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domenica 28 luglio 2024

FRANKENSTEIN

 



Mary  Shelley
FRANKENSTEIN
Newton & Compton Editori
2003, brossurato
150 pagine

L’edizione di “Frankenstein o il moderno Prometeo” che ho letto è contenuta in una antologia (pregevole in tutto tranne che nel titolo, “Mostri & Co”) insieme ad altri classici ottocenteschi della letteratura horror, praticamente quelli fondativi del genere, come “Dracula” di Bram Stoker, “Il Golem” di Gustav Meyrink, “Il dottor Jekyll e mister Hyde” di Robert Louis Stevenson, “Il signore dei lupi” di Alexandre Dumas, “La mummia” di Theophile Gautier”, “Il vampiro” di John William Polidori. Ciascun romanzo è preceduto da una approfondita introduzione critica. Nel caso di “Frankenstein” c’è anche la nota dell’autrice, Mary Shelley, che fu premessa all’edizione del 1831, la terza e definitiva, dopo quelle del 1818 e del 1823. “Ho accolto con piacere la richiesta dell’editore affinché fornissi qualche informazione su com’è nata la storia”, scrive la Shelley, “perché così potrò dare una volta per tutte risposta a un quesito che mi viene posto con tanta frequenza: come ho potuto io, allora una ragazzina, concepire e sviluppare un’idea così orrenda”. Quando l’idea di “Frankenstein” prese corpo si era nel 1816 e l’autrice aveva soltanto diciannove anni (essendo nata nel 1797). La vicenda è nota: si trovava con il marito, Percy Bysshe Shelley, ospite di lord Byron a villa Diodati, sul lago di Ginevra, in Svizzera, e con loro c’era anche John William Polidori, che di Byron era il medico personale. Il 1816 fu “the year without summer”, l’anno senza estate, per le conseguenze che ebbe sul clima europeo l’eruzione di un vulcano asiatico. I quattro amici furono costretti a restare in casa per giorni e giorni a causa della pioggia incessante, e la forzata clausura li portò a concepire una sorta di sfida: “ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi”, propose lord Byron. E la storia di fantasmi di Mary Shelley fu quel “Frankenstein” che le avrebbe portato fama imperitura. Nella sua versione definitiva, quella del 1831, il romanzo della Shelley è un vero gioiello di scrittura. L’analisi delle fonti, delle implicazioni filosofiche, delle influenze sulla letteratura, della fortuna multimediale, dell’iconografia collegata ai due protagonisti (lo scienziato Frankenstein e la creatura da lui portata alla vita) ha riempito centinaia di saggi e di disamine (ne citerò una in grado di compendiarne la maggior parte “Frankenstein, il mito tra scienza e immaginario”, di Marco Ciardi e Pier Luigi Gaspa, edito da Carocci). Certo di non potere aggiungere niente di originale (neppure rimandando ai robot di Asimov, o alla versione di Dean R. Koontz, piuttosto che al Molok zagoriano), mi limiterò a qualche brevissimo appunto. 
Innanzitutto, se qualcuno si chiede se valga la pena di leggere un romanzo scritto nel 1818, temendo una lettura resa faticosa dalla polvere del tempo, la risposta è “assolutamente sì”. Vale la pena. Certo, non è un romanzo di Stephen King (che non sarebbe stato Stephen King senza Mary Shelley), ma si legge con facilità e piacevolezza. Non è neppure troppo horror, nel senso che l’autrice non calca la mano e le emozioni derivano non da scene splatter e violente, ma dal turbinare di inquietudine e disperazione che agita le menti dei due protagonisti, Frankenstein e la sua creatura, che si giudicano entrambi maledetti dall’esperimento che il primo ha condotto e alla seconda data una vita non richiesta e diversa da quella degli altri. Un po’ invecchiata è la struttura, divisa in tre parti (la prima pubblicazione avvenne del resto in tre volumi), con una prima sezione marinaresca-avventurosa narrata dal capitano di una nave che scrive alla sorella raccontando la sua missione esplorativa tra i ghiacci artici, poi una seconda occupata dal resoconto di Frankenstein, qui una terza in cui è la creatura a raccontare le cose dal proprio punto di vista. Mi ha colpito la scoperta del mondo attraverso i sensi, che insegnano al mostro attraverso l’esperienza (mi ha ricordato il “Trattato delle Sensazioni” di Condillac). Mi sono stupito anche del fatto che lo scienziato avesse l’intenzione di dar vita a una creatura di bell’aspetto (intenzione poi fallita) e ho trovato la spiegazione del perché il mostro fosse così gigantesco: lavorare sul formato grande era più facile. Mancano gli approfondimenti scientifici (non si accenna a come Frankenstein possa aver fatto quel che ha fatto), mancano riferimenti al divino (la creatura ha un’anima?), non c’è nessun castello isolato colpito da un fulmine. In ogni caso, ben fatto Mary.