lunedì 30 novembre 2020

L'ISOLA DI ARTURO

 
 

 
 
Elsa Morante
L'ISOLA DI ARTURO
Einaudi
brossurato
398 pagine, 13 euro


Se "La Storia", il capolavoro di Elsa Morante di cui ci siamo già occupati, datato 1974 e ambientato durante gli anni della Guerra, mostra come i grandi eventi scorrano come macine da mulino sulla pelle dei più umili e dei più deboli, e la Storia occorra raccontarla dal livello della strada, nell'altro grande romanzo della scrittrice romana (1912-1985), "L'isola di Arturo", collocato idealmente negli anni Trenta, le vicende internazionali sono assenti, e tutto si svolge in un microcosmo, non soltanto quello di un'isola minuscola, Procida, quanto piuttosto quello interiore di un singolo personaggio, a cui ogni accadimento è riferito. Pubblicato nel 1957, vinse il Premio Strega, fu un grande successo destinato a durare nel tempo fino ai giorni nostri, e ne venne tratto un film nel 1962. Sicuramente si tratta di un romanzo fondamentale, la cui lettura ipnotizza e commuove, raccontato in prima persona dal protagonista, Arturo Gerace, a distanza di anni, quando, già maturo, e senza che quasi nulla ci dica della sua situazione da adulto, rievoca i ricordi della propria infanzia e della propria progressiva crescita, dalla nascita fino ai sedici anni. Il linguaggio del narratore, consapevole ed elaborato, è quello di chi sembri parlare di un altro, senza indulgenze né autoassoluzioni: si tratta di un racconto che mostra un unico punto di vista, quasi solipsistico. Si potrebbe parlare di romanzo di formazione, visto che segue il percorso di maturazione di un ragazzo, ma in realtà è una specie di ricostruzione a ritroso della propria storia. Arturo è figlio dell'enigmatico Wilhelm Gerace, figlio di un procidano e di una donna tedesca, vissuto in Germania con la madre fino all'adolescenza e poi, riconosciuto dal padre e accolto nella sua casa di Procida, dove nel frattempo ha raggiunto un certo benessere economico. Alla morte del genitore, Wilhelm, diverso da tutti gli abitanti dell'isola perché biondo e teutonico nei lineamenti, non solo eredita certi suoi possedimenti, che gli permettono di vivere di rendita, ma riceve un'altra eredità, la grande casa, un ex monastero addirittura, di proprietà di un ricco e bizzarro misogino, Romeo, detto l'Amalfitano. Costui disprezza le donne e accoglie nella sua dimora, organizzando feste e ritrovi, soltanto ragazzi e giovani, al punto che l'abitazione viene soprannominata "la casa dei guaglioni". Il fatto che Romeo la lasci a Wilhelm, divenuto il suo prediletto, indica (la cosa appare chiara senza che mai la si espliciti) il tipo di relazione che l'amalfitano stringeva con i guaglioni che frequentavano la sua casa. Divenuto proprietario del vecchio convento, il biondino lo lascia tuttavia andare in malora, limitandosi a occuparne poche stanze abbandonando il resto al degrado e alla sporcizia. Sposa comunque una ragazza giovanissima (sedici anni, all'epoca, era la normale età perché una donna si maritasse) che, condotta nella Casa dei Guaglioni, muore di parto mettendo al mondo Arturo. Il bambino ha per balia un giovane, Silvestro, chiamato dal padre, misogino al pari di Romeo, ad allevare il figlio, di cui praticamente si disinteressa. Wilhelm, infatti, lascia l'isola per settimane, a volte per mesi, andandosene non si sa dove, e facendo ritorno senza preavviso, mai dando notizie di sé. I suoi soggiorni a Procida sono sempre brevi, una smania interiore lo spinge a ripartire. Silvestro si prende cura di Arturo per qualche anno, insegnandogli a camminare, a parlare, a scrivere e a leggere. Poi, chiamato a fare il servizio militare, si trasferisce sul continente e il bambino impara a cavarsela da solo. Wilhelm si preoccupa solo di prendere accordi perché un contadino, Costante, porti da mangiare al ragazzino durante le sue frequenti assenze, dopodiché Arturo vive in perfetta solitudine. Non viene neppure mandato a scuola. Per fortuna, si istruisce da solo leggendo e rileggendo i libri della piccola biblioteca dell'amalfitano. Poiché il padre disprezza i procidani, anche lui se ne tiene lontano e conduce giochi solitari fra gli scogli, sulla spiaggia, a bordo di una piccola barca con cui affronta il mare da solo. E' una sorta di Pippi Calzelunghe, con il padre il viaggio per mare, senza però neppure l'amicizia di Annika e Tommy. Al posto della scimmietta, la cagna Immacolatella, che lo segue dovunque. Se i protagonisti de "La Storia", Ida Ramundo e suo figlio Useppe, sono molto credibili, calati appunto nella realtà, la solitudine di Arturo è più difficile da concepire: viene da pensare che un bambino non possa crescere in quello stato di abbandono, e che, al di là del romanzo, un Arturo in carne e ossa avrebbe fatalmente cercato la compagnia dei suoi coetanei e ricevuto qualche cura dagli abitanti dell'isola. Tuttavia, alla Morante serve un ragazzino che, come la statua di Condillac, impari tutto da solo, sia autoreferenziale. Così come nulla ci dice dell'omosessualità di Romeo, la scrittrice sorvola anche sulla maturazione sessuale di Arturo, il quale non scrivemniente delle proprie pulsioni adolescenziali: a un certo punto lo vediamo, quindicenne, diventare amante di una giovane vedova che gli fa da nave scuola, senza che ci sia stato un avvicinamento al gran passo. Anche in questo caso, l'autrice trascura questo aspetto perché gli preme puntare le sue attenzioni sul turbamento di Arturo di fronte a un'altra donna, Nunziata, la seconda moglie che Wilhelm di punto in bianco porta a Procida di ritorno da uno dei suoi viaggi. Anche in questi caso, una ragazzina: una giovanissima napoletana di povere condizioni. E' lei, il vero grande personaggio del romanzo. Ricca di sfumature, devota, saggia, paziente, erotica oltre ogni dire nonostante la sua castigatezza, è la quintessenza della donna: irrompe nella vita di Arturo, sconvolgendola perché il ragazzo cresciuto senza una madre e senza figure femminili attorno, si trova di fronte il mistero della femminilità. Non sa gestirlo, si ammala di gelosia perché viene a spezzare l'equilibrio fra lui e suo padre, prima; poi, quando la matrigna mette al mondo Carmine, un fratellino, vede quante attenzioni una madre è in grado di dare a un figlio, e c he lui non ha mai avuto. Traumi come cannonate. Di come trattare le donne, Arturo ha il solo esempio di Wilhelm, che le disprezza e le maltratta, e che non gli ha mai dato nessuna educazione sentimentale. Anche il ragazzo, perciò, tratta Nunzia in malo modo, nonostante ne sia irresistibilmente attratto, al punto da finire per innamorarsene. Per quanto il padre sia, agli occhi del lettore, una figura ambigua, detestabile, perfino odiosa, agli occhi di Arturo lui è un eroe, un idolo, una divinità. Il ragazzo si immagina che viaggi per il mondo compiendo imprese favolose e sogna il giorno in cui potrà partire con lui. Se c'è una cosa che il padre, invece, non intende fare, è proprio occuparsi del figlio, nonostante questi viva in costante attesa del piroscafo che lo riporti a Procida. Ma dove va, Wilhelm Gerace, quando sta per mesi lontano? Cosa fa? Alla fine lo si capisce, e lo capisce anche Arturo, allorché sente il soprannome con cui lo chiama Tonino Stella, un giovane amante: Parodia. Secondo Stella, il padre di Arturo non è mai andato più lontano di Napoli, limitandosi a girare intorno al Vesuvio in cerca di compagnie maschili. La maturazione del protagonista, che segna la fine del romanzo, è segnata dalla fine dell'epoca dei sogni e dell'idealizzazione dalla figura pantera, dall'abbandono dell'infanzia, l'isola, verso la vita reale, rappresentata dal continente.

domenica 29 novembre 2020

IL ROBOT CHE LEGGEVA LE BOZZE

 

 
Isaac Asimov
IL ROBOT CHE LEGGEVA LE BOZZE
Mondadori
brossurato, 1992
200 pagine, 10000 lire


Questo aureo e agile libretto ha la caratteristica di proporre, molto probabilmente pensando a una fruizione scolastica, tre racconti sui robot di Isaac Asimov, maestro indiscusso del genere, sia nella traduzione italiana che nella versione originale, testo a fronte, in inglese. Questo permette di valutare anche l'aspetto stilistico e linguistico dell'opera del Buon Dottore, immediato ma tuttavia pieno di sottigliezze, di sfumature ironiche, di neologismi. Più che le descrizioni predominano i dialoghi, sempre brillanti ed efficaci, attraverso i quali non soltanto si esprimono e si discutono concetti, ma anche si descrivono fatti, ambienti e personaggi. I tre racconti scelti da Giuseppe Lippi e Gianna Lonza (curatori del volume) sono sicuramente significativi. Il più notevole è senza dubbio "Che tu te ne prenda cura", vero e proprio testo da meditazione che porta alle estreme conseguenze le implicazioni delle Tre Leggi della Robotica, ormai diventate patrimonio dell'Umanità. Tutto viene raccontato attraverso dei dialoghi: fra uomini, fra uomini e robot, e fra i robot stessi. Infatti, George Dieci, un androide programmato per riflettere e trovare soluzioni, di fronte al problema di come poter superare l'atteggiamento antiscientifico dell'opinione pubblica e la diffidenza verso i robot, chiede di potersi confrontare con un suo simile, George Nove, discutendone con lui. E, insieme, i due George non soltanto suggeriscono la risposta alla domanda, ma si rendono conto di una falla nelle Tre Leggi che porterà inevitabilmente i robot a divenire superiori agli esseri umani, se questi non se ne accorgeranno. Il racconto che dà il titolo all'antologia, "Il correttore di bozze", ci permette di fare alcune considerazioni. Si parla, essenzialmente, di un robot chiamato Easy che viene utilizzato in una Università per sollevare gli insegnanti dal lavoro pratico di dover stilare relazioni e correggere le bozze dei loro scritti, ricavando più tempo per le loro ricerche e quindi per lo sviluppo del sapere. Colpiscono alcune cose: innanzitutto, l'anno in cui Asimov ambienta il racconto: il 2033. Secondo me, ha sbagliato di poco. Poi, il monopolio della robotica da parte di una società, la US Robots and Meccanica Men Corporation, che potrebbe assomigliare alla Apple o alla Microsoft o a qualche loro concorrente asiatica (non è detto che da qui al 2033 il numero sia ridotto): comunque sia, la previsione è di grandi corporations che fanno lavoro di lobbing pressioni sui governi e non su piccoli produttori diffusi. La capacità di correggere le bozze, controllare i dati, suggerire alternative anche stilistiche sui testi, già alcuni computer ce l'hanno, indipendentemente dalla loro forma umana (i robot di Asimov, in genere sono androidi: così possono lavorare negli spazi fisici progettati per il corpo dell'uomo). C'è infine, di nuovo, la resistenza di tipo antiscientifico posta dall'opinione pubblica (recepita dai legislatori) verso l'innovazione tecnologica, e l'ostilità anche di gran parte del mondo accademico e intellettuale. Fantastico il personaggio della robopsicologa Susan Calvin, protagonista dei racconti di "Io, robot". Unico dubbio: si parla ancora di libri di carta. Easy legge dei volumi sfogliandoli, velocissimamente e senza danni, con le dita. E' vero, però, che nel 2033 ci saranno (si spera) ancora le biblioteche con i tomi cartacei e dunque un robot che debba lavorarci sopra è meglio che abbia le mani. L'ultimo dei racconti, brevissimo, è "Il migliore amico dell'uomo". Un ragazzino ha, da tempo, un suo cane robot, Robotolo (Robutt in originale) programmato per essere un cucciolo adorabile, far giocare il bambino e nello stesso tempo sorvegliarlo. A un certo punto i suoi genitori decidono di comprargli un cane vero. Secondo voi, che reazione avrà il figlio? Immenso Asimov, in ogni caso.

sabato 28 novembre 2020

SIMON & KIRBY THE GOLDEN AGE VOL.1

 

 


 

Jack Kirby
Joe Simon
SIMON & KIRBY
THE GOLDEN AGE VOL.1
Panini Comics
cartonato - 2020
450 pagine - 39 euro

In principio, fu la Timely. Prima della Marvel, intendo: negli anni Quaranta fu con questa etichetta che Joe Simon e Jack Kirby crearono Capitan America, che a Seconda Guerra Mondiale appena iniziata partì per combattere i nazisti e Teschio Rosso. Ma non ci fu soltanto Cap: i fumetti (d'altri tempi) dei due autori presentarono versioni prototipiche della Torcia Umana (un robot in grado di accendersi e volare), della Visione (una sorta di fantasma fatto di fumo), di varue tipologie di superoroi, come La Maschera Ardente. Joe Simmons fu il primo editor della Timely, ma anche sceneggiatore e disegnatore pronto a dirigere e coadiuvare l'incredibie talento di Kirby, Insieme i due realizzavano storie a ciclo continuo e a rotta di collo, spesso improvvisando ma sempre riuscendo a essere divertenti, efficaci e incredibilmente creativi, pur nella ingenuità (agli occhi dei lettori di oggi) delle prime trame. Quando, negli anni Sessanta, dalla Timely nacque la Marvel, Stan Lee aveva già tutta una serie di modelli da seguire per aggiornare gli eroi dotandoli di superpoteri tanto quanto di superproblemi. Questi volume, il primo di una serie dedicata alla produzione Timely, mostra quanto Kirby fosse già talentuoso anche nella sua fase più acerba, e come si siano evoluti il suo segno e la sua capacità di affabulazione. Al di là del valore storico, il ponderoso tomo (stampato più che bene) può servire anche a prendere posizione nella stucchevole diatriba riguardante la paternità dell'universo Marvel: da attribuirsi a Jack Kirby, o a Stan Lee? Stucchevole perché sarebbe sbagliata l'una e l'altra opzione. I geni al lavoro furono due, e interagirono.

venerdì 27 novembre 2020

ULTIMA GENESI

 


 

Octavia Butler

ULTIMA GENESI
Urania Mondadori
brossurato - 1987
192 pagine, 3500 lire


Octavia Butler, oltre a essere stata una scrittrice di fantascienza donna, era anche una scrittrice di fantascienza di colore (scrivo "era" perché è morta nel 2006, a soli 60 anni). Forse per questo c'è, in "Ultima genesi", una scrittura molto "femminile" e una trama decisamente insolita, oggi diremmo "inclusiva", Già, perché gli alieni con cui entra in contratto Lilith Yyapo, giovane donna terrestre sopravvissuta a una catastrofe (autodistruttiva) che ha quasi portato all'estinzione il genere umano, non intendono invadere la Terra, ma ripopolarla fondendo la nostra specie con la loro. Duecento anni dopo la fine del mondo, Lilith si risveglia a bordo di una astronave extraterrestre assolutamente insolita (essa stessa una forma di vita), dove gli Oankali (così chi chiamano gli alieni) l'addestrano per trasformarla in una sorta di portavoce presso gli umani superstiti che giacciono in animazione sospesa, dopo essere stati salvati (come era accaduto a lei). La donna è chiamata a scegliere chi risvegliare, mettendo insieme una cinquantina di individui, farne un gruppo coeso e tornare alla loro guida sulla Terra, dove l'umanità dovrà ricominciare da capo. Ma non è facile convincere gli zucconi terrestri a crederle, a formare una squadra, a non cercare di fuggire ognuno per proprio conto, a non uccidersi a vicenda, soprattutto dopo la rivelazione che in alcuni di loro sono state indotte mutazioni genetiche con lo scopo di permettere l'accoppiamento fra terrestri e alieni, perché si crei una nuova specie ibridata. Affascinanti le pagine, appunto, in cui si descrivono le unioni, fisiche e mentali, tra i sessuati (noi) e gli asessuati (loro).


giovedì 26 novembre 2020

ALAN FORD INDEX ILLUSTRATO

 
 

 
Moreno Burattini
Francesco Manetti
ALAN FORD INDEX ILLUSTRATO 1-300
Paolo Ferriani Editore
brossurato - 1998
178 pagine -  lire 32.000


Questa volta recensisco un mio libro, di cui vado orgoglioso, scritto con Francesco Manetti e straordinariamente arricchito dalla grafica di Paolo Ferriani, editore del volume. Purtroppo non si tratta di un testo recente, ma del 1998, mai più ristampato né aggiornato (bisognerebbe farlo) e praticamente introvabile. Tuttavia, resti la testimonianza della sua esistenza.
Il volume è stato presentato al pubblico sabato 16 maggio 1998,  alle ore 10, nell’ambito di Expocartoon presso la Fiera di Roma, presenti i due autori e l’editore. L’opera propone la schedatura tecnica e critica del più noto fra i personaggi creati dallo sceneggiatore Max Bunker (nome d’arte del milanese Luciano Secchi), appunto Alan Ford, testata storica del fumetto italiano, che ha festeggiato nel 2019 il traguardo dei cinquanta anni. Ogni singolo albo, speciale e supplemento della collana è stato brevemente analizzato e sviscerato dai due autori, mettendone in luce le note salienti e gli agganci con la realtà storica, sociale e culturale degli ultimi trent’anni di storia, nazionale e internazionale. Il titolo indica il limite dei primi trecento numeri, mentre in verità gli albi recensiti sono 330 (più gli extra). In appendice, un dizionario dei personaggi notevoli con tutte le loro apparizioni.
Qui di seguito prefazione (firmata a quattro mani, dal sottoscritto e da Manetti), che riporto quasi integralmente:  «Ogni tanto capita, a noi veterani bunkeriani, di sghignazzare come matti (e chi ci osserva per matti ci prende di sicuro) per ore e ore ricordandoci e raccontandoci a vicenda immortali sequenze delle avventure del Gruppo TNT, nelle quali gli scalcinati agenti (poco) segreti al servizio di Sua Eccellenza inciampano in ospedali talmente alieni al concetto di salute pubblica che i degenti accoglierebbero la malasanità come un lusso insperato, in bettole orrende e lerce con osti degenerati che mescono vini fatti con chiodi arrugginiti e in alberghi diroccati dove i camerieri sono meno servizievoli dei topi. Il semplice evocare dalla memoria tali scene ha il potere di cancellare per lunghi, spassosi e liberatori momenti le turpitudini della vita reale, fatta di grancasse suonate in onore del regime, di burocrazia, di fisco, di arroganza e di tribunali. Qui sta la magia di Alan Ford. La magia di creare dal nulla - da un sapiente impasto di idee, di arte, di carta e di inchiostro - un universo alternativo, un continuum parallelo e differente dal nostro, uno specchio distorto della nostra Terra, dove l'unica legge severamente applicata e rigorosamente osservata dai suoi abitanti è quella dell'Infinita Disgrazia. Nel cosmo alanfordiano la gente soffre molto più di noi, si arrovella inutilmente per sbarcare il lunario, combatte un guerra totale e impari contro un Fortuna cieca e una Sfiga che ci vede benissimo, contro un Fato avverso sempre vincente; e questo patire altrui esorcizza il nostro patimento e ci fa stare sadicamente bene. E' qualcosa che va ben oltre il "mal comune mezzo gaudio". E' magia, o macumba, non c'è dubbio. E un incantesimo indissolubile addirittura impedisce al lettore di collezionare seriamente Alan Ford, se per collezionismo serio intendiamo soprattutto il sacro rispetto per l'oggetto cartaceo. Paradosso? No, è davvero impossibile collezionare Alan Ford! Le nostre raccolte, complete e tutte con pezzi originali, fanno senso a vederle. I contenuti degli albi sono talmente magnetici ed esilaranti che le copertine e le pagine si logorano e si sbriciolano a causa delle continue riletture. Alan Ford non è nato per essere letto una sola volta e poi messo lì. Alan Ford strega il lettore con un filtro d'amore e lo costringe a farsi perennemente sfogliare. Ecco allora la necessità di una doppia raccolta: una serie da leggere (magari una ristampa) e una da conservare. Se questa non è magia… I nomi dei saggi uomini medicina che esercitano questa potentissima stregoneria, guidati dal capo sciamano Max Bunker (Magnus, Paolo Piffarerio, Dario Perucca, Warco e così via), sono noti e importanti, certo, ma il mondo che hanno plasmato, con aggiunte continue e sostanziali variazioni di rotta, a partire dal "caldo" 1969 va ormai avanti con le sue gambe, continuamente autorigenerandosi, e non ha quasi più bisogno dei suoi autori. Il mondo di Alan Ford sembra quasi che si scriva e si disegni da solo. E il merito è sicuramente della magia, e forse di un elisir di lunga vita. Come si spiega una risata lunga trent'anni?
Non si spiega. E' magia».

mercoledì 25 novembre 2020

LA SPECIALITA' DELLA CASA

 
 
 

Stanley Ellin
LA SPECIALITA' DELLA CASA
Oscar Mondadori
brossurato, 1973
354 pagine, 750 lire


Nel novembre del 1946, Stanley Ellin, trentenne aspirante scrittore ma ancora del tutto sconosciuto, inviò un proprio manoscritto alla redazione dell' "Ellery Queen's Mistery Magazine". Si trattava di un racconto intitolato "The kitchesn at Robinson's". Frederick Dannay e Manfred B. Lee, ovvero i due autori che si nascondevano sotto lo pseudonimo di Elley Queen, ne rimasero entusiasti e folgorati, anche se poi lo pubblicarono soltanto nel 1948, con il titolo di "The Specialty of the House", "La specialità della casa". Nella loro prefazione, i due curatori della rivista spiegano come il racconto ottenne uno straordinario successo e la redazione venne subissata di richieste perché venissero pubblicati altri scritti del giovane autore. Cosa che puntualmente avvenne, tanto che Ellin, che all'epoca viveva grazie al sussidio di disoccupazione e allo stipendio della moglie Jeanne ("una compagna assolutamente deliziosa"), riuscì a dedicarsi da lì in poi totalmente alla scrittura, fino al 1986, anno della sua morte. Anche se Ellin ha all'attivo una quindicina di romanzi, la sua fama deriva soprattutto dalle antologie dei suoi racconti, come questa proposta dagli Oscar Mondadori che raccoglie titoli contenuti originariamente in due sillogi americane. Perfezionista dei meccanismi logici e narrativi e della parola, lo scrittore newyorkese (nacque, visse e morì a Brooklyn, per la precisione) viene descritto come metodico e lentissimo nel cesellare le due pagine. I venti racconti raccolti ne "La specialità della casa e altre storie del mistero" sono quasi tutti sorprendenti e inquietanti e ricordano, per tipologia, gli episodi della serie TV "Alfred Hitchcock Presents", alcuni dei quali furono realmente tratti dalle storie di Ellin. Presentando scenari americani, ambienti anni Cinquanta e Sessanta, e situazioni in cui la normalità quotidiana e domestica viene stravolta dall'imprevisto o dal cambio di prospettiva, i racconti non propongono veri e propri gialli, ma paradossi, casi del destino, rovesci della sorte che creano tensione e inquietudine, finali a sorpresa. C'è anche un paragone possibile con i racconti neri di Roald Dahl. Una lettura stuzzicante.

L'ULTIMA GENERAZIONE

 

 
Zeno Cavalla
L'ULTIMA GENERAZIONE
Clown Bianco
brossurato, 2008
190 pagine, 16.50 euro


Ai miei tempi l'Erasmus non c'era, e temo di essermi perso qualcosa. Il ritratto della generazione degli erasmini consegnatoci in questo libro Zeno Cavalla (di cui non ci viene detta l'età, ma che dalla foto in terza di copertina sembra di quella generazione anche lui) è assolutamente entusiasmante, se sarebbe piaciuto anche a voi, ai tempi dell'università, ammesso che non lo abbiate fatto, darsi alla pazza gioia lontano da casa. Il che non esclude che si riportino a casa anche dei risultati scolastici, ma non è degli esami che "L'ultima generazione" ci parla. Con una felicità di scrittura che accalappia, Cavalla racconta, nei panni  di un blogger che si fa chiamare Tropposexyperlavorare Z (migliaia di visite per seguire le sue gesta), di feste, party, sbronze, sesso, ragazze, amici, viaggi: "è il ricordo di un tempo in cui, bere, ballare e scopare come un coniglio mi bastava per essere felice", scrive. Il che, tuttavia, è un rimpianto eterno: il vagheggiamento degli anni in cui la vita era leggera. Tutti li abbiamo avuti, e ne abbiamo nostalgia. Peraltro, ballare, bere e scopare riesce a parecchi anche senza andare all'estero, però, ecco, l'Erasmus di Cavalla (che dipinge a tinte forti e provocatorie) è una sorta di Paese dei Balocchi.
Vanesio, sbruffone, convinto di essere una sorta di pornodivo irresistibile per le ragazze e pronto a passare da una all'altra come per farne collezione (aiutato in questo, pare di capire, dalla estrema facilità delle erasmine, specialmente le spagnole), a Z si perdona però tutto perché è ironico e colto (e usa la cultura come arma di seduzione, oltre che per sentirsi superiore) e perché davvero gliene succedono di tutti i colori. Il capitolo dedicato a un soggiorno a Londra a fare da dogsitter nelle settimane di assenza di una coppia partita per un viaggio, con la morta del cane e il furto del cadavere del medesimo messo in una valigia, è esilarante. Peccato che "L'ultima generazione" sia un romanzo aneddotico, e non strutturato con una trama che si dipana.

martedì 24 novembre 2020

HELGOLAND

 
 



 
Carlo Rovelli
HELGOLAND
Adelphi
brossurato, 2020
230, 15 euro


Helgoland è un'isola del Mare del Nord dove, nel 1925, il giovane studente Werner Heisemberg (aveva solo 23 anni, all'epoca) si era ritirato per combattere la sua allergia ai pollini (non ci sono pollini, su un'isola tanto freddo e rocciosa). Allievo di Max Born a Gottingen ma chiamato da Niels Bohr (non si confondano i due nomi) a lavorare con lui e uno staff di giovani menti a Copenaghen, Heisenberg a Helgoland aveva tutto il tempo che gli serviva per interrogarsi sui problemi che le ultime scoperte nel campo della fisica ponevano a tutti gli scienziati. Uno, in particolare, lo ossessionava: il salto delle orbite degli elettroni che ruotano attorno al nucleo atomico. Racconta il fisico: "erano più o meno le tre del mattino quando il risultato finale dei miei conti fu davanti a me. Mi sentivo profondamente scisso. Ero così agitato che non potevo pensare di dormire. Lasciai la casa e mi misi a camminare lentamente nell'oscurità. Mi arrampicai su una roccia a picco sul mare, sulla punta dell'isola, e attesi il sorgere del sole".  Heisenberg aveva trovato la soluzione del problema e gettato le basi della meccanica quantistica, cancellando anche, nel tempo stesso, il nostro concetto di realtà. Lo spiega bene Carlo Rovelli, fisico di fama internazionale, quando racconta di una sua passeggiata in riva al mare in margine a un congresso, assieme a un collega: i guardano le onde e si chiedono come sia possibile, come in effetti è, che tutto ciò che vedono non esista. Tutto è assurdo, parlando di quanti. Rovelli, con sincero entusiasmo, racconta gli sviluppi successivi della scoperta di Heisenberg, fino ai Nobel assegnati a lui, e a quasi tutti quelli che seguirono la sua scia, come Schrödinger, Pauli, Dirac. Oltre a spiegare i principi della nuova fisica, che si applicano solo a livello infinitesimale (così come visto dall'alto il mare può sembrare una tavola blu, ma scendendo si vedono le increspature), Rovelli racconta anche aneddoti gustosi, tra cui quello secondo il quale Schrödinger elaborò la principale delle sue teorie mentre era in una baita alpina con sua amante (c'era e non c'era). Nella seconda parte del saggio, l'autore si dilunga sulle teorie filosofiche che giustificano e sostengono i principi della quantistica, come la concezione della realtà come percezione. "La realtà non è come ci appare" è del resto il titolo di un precedente libro dello scienziato, di cui ci siamo già occupati in questo spazio.

lunedì 23 novembre 2020

CAMERA CHIUSA n° 13

 
Rufus King
CAMERA CHIUSA n° 13
I Classici del Giallo Mondadori
brossura, 1979
210 pagine, 1000 lire


Mai sottovalutare i buoni, vecchi Classici del Giallo Mondadori. Questo romanzo di Rufus King (1893-1966), del 1946 è una autentica chicca, non a caso scelta da Fritz Lang per girare, nel 1947, il film "Dietro la porta chiusa". La caratteristica principale di "Camera chiusa" n°13 è che manca del tutto di scene di violenza, e persino di cadaveri. Non c'è neppure un caso su cui indagare. La protagonista, Lily Constable, ha sposato il vedovo Earl Rumney, ma il sospetto che la prima moglie Eleanor possa essere stata da lui assassinata per impossessarsi dei suoi beni non viene tirato in ballo se non molto avanti nella narrazione. Tuttavia anche Lily è ricca e del suo denaro Earl sembra aver bisogno per sostenere il giornale di cui è proprietario. Possibile che mister Rumney sia una sorta di Barbablu che uccide le proprie mogli? Lily è forse in pericolo? Il sospetto si fa sempre più concreto allorché la nuova consorte si decide ad aprire una misteriosa stanza chiusa, a cui il marito le ha vietato l'ingresso. Ci sono del resto molte altre stranezze nel maniero dei Romney, abitato da altri membri della famiglia (il figlio, la sorella, il cognato, una strana segretaria, un bizzarro musicista). E stranissima è la passione per i delitti più cruenti della cronaca nera che anima Earl, al punto da spingerlo a ricostruirne gli ambienti in una insolita collezione di "stanze del delitto". Ma, ripeto, nessuno muore fino alle pagine finali. Solo che non va come ci si aspetta... la tensione è palpabile pagina dopo pagina.


domenica 22 novembre 2020

FLAUER

 
 
 

 
 
Michele Carminati
FLAUER
Sbam! Libri
brossurato, 2020
200 pagine, 15 euro


La benemerita collana degli Sbam!Libri, che presenta strisce  brevi storie umoristiche a fumetti, propone queste "mirabolanti avventure di un fiorellino di campo" a cui mi è stato chiesto di scrivere una introduzione. Eccola qui di seguito.

FIOR DA FIORE
di Moreno Burattini
 
E’ una verità universalmente riconosciuta, che un bravo autore di prefazioni, in possesso di un buon vocabolario, debba essere in cerca di frasi da citare. E con questa frase, le citazioni sono a posto, dovrete convenirne, se non siete pieni di orgoglio e pregiudizio. Il bravo autore di prefazioni deve anche dimostrarsi coltissimo, se no non si capisce perché abbiano chiamato proprio lui. E dunque ecco la dimostrazione di cultura: quella che state per leggere è una antologia di strip umoristiche con protagonista un fiore, e perciò è una tautologia. Non ci avete capito nulla, eh? Non me ne meraviglio. Dall’alto dei miei studi, mi abbasso a chiarire: “antologia” è una parola che deriva dal greco e significa, letteralmente, “raccolta di fiori”, il fior fiore, per intenderci. “Tautologia” è un’altra parola che deriva dal greco e significa: “dire la stessa cosa con due nomi diversi”. Quindi: se una antologia raccoglie il fior fiore di una strip con protagonista un fiore, si intorcina su se stessa tautologicamente.  Peraltro, oltre che dimostrare cultura, con questa prefazione dimostro anche coltura, intendendo la coltivazione del fiore medesimo. Non vi sfugga come stia facendo il verso ad Achille Campanile. Dimostrato dunque che sono abbastanza dotto per poter scrivere la prefazione che mi si chiede, passo ad argomentare qualcosa su “Flauer” e sul suo autore.
Quel che mi ha sempre meravigliato del magico potere dei disegnatori è come basti dargli un lapis in mano e dal nulla, anche con pochissimi elementi a disposizione, riescono a tirar fuori un mondo e a cominciare a raccontare storie. Tutto è evocato con pochissimi segni, anzi, più i tratti sono sintetici, più il lettore viene coinvolto dalla lettura, perché deve metterci del suo. Questo, ovviamente, se il disegnatore è bravo. Facciamo un esempio che tutti conoscono (non soltanto quelli colti come me): la Linea, creata nel 1971 da Osvaldo Cavandoli per una serie di spot pubblicitari della Lagostina, poi diventata anche un fumetto.  La genialità dell’autore fa sì che con una semplice linea bianca tracciata su uno sfondo nero si possano raccontare storie ricche di humor e di accadimenti. Il personaggio si muove come su un binario e incontra semplicemente degli ostacoli sul suo percorso, da cui scaturiscono una incredibile varietà di situazioni. Passiamo a un altro esempio. Forse ricorderete la striscia “B.C.”, disegnata dallo statunitense Johnny Hart a partire dal 1974: una strip con protagonisti un gruppo di cavernicoli sullo sfondo di un mondo preistorico appena abbozzato. All’autore andrebbe attribuito il Nobel della sintesi grafica, per come riesce a far immaginare un mondo che in realtà mostra appena e a realizzare le sue gag con pochi tratti essenziali, ma efficaci ed esilaranti. Tuttavia, potreste anche rammentare come, oltre ai personaggi umani, facciano parte del cast anche una tartaruga, un serpente, delle vongole, delle formiche, un formichiere, un sasso e un fiore. Ecco, appunto: un fiore. Ci sono parecchie strisce dedicate soltanto a un fiore che spunta dal terreno, che si guarda attorno e commenta ciò che vede. Al suo primo apparire, vede un sasso: “Ciao, sasso! Io sono un simbolo dell’amore! E tu cosa sei?”. Il sasso risponde: “Il simbolo di una manifestazione di protesta per le vie del centro cittadino”. Siamo così arrivati a un chiaro precedente del nostro Flauer.  Michele Carminati inserisce il suo lavoro in una tradizione di comics strip a cui appartiene anche, per esempio, il Lupo Alberto di Silver  (1973), e ne è a tal punto consapevole da citarlo in una serie di battute. Silver, del resto, è un altro a cui andrebbe attribuito lo stesso Nobel di Johnny Hart. Sull’esempio dei  cartoonist che abbiamo citato, e degli innumerevoli altri che lo hanno preceduto, sedimentando i loro influssi (tra cui sicuramente anche Cavezzali, Ciantini, Totaro), Carminati estremizza la sintesi al punto da voler giocare le sue carte su un fiore di campo, su cui è puntata la sua telecamera fissa, limitandosi a riprendere oltre a lui, unicamente i personaggi o gli elementi che entrano nell’inquadratura. E lo fa ricercando una sua cifra stilistica, a cui è giunto dopo essersi fatto le ossa con le pubblicazioni indipendenti della It Comics (una etichetta “indie”), vari albi di un personaggio umoristico chiamato Valgard (un indomito vichingo), una collaborazione con Don Alemanno per il fumetto “Jesus”. Ma anche, perfezionando il suo personaggio lungo un percorso di ben dieci anni, dato che il nostro Flauer fiorisce ininterrottamente dal 2010 e ha avuto anche alcune apparizioni in volume, tra cui una targata ComixRevolution (2011). Com’è nata la strip, ce lo racconta lo stesso Michele in questa esaustiva ricostruzione dei fatti: “Era una calda sera d’estate, in TV c’erano solo programmi spazzatura. Durante lo zapping incappai in un documentario sulla vita e la riproduzione delle piante; mi soffermai incuriosito dal tema e dalle immagini. Dopo ottanta minuti circa, il documentario terminò e capii di non essermi mai reso conto di quanto potesse essere noiosa la vita dei vegetali e (BUM!) ho avuto la visione di un fiorellino di campo tutto solo che si annoia a morte e che riassume il suo tedio in due semplici parole: che palle! Era l’agosto del 2010 e così iniziavano le straordinarie avventure di Flauer”. Dopodiché, anche il dotto autore di prefazioni non ha altro da aggiungere.

venerdì 20 novembre 2020

HORROR

 

 
 
Alfredo Castelli
HORROR
TUTTI I RACCONTI SCRITTI DA ALFREDO CASTELLI
Nona Arte
cartonato, 2019
230 pagine, 34.90 euro

In occasione del cinquantesimo anniversario della prima uscita di una importante rivista del panorama fumettistico italiano, "Horror" (durata soltanto tre anni, ma destinata a lasciare il segno), Nona Arte pubblica un volume celebrativo davvero bello da leggersi, sfogliarsi, guardarsi. Lo fa scegliendo di selezionare tutti i racconti a fumetti scritti per quella testata da Alfredo Castelli  che, con Pier Carpi, ne fu uno degli ideatori e realizzatori. Proprio lo stesso Castelli redige una lunga e illustratissima prefazione, "L'esperiento del dottor S.",titolo in cui la S. allude all'editore Gino Sansoni, che Alfredo aveva conosciuto già dal 1965 grazie ad Angela Giussani, creatrice di Diabolik, che ne era la moglie, Castelli infatti collaborava con le sorelle Giussani (l'altra, sorella della prima, era Luciana) con Scheletrino, personaggio umoristico che compariva in appendice alle avventure del Re del Terrore. Il nome per intero di Pier Carpi era Arnaldo Piero Carpi, dal 1961 direttore editoriale delle numerose case editrici che facevano capo al "Dottore", fanatico di esoterismo e tipo decisamente bizzarro (stando a quanto racconta Castelli, che ne fa uno straordinario ritratto affettuoso e critico al tempo stesso).  "Carpi era un appassionato cultore e studioso di tutto quanto riguarda la magia: all'epoca aveva già scritto parecchio materiale sull'argomento - scrive Alfredo Castelli ricordando il varo di quell'iniziativa editoriale - Per quanto mi riguarda ero un avido spettatore di film horror; leggevo regolarmente le riviste Creepy, Eerie e Famous Monsters e, spendendo un mucchio di soldi, ero riuscito a procurarmi alcuni numeri dei famosi EC Comics degli Anni '50; assieme a Marco Baratelli avevo già sceneggiato per Sansoni alcuni 'Classici a Fumetti' dedicati all'orrore: un Dracula disegnato da Sciotti, un Frankenstein disegnato da Montorio, una serie di racconti inediti sull'Uomo Lupo disegnati da Dauro".
I due, insieme, convinsero Sansoni a investire in una rivista a fumetti di "terrore, magia, incubo, mistero", e nel dicembre del 1969 apparve in edicola il primo numero di "Horror".
Si trattò di un azzardo, per diversi motivi: innanzitutto per il formato, in quanto fu scelto quello "di prestigio" del Linus di allora; poi per il prezzo: 300 lire che all'epoca era una somma abbastanza alta confrontata con la media delle altre pubblicazioni; poi per il tipo di approccio all'orrore proposto, di un certo livello e senza troppe concessioni all'effetto splatter gratuito e al macabro fine a sé stesso; infine, per la fiducia accordata a giovani autori italiani, dato che il materiale pubblicato veniva prodotto dall'editore e non acquistato all'estero. Non esistevano garanzie di sorta che il target di lettori interessati a una rivista del genere potesse essere abbastanza vasto da garantirne il successo economico.
Pier Carpi così scriveva nell’editoriale del primo numero: "Accadrà che il lettore si trovi di fronte a evasioni oniriche, spazi satirici, riproposte di temi classici. Non una strada, quindi, ma tutte le strade della fantasia. A cavallo tra una mitologia che ci pesa ancora sulle spalle e una mitologia che andiamo costruendo giorno per giorno senza accorgercene, le storie di Horror tentano di fare il solletico all'intelligenza. E non hanno limiti, tranne quelli infiniti degli autori. Non crediamo di dover aggiungere altro, per presentarci, se non le pagine che seguono. In ognuna di esse è ripetuta l'enigmatica domanda della Sfinge: chi siamo? Non lo vogliamo sapere".
I racconti proposti su Horror furono sempre di buona fattura: vi trovavano posto storie con protagonisti tolti di peso dalla letteratura dell'orrore (vampiri, licantropi e compagnia bella), e riduzioni a fumetti di racconti di Poe o Lovecraft, ma accanto a questi classici ecco dissacranti parodie e umoristiche smitizzazioni. Furono tentate per di più anche alcune ardite sperimentazioni nell'impostazione delle tavole, nell'uso del colore, nella tecnica narrativa.  Oltre  Castelli e Carpi, che furono autori di un gran numero di articoli e sceneggiature, collaborarono con Horror anche Marco Rostagno (una "scoperta" di Carpi, autore fra l'altro di tutte le copertine), Sergio Zaniboni (il più celebre disegnatore di Diabolik), Giovanni Cianti (che abbiamo poi rivisto all'opera su Ken Parker), Carlo Peroni (autore di storie umoristiche fra cui l'immarcescibile Zio Boris), Leone Cimpellin, Mario Uggeri, Giorgio Montorio e tanti altri. Oltre sessanta, a volerli contare tutti. Non solo: apparvero su Horror anche nomi del calibro di Albertarelli, Battaglia, Crepax, Bonvi, Magnus.
Horror partì con ventimila copie di venduto, che oggi farebbero fare i salti di gioia a qualunque editore. Ma per allora erano poche: la rivista era costosa e occorreva arrivare almeno a quota trentamila  per raggiungere il pareggio. Horror si assestò invece intorno alle venticinquemila copie. Forse Carpi e Castelli erano davvero in anticipo sui tempi:  l'orrore non era popolare come lo sarebbe divenuto in seguito e suscitava sospetto nei benpensanti. Il fumetto di qualità interessava pochi appassionati e i diritti per le vendite all' estero non bastavano a far quadrare il bilancio. Racconta Castelli: “Horror era pubblicato in Francia, Spagna e Germania, e James Warren aveva comprato delle storie per Creepy che però, per oscure ragioni, non pubblicò”.
La rivista chiuse i battenti con il numero 9/10 della seconda serie, datato ottobre 1972, e risorse per breve tempo con il nome di Supervip nel marzo dell'anno successivo chiudendo dopo soli 8 numeri nell'ottobre immediatamente seguente. Fino al 1974 ebbe vita la collana Horror Pocket che ripropose in volumi tascabili antologie delle migliori storie. Uno dei motivi della chiusura fu anche l'abbandono di Castelli, avvenuto nel 1971,che così spiega la sua scelta: "Lasciai Horror per incompatibilità di carattere con Pier Carpi. Lui era un uomo davvero geniale e molti suoi lavori dovrebbero essere recuperati. Professionalmente lo ammiravo molto, ma poi ho cominciato a non condividere gran parte delle sue idee politiche. A un certo momento il suo interesse per l'esoterismo era divenuto maniacale. Evocava vendette di Cagliostro contro chi non la pensava come lui". Il volume della Nona Arte è da divorare e le storie sceneggiate da Castelli sono tutti, per un verso o per l'altro, dei piccoli capolavori, perfino di una modernità sconcertante. Già in passato, agli inizi degli anni Novanta, la Acme aveva pubblicato una sua raccolta dal titolo "Dacci il nostro delitto quotidiano", ma si trattava di un brossurato (pur ben fatto) mentre questa è decisamente l'edizione definitiva.

mercoledì 18 novembre 2020

STONER

 

 
John Williams
STONER
Fazi
brossura, 2019
336 pagine, 10 euro


"Stoner" viene pubblicato per la prima volta nel 1965, poi una ristampa del 2003 scatena una specie di passaparola letterario e supera in breve le cinquantamila copie vendute. Bret Easton Ellis lo definisce "uno dei grandi romanzi americani del ventesimo secolo". A leggere, però, le prime dieci righe, viene da chiedersi il perché di tanto entusiasmo: "William Stoner si iscrisse all'Università del Missouri nel 1910, all'età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato di ricerca e ottenere un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido". In pratica, John Williams (1922-1994) riassume fin dall'inizio tutto il romanzo. Però, se solo si provano a rileggerle, ci si accorge che queste righe affascinano. Sono limpide, musicali, ipnotiche. Viene voglia di saperne di più. Perché la vita grigia del professor Stoner dovrebbe interessare qualcuno? Che cosa avrà fatto? Niente di speciale, assolutamente niente. Però, leggere la cronaca puntuale che John Williams ne fa è assolutamente irretente. Lo scrittore segue passo passo il suo protagonista e non narra niente che si svolga lontano da lui.  Ci consegna una sorta di piano sequenza. Stoner è assolutamente un brav'uomo, che come unica impresa si affranca dalla vita di suo padre e sua madre, contadini schiavi della loro arida terra, e, inviato a studiare agraria, si appassiona invece alla letteratura inglese, pagandosi gli studi con il suo duro lavoro. Una volta ottenuto un impiego e un magro stipendio, comincia a condurre una vita senza entusiasmi, accettando ciò che il destino ha in serbo per lui, così come i suoi genitori accettavano la pioggia o la siccità. Crede di innamorarsi, con moderazione, ma sposa la donna sbagliata, Edith, che gli rende la vita un inferno. Lui resiste a tutto, e quando un vero amore gli sconvolge l'esistenza, quello per la studentessa Katherine Driscoll, non ritiene di dover rompere il primo matrimonio, anche per non creare drammi alla figlia Grace. Con la stessa volontà di sopportare il destino, resiste anche al la guerra che, per motivi assurdi, gli muove per anni Hollis Lomax, un docente suo superiore nella gerarchia accademica. Fronteggia senza contrattaccare, resiste. Ecco, Stoner incarna la resistenza alla vita, la capacità di adattarsi, di non farsi travolgere, di piegarsi al vento come una canna che però non viene sradicata. Sempre restando fedele a una onestà di fondo imperturbabile. Dalla prima all'ultima parola la scrittura leggera di John Williams ci tiene avvinti alle pagine, senza proporci mai dei colpi di scena, solo facendoci seguire giorno per giorno la vita di un uomo qualunque che in fondo ci somiglia, perché non è un eroe, ma che ci insegna anche che il segreto è non farsi turbare, perché siamo di passaggio.

lunedì 16 novembre 2020

ZOMBIE WALK




Gianmaria Contro
ZOMBIE WALK
Odoya
brossurato, 2018
300 pagine, 18 euro


Se chiedete a Gianmaria Contro, tanto esperto di zombi da aver scritto questo saggio, un parere su "The walking dead", vi risponderà che si tratta di un epifenomeno. Vale a dire, più o meno, una manifestazione accessoria, che nulla aggiunge al fenomeno di cui si parla. In effetti, la serie TV si limita (pur nella complessità dei suoi intrecci) a riproporre la figura dello zombi della tradizione romeriana, accettandola senza modificarla. Ma il mito dei morti redivivi e assassini ha radici antiche, sia nelle leggende e nelle tradizioni dell'antichità, sia nelle credenze religiose di epoca medievale e moderna (al punto che perfino le figure di alcuni santi potrebbero esservi paragonate), sia nella letteratura e nelle arti figurative, fino ad arrivare al cinema. Riguardo alla filmografia zombesca, Contro premette subito la sua intenzione di non fornire una schedatura di film, tentando di farne un elenco completo cosa che si può rintracciare in centinaia (se non migliaia) di saggi e siti dedicati. Tuttavia fornisce numerose indicazioni. Per esempio, scopriamo che alla base della moderna concezione degli zombi c'è un libro del 1929, scritto da William Bueller Seabrook, intitolato "The Magic Island" e dedicato al voodoo haitiano. Non a caso anche una storia di Mister No ambientata ad Haiti ha per titolo "L'isola della magia", aggiungo io, notando che lo sceneggiatore di quel fumetto, Guido Nolitta (alias Sergio Bonelli) aveva già dimostrato di conoscere a fondo l'argomento nell'albo di Zagor "Zombi!", avendo molto probabilmente letto il saggio di Seabrook (lo dimostrerebbe anche il fatto che il capitano della nave che trasporta lo Spirito con la Scure nelle Antille si chiama appunto Seabrook). "The Magic Island" racconta della tradizione haitiana secondo la quale i sacerdoti del voodoo sarebbero in grado di risvegliare i morti e usarli come schiavi al loro servizio: gli zombi, appunto.C'è chi ritiene che si tratti di finte morti, in realtà, e quindi di finti risvegli, ottenuti grazie all'uso di droghe (come certe tossine estratte dai pesci palla). Il saggio di Seabrook ispira comunque un film, "White Zombie", del 1932, interpretato da Bela Lugosi (celebre vampiro dello schermo, e anche nel caso dei vampiri si parla di non-morti, per combinazione). Da qui in poi, gli zombi cominciano a imperversare, fino a George Romero che li rende come noi siamo abituati a riconoscerli. Gianmaria Contro, però, spazia attraverso tutte le forme e le manifestazioni del mito, con voli pindarici e caleidoscopici attraverso i secoli, le latitudini, i media, i folklori. E ci racconta anche gustosi aneddoti, come quello del crollo di una piattaforma durante le riprese di un film, con i soccorritori che non erano in grado di riconoscere i veri feriti tra i figuranti truccati da zombi che ne furono travolti.

giovedì 12 novembre 2020

LA FATA CARABINA

 
 
 
 

Daniel Pennac
LA FATA CARABINA
Feltrinelli
brossurato
240 pagine, 14 euro


Più giallo/noir o più grottesco? Più teatrino di personaggi improbabili, o più poliziesco con la caccia a un serial killer? O più affresco di costume? Difficile dirlo, probabilmente bisognerebbe ricavare per i romanzi del ciclo dedicato alla Famiglia Malaussène un genere tutto suo. Se qualcuno avesse cominciato a sospettarlo con il primo libro della saga, "Il paradiso degli orchi", con questo secondo "La fata Carabina" (La Fée Carabine), del 1987, ne avrebbe avuto la conferma. Benjamin Malaussène non lavora più come capro espiatorio presso i Grandi Magazzini, ma è stato assunto presso una Casa editrice con le stesse mansioni: addossarsi tutte le colpe. A casa sua, la mamma intanto si appresta a partorire una nuova sorellina nella già affollata Famiglia: anche questa senza padre, tanto ci pensano i fratelli (Benjamin in testa) a tirarla su. La casa è però ancora più affollata del solito, perché a giornalista d'assalto Julie Corrençon, di cui Benjamin è innamorato, l'ha riempita di vecchietti da salvare, i Nonni, come vengono chiamati. Salvare dalla droga: c'è infatti in giro una organizzazione criminale che ha scoperto il business dello spaccio di stupefacenti presso gli anziani, che quindi vanno disintossicati e controllati come in una comunità di recupero.I Nonni trovano una nuova ragione di vita nel raccontare storie ai piccoli di casa Malaussène. Drogare i vecchietti serve a liberare i loro appartamenti, che l'organizzazione acquista a poco prezzo e rivende, ristrutturati, a prezzo altissimo. Julie sta preparando uno scoop con cui intende denunciare il giro, ma i trafficanti la rapiscono e poi la gettano nella Senna per farla tacere: la ragazza finisce in coma. Intanto, nel quartiere parigino di Belleville, dove vive Benjamin, si aggira un serial killer che uccide vecchie pensionate e proprio una vecchia pensionata  uccide un poliziotto con un colpo in testa. I casi si intrecciano e si ingarbugliano così che, per uno strano gioco del caso e della sorte, proprio Malaussène finisce per essere il più probabile colpevole di tutto: perfetto capro espiatorio anche al di fuori del lavoro. Protagonisti al pari  di Benjamin, i poliziotti che indagano sul caso. Soprattutto due: il giovane Pastor, che riesce misteriosamente a far confessare chiunque finisca sotto il sui interrogatorio (i suoi colleghi non capiscono come faccia) e l'anziano Thian, che si traveste da vecchietta per cercare di attirare allo scoperto il serial killer. Fra i personaggi improbabili ma suggestivi c'è il croato Stojilkovicz, un vecchio amico di Benjamin, che ogni domenica guida un pullman carico di vecchiette a fare una gita turistica, e che finisce per addestrarle all'uso delle armi per difendersi dall'assassino. Senza dubbio il registro grottesco contamina le pagine (anche le più truculente) del noir, e va riconosciuto a Pennac un grande talento di tratteggiatore di personaggi e situazioni, tanto che si crede volentieri anche alle trovate più assurde e gli si perdona l'abuso del politicamente corretto più radical chic (i poliziotti sono razzisti e pestano gli arabi, i francesi devono portare il lutto e camminare a testa bassa per il loro colonialismo, i buoni sono tutti impegnati nel sociale, eccetera).

lunedì 9 novembre 2020

SULLE RIME DEL DON

 


 

Franco Gabici
SULLE RIME DEL DON
Edizioni Essegi
cartonato, 1996
300 pagine, 28000 lire


Don Anacleto Bendazzi, prete ravennate, fu uno dei più geniali autori italiani di giochi di parole. Talmente geniale che, per fare un esempio, se credete che la parola italiana più lunga sia precipitevolissimevolmente, di ventisei lettere, identificata nel 1677 da Francesco Moneti, vi sbagliate.
Don Anacleto ne ha trovate tre più estese: incontrovertibilissimamente,particolareggiatissimamente e anticostituzionalissimamente (di ventisette e ventotto lettere). E ancora, talmente geniale da aver scritto una “Vita di Cristo in mille anagrammi”. Uno è questo: “Nell'orto di Getsemani, - sento dolenti lagrime”.  La maggior parte dei giochi del Bendazzi sono contenuti in un libretto rarissimo, stampato in sole duemila copie, intitolato “Bizzarrie letterarie”. Il libro, pubblicato a spese dell’autore, risulta finito di stampare “il 15-1-‘51", una data scelta apposta perché palindroma (si legge anche da destra a sinistra) e ambigrammatica (si legge anche capovolgendo il sotto e il sopra). Sulla sua tomba, c'è l’epitaffio che don Anacleto si scrisse dice: Putredine - di un prete / storico di - Cristo Dio. Ovviamente, la seconda parte di ogni frase è l’anagramma della prima. Ma la cosa più incredibile è che Bendazzi è morto all'età di 99 anni (numero palindromo) in una data anch'essa palindroma e ambigrammatica, il 28-2-’82. Altro che madonnine che piangono sangue, sono questi i veri miracoli.
Franco Gabici ricostreuisce in questo suo libro la biografia di don Anacleto, e aggiunge tutta una serie di facezie, rime, annotazioni enigmistiche rimaste inedite. Senza dubbio Bendazzi fu un prete sui generis, che rifuggiva, per esempio, la confessione (all'inizio del suo apostolato, fuggì a gambe levate dal confessionale e mi più volle ritornarci), e non adatto alla cura di una parrocchia. Fu però così geniale nello studio delle lingue classiche e dell'ebraico, da fare l'insegnante per tutta la vita, e insegnante di quelli tosti. Entrò in corrispondenza con Giovanni Pascoli, anch'egli esimio latinista, per contestargli certe obiezioni aii suo componimenti in latino, e Pascoli si trovò a dargli ragione. Nella metrica latina e greca non conosceva rivali. Fu anche un cultore di fotografia e trovò il modo di ottenere scatti impossibili con giochi di specchi (uno celebre lo mostra al tavolo da lavoro, con su un vassoio la sua testa decapitata da una illusione ottica). Uno degli scritti ritrovati da Gabici risolve in modo assolutamente convincente il mistero del verso 43 dell'ultimo canto del Purgatorio, là dove Dante scrive (e nessuno sembra aver capito cosa voglia dire), "un cinquecento, un dieci e cinque; Messo di Dio". Mi chiedo se i dantisti si sono accorti che la spiegazione di don Anacleto è perfetta. In ogni caso, dopo aver messo le mani su "Sulle rime del don", la caccia è aperta per procurarsi "Bizzarrie letterarie", da tempo introvabile.

giovedì 5 novembre 2020

ELLERY QUEEN NON SBAGLIA

 

 
Ellery Queen
ELLERY QUEEN NON SBAGLIA
A cura di Marco Polillo
Mondadori
cartonato, 510 pagine
1980, 9500 lire


Ellery Queen figura come autore dei gialli che hanno Ellery Queen come protagonista, ma dove Ellery Queen non racconta in prima persona ma viene raccontato in terza. Ellery Queen personaggio non esiste, essendo d'invenzione, ma neppure Ellery Queen scrittore esiste, essendo lo pseudonimo utilizzato da due cugini, i newyorkesi Frederick Dannay (1905-1982) e Manfred Bennington Lee (1905-1971), nell'arco di tempo che va dal 1929 al 1972. La coppia ha firmato circa quaranta romanzi e svariati racconti, da "La poltrona n° 30",  a "La prova del nove", postumo a Lee - morto alcuni mesi prima. Dopo la scomparsa del cugino, Dannay non volle più proseguire con la serie.
Ellery è uno scrittore di gialli, come Jessica Fletcher, e come lei investigatore dilettante (chiaramente è la Fletcher a venire dopo). Suo padre, Richard Queen, è un ispettore della Squadra Omicidi della polizia di New York. In alcuni casi Ellery indaga da solo, in altri affianca il padre.
Il personaggio divenne così famoso da consentire la nascita di una rivista, l' "Ellery Queen's Mystery Magazine", destinata a fare scuola e a lanciare decine di giovani giallista.
"La poltrona n° 30", il primo romanzo della serie, è quello d'apertura in questa antologia, che ne contiene anche un altro, "Il paese del maleficio", più quattro racconti di lunghezza variabile. Davvero una lettura accattivante, perché Dannay e Lee scrivono in maniera chiara, persuasiva, efficace, gradevole. Il loro è stato definito "il romanzo-enigma", in cui l'autore mette davanti al lettore tutti gli indizi e gli chiede di risolvere il caso, se ne è capace. Di solito, i sospetti sono un numero ristretto di persone, tra cui scegliere.    Se il meccanismo sembra facile da gestire, Ellery Queen in realtà propone soluzioni non banali, convincenti, logiche. Tra le storie del volume curato da Marco Polillo, a me è piaciuta molto la seconda, "Il paese del maleficio", del 1942, con Ellery che quasi si innamora e ha un caso di avvelenamento da risolvere.

martedì 3 novembre 2020

INSEGUENDO QUEL SUONO

 
 

 
Ennio Morricone
Alessandro De Rosa
INSEGUENDO QUEL SUONO
Mondadori
cartonato - 2016
490 pagine - 22 euro

Ennio Morricone si è spento nel luglio del 2020, all'età di 92 anni, in quella Roma dove era nato nel 1928. A partire dal gennaio 2013, fino al maggio del 2015, il giovane musicologo e compositore Alessandro De Rosa (classe 1985), si è incontrato con il compositore per raccogliere dalla sua viva voce ricordi e riflessioni sulla sua arte e sulla sua vita. Il risultato è questo straordinario libro che lascia stupefatti. Il ritratto che ne viene fuori è quello di un artista tanto geniale quanto schivo, metodico, professionale, instancabile e incredibilmente versatile. L'autobiografia dettata da Morricone comincia con il compositore raccontato attraverso la sua passione per gli scacchi, di cui è stato un cultore e anche un campione: non per caso, visto che il metodo necessario per vincere sulla scacchiera non è poi così diversi dal gioco delle note sugli spartiti, dove nulla è lasciato al caso. Poi si passa a parlare di suo padre trombettista e degli studi in conservatorio, dove fu allievo di Goffredo Petrassi, uno dei massimi compositori di musica contemporanea, soprattutto noto per il suo astrattismo atonale. Da questa esperienza deriva, oltre che dalla propria personale sensibilità, il desiderio che ha accompagnato Morricone di scrivere musica "assoluta" (da lui distinta da quella "applicata", cioè al servizio di un film e o di altre espressioni artistiche o comunque altri usi), e di farlo rompendo gli schemi della tradizione, della tonalità, del consenso più facile. Questa dicotomia fra musica alta, colta, di difficile lettura, e quella più vicina ai gusti di un pubblico non iniziato lo ha in qualche modo inquietato tutta la vita, spingendolo a interrogarsi su come si potesse ricomporre la frattura. A lungo  il compositore si è prestato alla musica "applicata", e quindi agli obblighi imposti dalla committenza (senza mai asservirsi a essa, beninteso), cercando di sperimentare quanto più possibile, e continuando comunque a scrivere anche musica "assoluta", al punto che la cronologia dei brani di quest'ultima finisce per essere un elenco lungo sei pagine di "Inseguendo quel suono", contro le diciotto occupate dalle centinaia di titoli di film per i quali Morricone è soprattutto noto. Il successo internazionale del musicista come compositore di colonne sonore ha comunque portato a un riconoscimento di questa particolare manifestazione artistica come espressione di musica in grado di raggiungere le vette più alte. Oggi, tutti riconoscono la grandezza del maestro anche negli arrangiamenti fatti per anni, all'inizio delle sua carriera, per le produzioni della RCA; e del resto il compositore era in grado di arrangiare brani di ogni tipo in tempi rapidissimi, quasi stupefacenti, ricorrendo per altro a strumenti insoliti, o a combinazioni di strumenti sperimentate in ogni possibile contaminazione (alla ricerca, appunto, di "quel suono"). Estremamente interessanti sono, nel libro, le parti in cui si raccontano gli incontri con i registi più diversi, da Pier Paolo Pasolini e Carlo Verdone, e il  modo in cui il maestro si è appropriato alle immagini dei loro film, studiando sempre soluzioni innovative. Se queste narrazioni fanno la gioia dei cultori di cinema, Morricone e De Rosa, tuttavia, si dilungano in analisi approfondite delle tecniche musicali, arrivando persino a commentare degli spartiti. E qui, il non iniziato ci si perde. Perché discutere di unità frescobaldiane o di dodecafonia, e di mille altri tecnicismi affascinanti quanto criptici, fa perdere l'orizzontamento. Soprattutto, fa capire quanto la musica sia complicata dietro la parete di bellezza estetica fruibile da tutti, come le componenti di un macchinario perfettamente funzionante nascoste dal pannello che le copre, o come gli organi interni di un corpo umano di cui ammirano le forme esteriori. Noi comuni mortali ascoltiamo una musica e possiamo solo dire se ci emoziona oppure no, il musicista capisce l'architettura che c'è dietro. In appendice, registi e musicologi lasciano le loro (interessati) testimonianze sulla figura di Morricone.

domenica 1 novembre 2020

LO SPETTRO E IL DOTTOR FELL

 
 

 
John Dickson Carr
LO SPETTRO E IL DOTTOR FELL
Classici del Giallo Mondadori
brossurato, 1995
210 pagine, 6500 lire


Del giallista americano John Dickson Carr (1906-1977) è noto lo straordinario talento nel congegnare soluzioni per i delitti nelle camere chiuse, vale a dire quegli assassinii commessi in una stanza il cui accesso è bloccato dall'interno e dove, una volta aperta la porta, si trova solo un cadavere senza che l'uccisore abbia potuto, almeno apparentemente, fuggire. In moltissimi dei suoi romanzi e racconti si ritrovano casi del genere. Nel suo capolavoro nell'ambito di questo sottogenere del giallo, "Le tre bare" (già recensito in questo spazio), lo scrittore non solo enumera tutte i possibili escamotage che giustifichino quel che in fin dei conti è un gioco di prestigio, ma si rivolge anche in prima persona al lettore mettendo le mani avanti contro chi volesse contestare l'elaborata complessità dei suoi meccanismi: se qualcuno vuole casi polizieschi in cui le vittime muoiano come di solito si legge nelle pagine di cronaca nera dei giornali, legga quelle. Lui intende proporre casi eccezionali, in cui gli assassini architettano piani mefistofelici, perché la letteratura è finzione e il genere in cui Dickson Carr si applica è una sorta di partita a scacchi con il lettore. Non importa che la soluzione sia probabile, basta che sia possibile. Anche "The House at Satans Elbow" (tradotto con "Lo spettro e il dottor Fell" dai curatori del Giallo Mondadori che hanno voluto mettere nel titolo il nome del più famoso tra gli investigatori del giallista) propone una camera chiusa, in cui però viene commesso soltanto un tentativo di omicidio: non c'è, in realtà, nessuna morte su cui indagare, soltanto un (pur grave) ferimento. Il romanzo è del 1965, e colpisce un insolito indugiare sui risvolti sessuali di alcune relazioni amorose, cosa che sarebbe stato difficile trovare negli scritti degli anni precedenti. Pur essendo americano, Dickson Carr è un maestro del cosiddetto "giallo all'inglese", non solo per la tipologia dei casi ma anche per il set delle sue storie, ed è inglese anche Gideon Fell, criminologo in pensione (protagonista di oltre venti romanzi) ideato sulle sembianze di Gilbert Keith Chesterton (lo scrittore dei racconti di Padre Brown) che, a sentire l'autore, lo ispiro. Perciò, la vicenda si svolge in una villa inglese, dove ha luogo una riunione di famiglia che deve decidere a proposito di una discussa eredità lasciata dal vecchio Clovis Barclay, padre di tre figli (Nicholas, Pennington ed Estelle), destinata però a un nipote, Nick (figlio di Nicholas, che è morto a sua volta tempo prima). Nick vorrebbe rinunciare all'eredità del nonno, e ristabilire buoni rapporti con gli zii che si sentono traditi dal burbero e imprevedibile padre.  Tutto bene, dunque, se non che qualcuno, a famiglia riunita, tenta per ben due volte di assassinare il bizzarro zio Pen, uomo dall'animo d'artista, facilmente preda di forti emozioni. Il secondo tentativo avviene quando Pennington si trova solo in una stanza in cui si sta cambiando d'abito e che dunque ha chiuso a chiave dall'interno. Udito uno sparo, gli altri famigliari riescono a entrare forzando la porta e trovano Pen disteso a terra in fin di vita, accanto alla pistola ancora fumante, colpito da un proiettile esploso a bruciapelo, come testimoniano le bruciature di polvere da sparo. Nella stanza, però, non c'è nessuno. Si potrebbe pensare a un tentativo di suicidio, ma Gideon Fell (accorso sul luogo quasi per caso) ritiene che invece qualcun altro abbia premuto il grilletto di quell'arma. La soluzione del giallo è possibile, nel senso che effettivamente quel che viene proposto può accadere (non ci sono magie, solo giochi di prestigio), certamente bisogna stare al gioco e non attendersi che tutte le circostanze si possano comunemente verificare una dopo l'altra nella vita di tutti i giorni. Si tratta di un caso singolare e come tale eccezionale e se volete qualcosa di più credibile Dickson Carr vi manderebbe al diavolo consigliandovi di leggere la cronaca nera sui giornali. Vero è che tutto teso a creare il suo meccanismo, il giallista non ha l'eleganza della Christie, che rende le sue storie molto più credibili. Dickson Carr va a nozze con i personaggi da feuilleton, con i tipi bizzarri, con le ambientazioni cupe. E, purtroppo, anche Gideon Fell (pur avendone l'intuito) non ha lo spessore di Hercule Poirot.