nome della rosa" (1980) e dalla visione del film che nel 1986 ne trasse Jean-Jacques Annaud, dato che la figura del giovane Leo può ricordare quella di Adso da Melk e il suo maestro vecchio e saggio sembra Guglielmo da Baskerville. Però, Leo assomiglia anche (forse molto di più) al Semola de "La spada nella roccia" di Walt Disney (un film di animazione del 1963) e Aliseo pare Mago Merlino. Anche Crak, l'uccello fedele amico di Leo (a qualunque specie appartenga), da a questo punto di vista, potrebbe corrispondere al disneyano gufo Anacleto. In realtà, nella saga di Voltolini confluisce tutto l'immaginario medievale fiabesco, magico, leggendario, storico, con gnomi, giganti e draghi, ma anche tornei cavallereschi e macchine volanti di Leonardo. Le storie, disegnate sempre meglio man mano che Voltolini mette a punto la propria linea grafica (molto presto il suo stile raggiunge la piena maturità con eccellenti risultati, sia nella caratterizzazione dei personaggi che nella ricostruzione degli scenari) sono ottimamente raccontate in funzione del target di giovanissimi. Non resta che sperare in un secondo volume.

sabato 25 settembre 2021

MI RITIRO PER DELIRARE

 

 

Ho perso il conto di quanti libri ho scritto e pubblicato, ma c'è un tasto qui sopra, sotto il titolo del blog, che rimanda (se ci cliccate) a un elenco. Se però mi domandate qual è il mio più bello, risponderò con certezza: "Mi ritiro per delirare", da poco pubblicato da Cut-Up. Ne vedete qui sopra la strepitosa copertina di Massimo Bonfatti, che vale da sola il prezzo d'acquisto del volume, al pari dell'esilarante prefazione di Gianni Fantoni (un grazie a tutti a due questi amici).  

Il libro è già stato presentato in anteprima in luglio nel corso di Riminicomix, ma giunge in distribuzione in libreria e sulle piattaforme on line soltanto adesso, in settembre. Ecco la foto del momento in cui, appunto a Rimini, ho avuto in mano la prima copia. Foto che rende bene l'idea del contenuto del volume.


Contenuto di cui ho letto degli estratti, cercando di strappare un sorriso, in questo video pubblicato sul mio canale YouTube (cliccate per vederlo - mi pare divertete).

https://youtu.be/JDE88vZtS-U

Qui sotto una foto del libro in mano ad Alfredo Castelli, che sembra esserne divertito (e il BVZA si è detto d'accordo a che si usasse la sua immagine per fare da testimonial),


Ecco il testo con cui la Casa editrice Cut-Up cerca di imbonire gli acquirenti esitanti:

Aforismi, battute, facezie, giochi di parole, riflessioni sarcastiche o poetiche, frutto della penna corrosiva e dello sguardo controcorrente di uno dei più noti sceneggiatori italiani di fumetti.
Frasi a effetto, brevissime e fulminanti, divise per argomento come in un dizionario universale, da leggere tutti insieme o saltando qua e là, puntando il dito a caso in cerca di una folgorazione. Senza necessariamente dover essere d'accordo.
L’antologia riunisce il meglio delle precedenti raccolte e più di 1500 aforismi inediti, scelti tra le migliaia pubblicati dall’autore sul suo seguitissimo account Twitter.

 



Nel caso voleste smettere di esitare e procedere all'acquisto, Cut Up fa spedizioni gratuite (mi dicono) ed ecco come procedere all'ordine (cliccare):

https://cut-up-publishing.ecwid.com/MI-RITIRO-PER-DELIRARE-Dalla-A-di-Aforismi-alla-Z-di-Zagor-di-Moreno-Burattini-SPEDIZIONE-GRATUITA-p368910859

Qui di seguito la mia dotta (ma spero comunqie godibile) introduzione.


IL SENSO DELLA FRASE
di Moreno Burattini


Non ho un millesimo del talento che aveva Andrea G. Pinketts come scrittore,  perciò non provo neppure a imitarlo. Lui, in verità, avrebbe potuto benissimo sceneggiare fumetti, rubando il mestiere a me, e infatti esiste da qualche parte l’abbozzo di un soggetto per una storia di Zagor che una volta iniziammo a scrivere insieme (faceva visita spesso alla redazione Bonelli, in via Buonarroti). Però, forse, ho qualcosa, in centesima parte, di un suo peculiare talento: il senso della frase. “Il senso della frase”, del resto, è un suo romanzo, uscito nel 1995. Una miniera di aforismi. Pinketts, che purtroppo se ne è andato nel 2018, spiegava così quel titolo:

Non so sciare, non so giocare a tennis, nuoto così così, ma ho il "senso della frase". Il senso della frase è Privilegio poiché, se lo possiedi, permette a una tua bugia di essere, se non creduta, almeno apprezzata. Non so se si nasca con il senso della frase. Di sicuro ci si muore.


Ho sempre idolatrato gli scrittori con il senso della frase. Oscar Wilde, per esempio, di cui sono stati pubblicati libri di aforismi mai scritti, semplicemente estrapolati dai suoi racconti o dalle sue commedie. Fin da giovanissimo, mi sono appuntato sui dei quaderni le frasi che più mi folgoravano, in cui mi imbattevo leggendo. L’ho fatto prima ancora di scoprire che esistevano gli aforismi scritti proprio come tali, e che costituivano un vero e proprio genere letterario.  Nel 1994, i Meridiani Mondadori hanno addirittura dato alle stampe una antologia in due volumi “Scrittori italiani di aforismi”, curata da Gino Ruozzi, comprendente cinquanta autori distribuiti su oltre seicento anni di storia, da Taddeo Alderotti (1223-1295) a Pietro Ellero (1833-1933). Il principale motivo per cui ho pubblicato alcune raccolte di aforismi miei (questa che avete in mano è la terza) è, lo avrete capito, la segreta speranza di entrare a far parte dell’aggiornamento di quei due Meridiani, nella parte che va dalla Prima Guerra Mondiale ai giorni nostri, anni in cui gli aforisti hanno imperversato. 

Fra tutti gli autori contemporanei citerò Gesualdo Bufalino (1920-1996), il quale diceva: “un aforisma ben fatto sta in otto parole”. Contate quelle di questa frase, sono appunto otto. Non ne servono molte di più per colpire immediatamente nel segno con maggior efficacia di qualunque lungo discorso. Del resto, “quando non si sa scrivere, un romanzo riesce più facile di un aforisma”, aggiungeva l’austriaco Karl Kraus (1874-1936), altro nume tutelare di tutti gli aforisti. Si parva licet componere magnis, mi permetto di suggerire, però, un perfezionamento della frase di Bufalino: un buon aforisma sta in sette parole. Ecco: contate pure queste, prego.

Ho parlato di due mie antologie precedenti a questa. La prima è uscita nel 2015 con il titolo “Utili sputi di riflessione”, edita da Allagalla. Il buon successo di quell’iniziativa mi ha convinto a riprovarci nel 2017 con una seconda silloge, intitolata “Sarò bre”, della stessa casa editrice. Questa terza raccolta, pubblicata invece da Cut-Up Publishing, presenta il meglio delle prime due, raddoppiando la proposta con una gran quantità di aforismi nuovi, apparsi originariamente su Twitter, un social che ben si presta, basato com’è su un ridotto numero di caratteri a disposizione, a permettere agli utenti di esibire il loro “senso della frase”.

In Rete le mie riflessioni, facezie, arguzie e stupidaggini hanno finito per radunare un piccolo pubblico che le apprezza e addirittura le attende o le va a cercare. Tutto ciò che scrivo va innanzitutto considerato una provocazione, un pungolo, e non propugno tesi o verità rivelate. Anzi, sono gradite le contraddizioni, perché dai contrasti nascono i dibattiti. Mi piace l’idea che da un concetto, talvolta paradossale, si possano trarre lunghe riflessioni. Talvolta i miei aforismi riescono a mettere a nudo la mia anima, anzi, in certi casi la scarnificano. Del resto si sa che Arlecchino si confessò burlando. Mi diverte, anzi, dipingermi peggio di come sono per la soddisfazione di sentirmi dire: “ma no, non è vero che sei così”. E che delusione quando non me lo dicono e temo di essere così davvero. Poiché ai buffoni si perdona tutto, anche le parolacce, mi sono permesso di usarne qualcuna a scopo ludico: tenete però il libro fuori portata dai bambini, mi raccomando. In ogni caso, come scrisse Stan Laurel in una sua poesia: God bless all clowns, Dio benedica i clown. Non è obbligatorio pensarla come me su Dio, Patria e Famiglia per apprezzarne la mia presa in giro, che fa parte degli stilemi del genere. Del resto neppure io la penso come me. Talvolta si tratta di riflessioni riguardanti temi importanti, altre volte di ignobili facezie: fa parte del mio carattere, alternare i registri. Del resto, la vita stessa offre ai nostri sguardi aspetti sublimi e altri triviali. Mi illudo però che anche dalla battuta da caserma si possa trarre, sforzandosi, un qualche motivo di riflessione in grado di elevare chi è così bravo da coglierlo. In ogni caso, gli aforismi sono una forma d’arte paragonabile alla poesia: ogni singola parola ha un peso e il loro significato va incredibilmente al di là delle dimensioni del testo con cui lo si esprime.

Permettetemi, per finire, di fingermi dotto e dimostrare che ho fatto il classico. Le parole “aforisma” e “orizzonte” hanno la medesima etimologia. Derivano infatti dal verbo greco horíz?, “separo”. Apó e horíz? significano “separo da” ma anche “circoscrivo” e dunque aphorismós  vale come “definizione”. L’orizzonte è ciò che lo sguardo circoscrive separandolo dal tutto, e l’aforisma è ciò che poche parole possono contenere in uno spazio limitato. Il primo a usare la parola “aforisma” fu Dante, nel Convivio e nel Paradiso, dove scrive: “Chi dietro a iura e chi ad amforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio”. Vale a dire: c’è chi studia legge, chi medicina e chi si fa prete. Gli “amforismi” sono dunque precetti medici. Quelli di Ippocrate, senza dubbio, i cui detti e le cui sentenze venivano tramandate da secoli come base della scienza medica. Ma anche quelli di Taddeo Alderotti, contemporaneo dell’Alighieri, che abbiamo già citato: si tratta dell’autore di un “libello per conservare la sanità del corpo”, scritto in volgare. Per dare un esempio, ecco cosa raccomanda l’Alderotti: “quando ti levi la mattina de letto distenderai le tue membra, perché la natura ne prende conforto, e il naturale caldo se ne conforta e fortifica le membra”. Insomma, appena alzati bisogna fare stretching . Da questo tipo di aforismi, si passa gradatamente a quelli delle epoche successive che prima propongono massime religiose, poi morali. Dai consigli per la salute a quelli per lo spirito. In ogni caso, “medicina per l’uomo, questa è l’essenza dell’aforisma”, scrive Giuseppe Pontiggia. A partire dalla seconda metà del Seicento, per merito dei francesi, gli aforismi cominciano a diventare anche spiritosi. Meno male, perché tra il serio e il faceto, preferisco il faceto.


lunedì 20 settembre 2021

ONLY WEST BABY


 
 
Raffele Della Monica
Giuseppe De Nardo
Giuliano Piccininno

ONLY WEST BABY

Festina Lente
2021, brossurato
188 pagine, 16 euro


"Via Bastioni è una stradina del centro storico di Salerno all'ombra della cattedrale romanica dove, nel 1977, un gruppo di ragazzi sconsiderati decise di aprire uno studio per produrre fumetti": così racconta Giuliano Piccininno nella sua prefazione a questo volume. Tra i ragazzi sconsiderati c'era, ovviamente, anche lui. Da quell'esperienza nacque una rivista, chiamata "Trumoon" su cui si sono fatti le ossa numerosi autori-rivelazione degli anni Ottanta, quelli appunto della cosiddetta "scuola salernitana". Il primo numero è datato 1981, e fra i collaboratori troviamo Raffaele Della Monica, Bruno Brindisi, Roberto De Angelis, Luigi Siniscalchi, Daniele Bigliardo, Luigi Coppola e tanti altri, compreso lo sceneggiatore Giuseppe De Nardo, bravo anche come disegnatore umoristico. All'inizio degli anni Novanta alcuni reduci da Via Bastioni si lasciano coinvolgere in un progetto editoriale fortemente voluto da Raffaele Della Monica, il quale aveva una gran voglia di diventare editore di se stesso sulla scorta di ciò che aveva fatto Wally Wood in America (il paragone è di Giuseppe De Nardo, e lo si legge nella postfazione). Nonostante le difficoltà dell'impresa (nella postfazione si racconta di come Sergio Bonelli avesse cercato di scoraggiarla), Raffaele riesce a convincere gli amici più fidati e a mandare in edicola una rivista nel formato orizzontale di "Lupo Alberto", chiamata "Only West Baby" e contenente storie western comiche. Della Monica e Piccininno venivano peraltro dall'esperienza di Alan Ford e avevano (hanno) un indiscutibile talento umoristico. Di quello di De Nardo si è detto. L'esperimento non ottenne i risultati sperati (e che avrebbe meritato) e i numeri usciti furono solo tre (li ho tutti). Oggi, Festina Lente ripropone in un omnibus due delle serie comparse su quei numeri (tra cui un episodio inedito), "Texas Strangers" e "Le Grandi Balle del West", con l'aggiunta di illustrazioni, schizzi, apparato critico. Tra i fumetti della rivista manca "Orazio Brown" di Bruno Brindisi (peccato). I Texas Strangers sono tre uomini della legge (o quasi): il ragazzino B.B. Kid, il vecchietto Fish Bullet, e il ciccione Big Ben. De Nardo, Della Monica e Piccininno li mettono al centro di vicende esilaranti facendo parodia dei tradizionali elementi della mitologia western. "Le grandi balle del West" sono invece appannaggio del solo De Nardo, non hanno un personaggio fisso, e raccontano con garbo e pulizia di tratto storielle divertenti sempre della frontiera americana. messa in burla C'è da chiedersi perché, nel 1990, gli autori dei "Only West Baby" abbiano voluto dedicarsi appunto solo al western: "Basta con questo West! Buttiamoci sui supereroi" consiglia Piccininno in una vignetta autoironica che si legge nel volume. La risposta, probabilmente, è che al cuore non si comanda, e Della Monica (come il sottoscritto) è cresciuto a pane e Tex. Per la cronaca, Della Monica e Piccininno lavorano con me a Zagor e ci troviamo molto bene

domenica 19 settembre 2021

FONDAZIONE E IMPERO

 
 

 
 
Isaac Asimov
FONDAZIONE E IMPERO
Mondadori


Costituito da due racconti indipendenti, originariamente pubblicati nel 1945 sulla rivista Astounding Stories e poi raccolti in unico volume nel 1952, “Fondazione e Impero” è il secondo volume della cosiddetta “trilogia galattica” di Isaac Asimov, poi ampliata dall’autore (negli anni Ottanta) fino a contare sette titoli (più, se vogliamo, quelli del ciclo dei Robot a cui la narrazione, a un certo punto, si salda). Rimanendo sulla terzina iniziale, “Fondazione e Impero” fa seguito a “Fondazione” e precede “Seconda fondazione”. Per anni, in Italia abbiamo conosciuto questo romanzo come “Il crollo della galassia centrale”. Di “Fondazione”, il primo dei tre, delle fonti di ispirazione e dell’impalcatura complessiva della saga abbiamo già parlato in questo spazio: potete leggere quanto già scritto cliccando qui:

https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/.../fondazio...

Così Asimov riassume quanto narrato nel primo volume, all’inizio di “Fondazione e Impero”: “L’impero galattico stava crollando. Era un’istituzione colossale che comprendeva milioni di mondi da un capo all’altro dell’immensa doppia spirale chiamata Via Lattea, e data la sua vastità la rovina era tanto imponente quanto lenta a compiersi. La caduta era iniziata da secoli, prima che qualcuno se ne rendesse conto. Questo qualcuno fu Hari Seldon, che rappresentava l’unica scintilla creativa in un mondo intellettualmente inaridito. Fu Seldon a sviluppare la scienza della psicostoria fino al più alto grado. La psicostoria studia le reazioni non del singolo uomo ma dell’uomo in quanto massa. Una massa formata da milioni di esseri umani. Con l’applicazione di questa scienza si possono prevedere con precisione assoluta le reazioni delle masse a determinati stimoli. Hari Seldon studiò i fattori sociologici ed economici dei suoi tempi, ne vagliò gli sviluppi, previde l’inarrestabile decadenza della civiltà e il conseguente periodo di trentamila anni di caos prima che un nuovo impero potesse nascere dalle rovine del precedente. Era troppo tardi per arrestarne la caduta, ma non troppo per ridurre il periodo di barbarie.” Nasce così il “piano Seldon”, che prevede la costituzione di due Fondazioni, una nota e una segreta (nascosta non si sa dove), con lo scopo di limitare il caos a un periodo di mille anni. La prima Fondazione viene collocata di un piccolo pianeta periferico, Terminus. Pochi conoscono i veri scopi degli scienziati che prendono possesso di Terminus per ordine dello stesso imperatore, che Seldon ha convinto a finanziare la compilazione di una “Enciclopedia Galattica” destinata a raccogliere e tramandare tutto il sapere umano: un lavoro, questo, di copertura. Ma gli stessi enciclopedisti, pur consapevoli di far parte di un piano, nulla sanno di ciò che gli aspetta. I membri della Seconda Fondazione, dovunque siano, conoscono invece qualcosa di più e sono chiamati a controllare che tutto proceda secondo le previsioni. Continua a riassumere Asimov: “A mano a mano che l’impero si disintegrava, le regioni esterne si trasformarono in regni indipendenti. La Fondazione ne fu minacciata. Tuttavia, manovrando questi regni gli uni contro gli altri sotto la guida del suo primo sindaco, Salvor Hardin, la Fondazione riuscì a mantenere una precaria indipendenza. Dopo duecento anni la Fondazione era lo stato più potente della Galassia, a eccezione di quanto rimaneva dell’impero stesso. Sembrava inevitabile che il prossimo pericolo che la Fondazione avrebbe dovuto affrontare sarebbe stato il colpo di coda dell’impero morente”. E’ appunto quello che succede in “Fondazione e Impero”. “Foundation” è dunque un susseguirsi di momenti di crisi (dette “crisi Seldon”, dato che sembrano essere state previste dal matematico, il quale compare periodicamente come ologramma a confermare che il suo piano si sta svolgendo regolarmente a dispetto dei pericoli che sembrano incombere), superate non senza angosce.
Della prima delle due parti da cui è costituito il romanzo, “The general”, il protagonista è appunto è appunto un giovane e ambizioso generale dell’Impero, Bel Riose, ansioso di accrescere la propria fama dopo essere stato mandato a ripristinare il potere imperiale sui pianeti periferici progressivamente sfuggiti al controllo centrale (esattamente come la psicostoria aveva previsto). Tra questi pianeti c’è anche Terminus, sede della Prima Fondazione. Venuto a conoscenza del piano Seldon, Riose se ne fa beffe e crede di potersi far grande agli occhi dell’Imperatore Cleon II assoggettando il mondo degli enciclopedisti. Ma non fa i conti con la necessità storica che rende inevitabile il tracollo dell’Impero: nessun Imperatore che intenda conservare il trono può tollerare che un suo generale divenga troppo potente, e magari ambire alla corona imperiale.
La seconda parte del romanzo, “The Mule”, inserisce invece nella trama un imprevisto che sembra mandare a monte il piano Seldon: l’avvento, appunto imprevedibile, di un mutante, detto il Mulo, in grado di conquistare, grazie ai propri poteri mentali, l’intera galassia. Il Mulo è infatti in grado di plasmare le menti, assoggettando chiunque ai propri voleri e portando dalla propria parte gli stessi generali degli eserciti avversari. Poco tempo dopo l’avvento del mutante, Terminus cade sotto il suo controllo, proprio mentre sta per scatenarsi uno scontro tra i governo, divenuto autoritario e burocratico, della Fondazione, e i mercanti indipendenti protagonisti dello sviluppo nei decenni precedenti. La rivolta dei mercati viene appunto bloccata dall’irruzione sulla scena del Mulo, e appare chiaro (da un messaggio registrato di Hari Seldon) che la psicostoria aveva previsto la guerra civile ma non la conquista da parte del mutante. Ma chi è il Mulo? Nessuno lo ha visto, e la stessa narrazione lo tiene lontano dalla scena, raccontata dal punto di vista dei conquistati e, in particolare, da quella di un piccolo gruppo che cerca di portare in salvo il buffone di corte del Mulo stesso, un uomo deforme ironicamente soprannominato Magnifico, sfuggito al mutante e da questi ricercato ovunque. Toran, Bayta ed Ebling Mis portano con loro Magnifico mettendosi alla ricerca della Seconda Fondazione, i cui misteriosi componenti sono gli unici, forse, in grado di contrastare l’ascesa del mutante e di ripristinare il piano Seldon. In un clamoroso colpo di scena finale, il Mulo si rivela proprio mentre Ebling Mis sta per dire ai compagni dove si trovi la Seconda Fondazione: Bayta non esita a ucciderlo per impedire che l’informazione giunga al mutante. Non resta che leggere il volume successivo della saga, per scoprire gli sviluppi.

sabato 18 settembre 2021

LATER

 
 
 
 
 


Stephen King
LATER
Sperling & Kupfer
2021, cartonato
310 pagine, 19.90 euro
 
Un nuovo romanzo kinghiano sul tema della crescita, dell'adolescenza, della perdita dell'innocenza, ma anche sul prezzo da pagare per diventare grandi, per conoscere la verità, per liberarsi dai propri demoni. Un libro, "Later", molto gradevole da leggere perché racconta una storia vista con gli occhi di un ragazzino, Jamie Conklin, figlio di una agente letteraria, Tia, che vive da single e che non vuol dirgli chi sia suo padre (il fatto che Tia sia lesbica e conviva con una donna, la poliziotta Liz, suscita in effetti delle domande in proposito). Trattandosi di King, naturalmente c'è un elemento fantastico: Jamie ha il dono di vedere i morti, dai quali però non resta turbato, a differenza del protagonista de "Il sesto senso", Cole. I fantasmi non spaventano Jamie, che parla con loro con naturalezza: si accorge che persistono per poco tempo nel nostro mondo, prima di svanire non si sa dove, e se interrogati da chi li può vedere (non si sa quanti ne abbiano la capacità) rispondono sempre dicendo la verità: la capacità di mentire sembra caratterizzare soltanto i vivi. Così, la vicina di casa appena defunta rivela a Jamie dove ha nascosto i propri gioielli, perché ne venga informato il marito. Ma anche uno degli scrittori di cui Tia è l'agente, vittima di un infarto prima di aver completato l'ultimo libro di una serie di successo, ne detta (o quasi) la trama a Jamie in modo che la madre porti a compimento l'opera. Il gioco si complica allorché Liz, la poliziotta, chiede l'aiuto del ragazzino per scoprire dove Therriault, un bombarolo morto suicida, abbia piazzato il suo ultimo ordigno. E' proprio Therriault a infrangere la consuetudine per cui i fantasmi svaniscono in fretta: lui, no. Comincia a perseguitare Jamie. Il quale deve fare i conti anche con Liz, che si rivela corrotta e vuol servirsi del ragazzo per mettere le mani su una partita di droga. Insomma, la serenità con cui il giovane Conklin guardava il mondo (dei vivi e dei morti) si infrange contro l'inevitabilità del male: crescere significa rendersene conto. La morte dello zio Harry, infine, permette a Jamie di porre al suo fantasma la domanda cruciale: chi è suo padre? La verità, scopre il ragazzo, costa cara. Un King forse minore, perché da premesse molto intriganti non si arriva a un finale in crescendo, come in "It", ma del resto il tono del romanzo è quasi (volutamente) minimalista: Jamie convive con il suo dono paranormale così come convive con sua madre, impegnata a risolvere i problemi di madre single con un figlio da mantenere, e i guai che derivano dal suo potere sono considerati da King alla stregua dei turbamenti e delle angosce che caratterizzano la crescita di un normale adolescente. Come se vedere comparire dovunque lo spettro di dinamitardo con la testa maciullata faccia parte delle ansie di qualunque adolescente, chiamato a farci i conti e affrontarle. Il che, probabilmente, è vero.

venerdì 17 settembre 2021

GIROLAMO SAVONAROLA

 

 

 

 

Marcello Vannucci
GIROLAMO SAVONAROLA
Newton & Compton
cartonato, 1997
250 pagine


Di Girolamo Savonarola abbiamo già parlato in questo spazio, a proposito della biografia pubblicata da Roberto Ridolfi negli anni Cinquanta dello scorso secolo. Trovate qui la recensione di quel saggio (e un resoconto della vita del predicatore sedicente profeta):

https://utilisputidiriflessione.blogspot.com/.../vita-di...

Tuttavia, volendo leggere qualcosa di meno impegnativo (per brevità e tenore) si può ripiegare su questo saggio biografico del giornalista fiorentino Marcello Vannucci, esperto di storia della sua città. Il taglio dell'opera è più divulgativo rispetto a quello del Ridolfi, e l'approccio è quello di chi fa una cronaca non dico giornalistica ma sicuramente più discorsiva, il che va benissimo, intendiamoci, per un primo approccio alla figura del "frate e capopopolo" (come recita il sottotitolo). Per esempio, il quarto capitolo è dedicato interamente alla figura di Laudomia Strozzi, la donna che (forse) fu amata dal giovane Savonarola e dal cui rifiuto di sposarlo (qualcuno dice) nacque l'improvvisa decisione di Girolamo di chiudersi in convento. Di questa storia non si sa quasi nulla (Savonarola scrive di "aver rinunciato ad avere una donna"), Ridolfi la liquida in poche righe, Vannucci ci ricama sopra un capitolo che suscita curiosità. Interessanti sono le lettere del Frate e gli atti del processo (che si concluse con la condanna a morte) allegati in appendice da pagina 200 in poi.

domenica 5 settembre 2021

IL CACCIATORE DI AQUILONI

 

 


Khaled Hosseini
Fabio Celoni
Mirka Andolfo
Tommaso Valsecchi
IL CACCIATORE DI AQUILONI
Piemme
2011, brossurato
140 pagine, 9.90 euro


Khaled Hosseini, scrittore statunitense di origine afghana, scrisse "Il cacciatore di aquiloni" nel 2003: fu un esordio di grande successo. Si tratta in effetti di un romanzo coinvolgente ed emozionante che mette a confronto società e culture diverse, narrando una storia di sentimenti forti, contrastati e contrastanti, intessuti con fatti storici reali. Il successo è stato ripetuto e confermato dai titoli successivi dello scrittore.
Ambientato negli States, in Pakistan e in Afghanistan, racconta la storia di due ragazzi, Amir (di etnia pashtun) e Hassan (di etnia hazar), sullo sfondo di drammatiche vicende che prendono il via a Kabul nel 1970, quando la città era libera (pur con tutte le contraddizioni del caso). Hassan vive come servitore nella casa del padre di Amir, il vedovo Baba, ma a dispetto della diversa condizione sociale i due sono grandi amici, nonostante la gelosia del pashtun verso le attenzioni di Baba per il giovane hazar e il senso di colpa di Amir per la morte (di parto) della madre. Si scopre poi che le premure del padre verso Hassan hanno una spiegazione (ma rivelare quale sarebbe spoilerare). Il titolo del romanzo deriva da un gioco molto in voga tra i ragazzi di Kabul in quegli anni: non far volare di più e meglio i proprio aquiloni, ma impossessarsi di quelli degli altri dopo aver tagliato il filo degli avversari. Ma se gli avversari sono bulli violenti e più grandi che non accettano la sconfitta si può andare incontro a grossi guai: a pagarne le conseguenze è Hassan, a cui, un giorno, si deve la vittoria di Amir. Il giovane hazar viene picchiato e addirittura violentato dalla banda del bieco Assef, che poi diventerà, anni dopo, un feroce capo talebano. Lo stupro di Hassan provoca una strana reazione in Amir, che cade vittima dei sensi di colpa per non essersi esposto in soccorso dell'amico, e fa in modo (inscenando un furto) di farlo allontanare dalla casa del padre. Gli eventi precipitano: nel 1981, in seguito all'occupazione russa, Baba e il figlio si trasferiscono negli Stati Uniti, attraversando le difficoltà di una difficile integrazione. Si susseguono gli eventi della vita: il tormentato Amir, che ha perso le tracce di Hassan, si sposa, Baba muore di cancro. Nel 2001, però scopre che il suo vecchio amico è stato ucciso, con sua moglie, in circostanze drammatiche (mentre continuava a far la guardia alla casa di Baba, fedele come sempre), dai talebani che hanno preso il potere a Kabul. E' rimasto un orfano, Sohrab. Hamir capisce che per pagare il debito che ha con Hassan deve sottrarre il bambino ai talebani e portarlo in Occidente. Si imbarca così in una rischiosissima missione di recupero che riporta a Kabul, dove si trova faccia a faccia con Assef intento, con i suoi, a lapidare una donna, rimasto lo stupratore di bambini che era. Una storia che strizza lo stomaco.
Dopo aver pubblicato il romanzo in Italia nel 2004, Piemme pubblica nel 2011 anche "la" graphic novel (così c'è scritto il copertina, al posto di "il"), attribuendo sulla cover l'opera a Fabio Celoni (disegni) e Mirka Andolfo (colori) e citando solo all'interno lo sceneggiatore Tommaso Valsecchi. L'operazione è felice, la trasposizione a fumetti riuscita, anche se (come si dice di solito dei film), "era meglio il libro". Sarebbero servite molte pagine in più, come capita spesso in questi casi. Ma il fumetto che ne è venuto fuori è efficace sia nei testi, che nei disegni, che nei colori.

venerdì 3 settembre 2021

LADRI DI TEMPO




Dean R. Koontz
LADRI DI TEMPO
Urania (Mondadori)
1973, brossurato
150 pagine, 350 lire


Dopo aver letto nel 1985, su un numero speciale di “Urania”, il terrificante romanzo “Phantoms!", pubblicato negli USA nel 1983, mi sono ripromesso di tenere sempre d’occhio il suo autore, Dean R. Koontz, che mi parve subito un fuoriclasse. Così è stato, al punto che nei miei scaffali i libri del prolificissimo Koontz contendono il posto a quelli di Stephen King, un altro che ne sforna in continuazione, e al quale può essere accostato, premesso che King resta comunque il numero uno. “Phantoms!” ha dei punti in comune con il kinghiano “It”, scritto tre anni dopo. Ci sono somiglianze anche nelle biografie dei due autori, entrambi del Nord-Est americano, con alle spalle adolescenze difficili e problemi economici, entrambi con al fianco una grande moglie. Nel caso di Koontz, lei si chiama Gerda: il marito a un certo punto le propone un patto, quello di mantenerlo per cinque anni mentre lui, abbandonato l’insegnamento in una High School, prova a sfondare come scrittore. Se non ci fosse riuscito, avrebbe rinunciato al suo sogno, appunto quello di vivere scrivendo. Gerda accetta, e il sogno di Dean si avvera (al punto che lei ha finito per farle da agente e amministratrice). Il primo romanzo di Koontz (che ha usato anche parecchi pseudonimi), è il fantascientifico “Jumbo-10, il rinnegato”, datato 1968, pubblicato in Italia nel 1969, su “Urania”: dopo secoli di guerra interplanetaria tra i Romaghin e i Setussi, un “uomo tank” si ribella e si schiera dalla parte dei Muties, i mostri reietti senza patria. Date queste premesse, quando ho visto su una bancarella una copia di un altro “Urania”, il n° 620 del giugno 1973, “Ladri di tempo”, scritto sempre da Koontz, me ne sono subito impadronito, nonostante le cattive condizioni. Fruttero & Lucentini, i due curatori dell’epoca, avevano selezionato un romanzo del 1972, “Time Thieves”, che occupa però solo le prime ottanta pagine del libro (le successive settanta ospitano rubriche e un racconto di un altro autore, “Musica nello spazio”, del veterano Stephen Tall). Quindi si tratta di un romanzo breve, a meno che “Urania (cosa, purtroppo, possibilissima) non abbia effettuato dei tagli. “Ladro di tempo” ha comunque la struttura essenziale di un telefilm, di quelli della serie “Ai confini della realtà”, a cui senza dubbio si ispira. Solo due personaggi (almeno quelli umani), Pete Mullion e la moglie Della, e un mistero destinato a risolversi attraverso un percorso da brividi ma senza contorsioni. Il protagonista si ritrova nel garage di casa, a bordo della propria auto con il motore acceso, e si rende conto di non ricordare cosa gli è accaduto, non ha memoria della strada fatta per rientrare né da dove venisse. Quando la moglie lo vede, trasecola: Pete era scomparso da dodici giorni! Sottoposto a visite mediche, il marito risulta perfettamente sano. Lo si ritiene vittima fu amnesia, resta il mistero di dove sia stato, dove abbia dormito e mangiato. Mistero che si infittisce quando Pete si accorge di essere seguito da personaggi apparentemente umani ma che poi si rivelano robot e di aver acquisito la facoltà di leggere nella mente degli altri e poter loro trasmettere i propri pensieri. Spoiler: dietro tutti ci sono degli extraterrestri, di cui Pete ha scoperto lo sbarco sul nostro pianeta e che per cancellare dalla sua mente il ricordo dell’incontro ravvicinato hanno manipolato la sua mente. Il finale è aperto perché i nuovi poteri di cui Mullion si scopre dotato possono essere trasferiti ad altri uomini cambiando la storia dell’umanità. Vista la brevità e la, tutto sommato, essenzialità della trama, ma anche la semplicistica raffigurazione degli alieni (appunto da fantascienza da B-Movie o da telefilm anni Cinquanta e Sessanta), un romanzo davvero minore di Koontz.